Irene Bignardi
La Repubblica
Punta alto, il nuovo film di Jim Jarmusch, presentato a Cannes 1995, punta a una meditazione sugli strani percorsi che prende la vita umana e sul suo inevitabile punto d’arrivo - la morte. E infatti si intitola Dead Man. Ma al di là di qualche risata un po’ faticosa e molto preparata, la sua bizzarra avventura western - che è anche il primo film di Jarmusch ambientato nei passato - non va lontano, e certo non nei territori della poesia a cui aspira il finale. Si potrebbe argomentare che il film d’epoca non sopporta troppa cinefilia e troppe citazioni, perché, in un certo senso, le porta già incorporate attraverso le distorsioni dell’occhio contemporaneo dell’autore. Insomma, il passato, salvo le debite eccezioni, è meglio prenderlo sui serio.
E invece per Jim Jarmusch questa lunga escursione nel West - che fotografa elegantemente in bianco e nero attraverso la lente del bravissimo Robby Muller - è l’occasione per un esercizio di cultura un po’ snob, per rimandi, per strizzate d’occhio.
Capita dunque che Johnny Depp, ribattezzato nel film William Blake, arrivi nel lontano West da Cleveland con una lettera di assunzione, pronto a prendere il suo posto di contabile in una fabbrica. Ma il lavoro è stato affidato a un altro, il padrone della fabbrica (Robert Mitchum) lo maltratta, un energumeno che si rivela essere il figlio del boss (David Byrne) lo aggredisce perché lo trova a letto con la sua donna. Insomma, il povero contabile si trasforma contro il suo istinto e la sua volontà in un assassino (anche se per legittima difesa) e si ritrova braccato e ferito nei boschi con tre bounty killer alle calcagna.
E fin qui andrebbe - quasi - tutto bene. Ma è la pensata originale di Jarmusch a far virare il film verso l’esercizio snobistico - quantomeno perché il modesto tasso di divertimento non riesce a far diventare il suo gioco una parodia riuscita: l’ex contabile che ha perso l’innocenza trova uno chaperon e una guida nella persona di un bizzarro indiano (Gary Farmer) che parla con la forbitezza di un laureato in letteratura inglese, ha uso di mondo molto più di lui e, come Ulisse (non è stato detto tante volte che il West e la sua epopea stanno all’America come i poemi omerici al Mediterraneo?), si chiama Nobody, Nessuno.
Nessuno si convince di avere a che fare con William Blake il poeta e prende sotto la sua ala protettrice l’imbambolato ragazzo di città, che imparerà presto a uccidere, si beccherà qualche pallottola e, dopo altre avventure un po’ noiose, verrà accompagnato dal suo amico a morire su una canoa che lo porterà verso il nulla.
Una maggior concisione e qualche punta in più - di humour, di drammaticità - avrebbe aiutato. Jarrnusch invece si limita a dilatare questa Odissea nei boschi delle Montagne Rocciose a una dimensione che la fragilità dell’idea e del pretesto non consente, sovraccaricandola per di più di sottotesti e di metafore. E Johnny Depp, vestito a quadrettoni e con una rosa di carta all’occhiello, ha ogni tanto l’aria di chiedersi, come Bruce Chatwin (ma per diverse ragioni): “Che ci faccio qui?”.
Da Irene Bignardi, Il declino dell’impero americano, Feltrinelli, Milano, 1996
di Irene Bignardi, 1996