S.W.A.T. Squadra speciale anticrimine

Roberto Nepoti

Qua e là, S.W.A.T. Squadra speciale anticrimine lascia trapelare l'ambizione di essere un film al secondo grado, "décalé" come dicono i francesi: insomma, che fa un po' il verso a se stesso. Per esempio, si vedono su uno schermo-nello-schermo immagini della vecchia serie televisiva omonima e i personaggi pronunciano battute paragonando una poliziotta a Jennifer Lopez o spiegando che, per fare bene gli inseguimenti veri, è utile averne visti molti al cinema. Si tratta più di apparenza che d'altro; in realtà, il poliziottesco diretto da Clark Johnson (uno che si è fatto le ossa dirigendo serie tv come NYPD Blue o Law & Order) è il tipico film hollywoodiano a formula. Alto budget, star, effetti speciali e una trama appena abbozzata, basata su personaggi e conflitti estremamente tipizzati: poliziotto nero/poliziotto bianco, veterano/pivello, un criminale internazionale bastardo dentro, un ufficiale superiore stupido e vanitoso, ecc. Poche le donne, ossia una camerata che mena sodo e una fidanzata che, all'inizio del film, pianta Colin Farrell senza spiegazioni. Lui, che è l'agente Jim Street, ci resta maluccio; ma dato che i guai non vengono mai soli, si ritrova contemporaneamente sotto sanzione disciplinare per un salvataggio pericoloso. Mentre il suo collega getta il distintivo alle ortiche, Jim resta a lustrare fucili; finché, a riportarlo in azione, interviene il mitico sergente Hondo (Jackson), insofferente delle scartoffie ma carismatico come un antico maestro d'armi. Formata una sporca mezza dozzina, Hondo va alla caccia del terribile lestofante (Olivier Martinez, doppiato con l'accento francese dell'ispettore Clouseau) di cui sopra. La squadra lo incapretta; però lui offre milioni di dollari a chi lo libererà, scatenando la cupidigia armata di tutte le bande di Los Angeles. E il momento migliore del film, che qui ricorda certe "serie B" di John Carpenter, mentre il primo terzo sembrava soprattutto uno spot per il reclutamento in polizia. Però due ore sono lunghe e l'ovvietà prende di nuovo il sopravvento col procedere verso la fine: benché gli sceneggiatori si agitino tra stelle e stalle (lanciando gli agenti speciali in una caccia all'uomo nelle fogne, o facendo atterrare un aereo sul ponte della Sesta Strada), l'ultima parte ti strema di bang-bang e musica pompieristica, mentre germoglia l'angoscioso sospetto che un film così, modulare e ripetitivo com'è, potrebbe anche non finire mai. Finisce, invece, ma lasciando la porta aperta all'eventuale seguito.
Da La Repubblica, 28 novembre 2003


di Roberto Nepoti, 28 novembre 2003