La finestra di fronte

Esemplare di fiction televisiva della peggior risma spalmata sul grande schermo. Sceneggiatura catodica. Recitazione catodica (Girotti compreso). Fotografia catodica. La regia, al contrario, si distingue per incontenibili smanie autoriali. Ferzan Özpetek si sente un cineasta di classe e - nella convinzione che, a forza di ripeterla, questa idea contagi anche noi - ce lo strilla in faccia con tutti i mezzi che ha a disposizione. Con la messa in scena, facendo coesistere ed interferire elementi appartenenti a realtà temporali diverse. Se l'intento è decisamente chiaro - fare della confusione diegetica un riflesso della memoria disturbata di Simone/Davide Vèroli (Massimo Girotti) - l'effetto è legnosissimo e di una goffaggine pachidermica. Con la messa in quadro, muovendo continuamente e senza ritegno la macchina da presa. Non appena due personaggi sono seduti attorno a un tavolo, Özpetek scatta con degli oleosi carrelli circolari che vorrebbero captare ed avvolgere le vibrazioni emotive della situazione narrativa, e che invece la imbrattano di bituminoso sentimentalismo. Con la messa in serie, infine, sfoderando una delle ellissi più sguaiatamente autoriali che sia dato ammirare: sull'impronta di una mano insanguinata stampata su un muro, una plateale dissolvenza incrociata ci trasporta dal 1943 ai giorni nostri. Pochi istanti prima che ciò avvenisse, indovinando con terrore l'intenzione di Özpetek, ho detto a me stesso: "non lo farà mica in questo modo il salto cronologico..." Così è stato.