Vodka Lemon

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Un film di Hiner Saleem. Con Romen Avinian, Lala Sarkissian, Rosanna Vite Mesropian, Ivan Franek, Armen Marutyan Drammatico, durata 88 min. - Francia, Italia, Svizzera, Armenia 2003. MYMONETRO Vodka Lemon * * * - - valutazione media: 3,30 su -1 recensioni di critica, pubblico e dizionari.
   
   
   

VODKA GELATA Valutazione 3 stelle su cinque

di THEOPHILUS


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mercoledì 29 gennaio 2014

VODKA LEMON
 
 
Un piccolo film, quello del regista armeno Hiner Saleem: una storia, però, ben proporzionata, piacevole, a tratti anche comica, più spesso commovente. Quello che invece non vi abbiamo trovato è la dimensione dell’angoscia, piccola o grande, che la scheda di presentazione a disposizione del pubblico nella sala dove abbiamo visto proiettata la pellicola, dava per scontata. Non crediamo, pertanto, di essere cinici, ma riteniamo che un film come questo cerchi di mascherare il deficit di contenuto – sarà il solito vizio culturale dell’intellettuale europeo – con un eccesso caricaturale che si vuole far passare per poetico. Alla lunga stentiamo a capire quale sia il reale confine fra la situazione sociale ed economica disastrosa e l’uso, lo sfruttamento parodistico che di quelle si fa a fini estetici e, magari, come tentativo  un po’ furbesco di captatio benevolentiae, un’esca gettata ad una classe intellettuale spesso disposta a dare il plauso – mossa dai sensi di colpa che l’opulenza le fa provare – a chi si piange addosso. In altri termini, siamo di fronte a un espediente retorico che forza a dismisura la realtà sociale? Oppure, i registi dell’est mentre da una parte calcano il tasto della miseria dall’altra lo alleggeriscono con l’arma della caricatura, quasi che vogliano  attenuare (per orgoglio?) certe nuances - un ammonimento a non prenderli troppo sul serio, insomma?
Le scene iniziali di Vodka Lemon ci fanno sperare nella forza visionaria, nella potenza evocativa e grottesca che abbiamo ammirato nei film di Emir Kusturica. Un letto che sembra girare da solo in mezzo ai ghiacci e alla neve e un vecchio che ripone in un bicchiere la dentiera per poi mettersi in bocca uno strumento a fiato e suonare ad un funerale, sembrano uscir fuori da Underground (1995) o, meglio ancora, da  Black cat, white cat (1998). Poi, però, il film si siede subito a descrivere il ristretto cosmo di personaggi piccoli anche nella loro miseria, non in grado di riscattare la loro condizione con atti di forza trasgressiva, umili schiavi del tutto incapaci di ribellarsi alla loro situazione, diseredati che si trovano a parlare quotidianamente con la moglie al cimitero, seduti su sedili a calice che li fanno sembrare sospesi a mezz’aria, quasi irreali o che si caricano sulle spalle armadi che cercheranno di vendere al mercatino; madri disposte a credere che le figlie portino a casa soldi guadagnati suonando il pianoforte negli alberghi e a cui viene tolto il lavoro perché non vendono abbastanza bottiglie di vodka lemon. Ce n’è abbastanza per rischiare ad ogni momento il larmoyant; persino la scena in cui un padre spara al genero che ha minacciato di rimandargli a casa la figlia incinta, è fatta con scarsa convinzione, non è riscattata da una visione almeno drammatica - non pretendiamo tragica - : in effetti i danni sono minimi e tutti si riappacificano.
Il regista vuole forse farci credere che la gente armena è altrettanto, se non di più, incapace di reagire alla sventura, imbelle e neghittosa, di quanto quella occidentale sia schiava, rimbecillita e impossibilitata a criticare un regime culturale che la condanna alla stupidità?
È senz’altro poetica l’immagine che chiude il film. Hamo e Nina, ridando vita a un pianoforte che, sotto il tocco delle loro dita, sembra veleggiare per la strada innevata, ci hanno delicatamente richiamato alla mente i personaggi che di frequente volteggiano nelle tele di Chagall. Però, anche questa ci è sembrata una scelta/non scelta: i protagonisti trovano rifugio in una situazione fiabesca – tutto il film, del resto, risente delle atmosfere dei racconti dello scrittore russo Afanasjef -  che è più una forma consolatoria, un cedere al ricatto dei sentimenti, un succedaneo di tutto il resto che manca, un inno al facile vogliamoci bene, all’amore come forza e bene rifugio in mancanza di qualcos’altro che riscaldi; cosa che magari riuscirebbe a funzionare per un occidente che di sogni e poesia ha un reale bisogno. Non vorremmo invece che si finisse col trovare la poesia e la bellezza della miseria, vale a dire che passasse un’immagine retorica della bellezza della povertà di un mondo ancora del tutto digiuno di sviluppo economico e privo di ogni forma di sicurezza sociale.
Se pensiamo a Depuis qu’Otar est parti, il film di Julie Bertuccelli che abbiamo visto recentemente, di ambientazione molto simile e che tratta gli stessi problemi di Vodka Lemon, vediamo come l’atmosfera sia invece del tutto diversa. Al di là delle somiglianze formali – telefoni che non funzionano, attesa delle lettere e dei soldi provenienti dai figli all’estero, case fatiscenti, mercatini per la compra-vendita di oggetti, l’occidente (la Francia soprattutto) serbatoio di emigrazione per i giovani, parallelo fra come si stava prima e come si sta ora – Otar  si rivolge all’Europa come  speranza per il futuro, via d’uscita dal tunnel, causa ed oggetto di una reattività che riesce a scuotere non solo il personaggio della giovane nipote, ma, soprattutto, quello – centrale nel film – della madre di Otar, figura mitica di donna dolce ma non remissiva, mite ma risoluta, amorosa e lungimirante. La situazione quotidiana di Hamo e Nina è invece quella di una dolorosa inedia, di un’apatia senza speranza. Quest’uomo e questa donna non hanno una dimensione concreta, pur vivendo nella loro sofferenza e dolore: sentimenti, più che intimi, di modesta entità e che rimangono dentro di loro; attività lavorative precarie e fini a se stesse, le loro – qualcosa d’incomprensibile come il nome di quel Vodka Lemon che sa di mandorla e che è il titolo del film: quasi una negazione, una contraddizione interna, perché, in fin dei conti, non si vedono  neppure personaggi che si ubriacano dalla mattina alla sera per non pensare alla loro condizione. L’unico riscatto è quel momento di abbandono poetico che riferivamo poc’anzi, che però, per quanto detto finora, ci è parso posticcio, buttato lì dal regista quasi per chiudere con un filo di speranza una storia scritta in punta di piedi, senza un vero calore, abitata da personaggi miniaturizzati e tristi che compongono un bozzetto a cui dà luce più la neve e il ghiaccio abbaglianti che non un calore che, freddo, si ritorce su se stesso. Piccolo mondo diseredato e sperduto in mezzo al gelo quello di Vodka Lemon e che, se non fosse per qualche automobile e un televisore, potrebbe appartenere a un secolo fa.
 
Enzo Vignoli
14 marzo 2004.
 
 
 
 
 

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