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Irene Bignardi

La Repubblica

Fa notizia (notizia?) che Gian Franco Ferré manda in passerella a Parigi, tra applausi e stupori, una modella incinta di sei mesi. Niente di nuovo. Un pancione non diverso (quello di Ute Lemper) lo si vede in Prét-à-porter di Robert Altman che, in centotrentadue minuti di spettacolo, mette in scena un cast di “all stars”, da Marcello Mastroianni a Sophia Loren, da Lauren Bacall a Julia Roberts, da Tim Robbins a Rupert Everett, da Anouk Aimée a Kim Basinger. Una passerella di sfolgoranti e ossutissime top model che interpretano se stesse. I protagonisti, dallo stesso Ferré a Gianni Bulgari, da Sonia Rikyel a Gaston Lacroix, da Nicola Trussardi a Thierry Mugler, si concedono o si negano all’obiettivo, spiegano e teorizzano i frivoli ma economicamente importantissimi sistemi della moda. Vizi, virtù, agitazioni, interessi, adulteri, complotti, odi, amicizie (spesso “particolari”), inimicizie, vestiti, nudi, miserie (molte) e nobiltà (poca, secondo Altman) del gran circo della moda. Sophia Loren rifà per Marcello Mastroianni il celebre spogliarello di Ieri, oggi, domani (ma con poco successo). Ci si divertirà, probabilmente, alla cattiveria, al clima da pochade, alle gag, alle passerelle, a questo “Vogue” in movimento, al dietro le quinte e al sotto le lenzuola, forse anche alle cacche di cane che disseminano la storia (è una fine allusione?) e danno a molti personaggi l’occasione di sacramentare“merde”. Ma non vedremo un bel film.
Con ottimi argomenti si potrebbe sostenere esattamente il contrario. Altman è sempre Altman, un maestro assoluto del cinema corale, della drammaturgia polifonica, delle tessiture variegate e apparentemente casuali dove alla fine tutto trova il suo posto. Ma in questo caso le aspettative - amplificate a dismisura da una campagna promozionale che risuonava sui due fronti, quello della moda e quello del cinema - sono state altissime. E anche se nessuno rimpiangerà le due ore e dodici minuti passate a seguire il carosello altmaniano, resta il rammarico per il fatto che questo suo Nashville - come il film è stato ribattezzato per l’ovvia somiglianza strutturale con il meraviglioso Nashville - non è all’altezza del modello o di America oggi. Perché, più che una creazione coerente, è un contenitore brillante. Perché il celebrato gusto altmaniano per l’improvvisazione si traduce piuttosto in un accumulo di gag ed episodi legati dal filo dell’unità di luogo e di tempo. Responsabile, si potrebbe ipotizzare, il cattivo umore moralistico che trasuda da ogni minuto - o quasi - del film e che culmina nella grande passerella finale di nudi, lugubre e sinistra come certe immagini medievali che mostrano, sotto la bellezza, lo scheletro.
Esattamente al contrario di Nashville, Altman, vent’anni dopo, anziché ironizzare fustiga, anziché raccontare denuncia, senza un filo di pietà o di simpatia per i suoi Personaggi. Come se, nel corso della lavorazione, il mondo della moda da cui Altman sembrava inizialmente affascinato lo avesse invece irritato e respinto, sollecitando la sua vena più crudele e impietosa. A Nashville i personaggi della finzione sono tutti sgradevoli, pronti a vendere, tradire, ricattare, sparlare, farsi la forca. E non si salva nessuno, salvo il povero Mastroianni (che ha però giustamente l’aria un po’ imbarazzata per quello che gli fanno fare e indossare) e Anouk Aimée, che offre all’obiettivo un viso bellissimo e naturale, e il senso della dignità della sua professione.
Ce n’è ovviamente anche per le mosche cocchiere di questo gran circo - giornalisti, fotografi di moda, reporter tv, inviati vari - che si scannano tra di loro (come il terzetto “macbethiano” costituito da Linda Hunt, Sally Kellerman e Tracey Ullman), disprezzano il prossimo (come la sgradevolissima star della fotografia Stephen Rea), fanno domande sceme (come Kim Basinger in diretta tv), o copiano disinvoltamente le corrispondenze altrui: come fa Tim Robbins che, da cronista sportivo costretto a occuparsi della morte del gran patron della moda francese Jean-Pierre Casse!, si limita a trascrivere per il suo giornale quello che dice la giornalista di “Sky News”. Insieme a una deliziosa Julia Roberts, giornalista dall’alcol allegro, Tim Robbins è protagonista de! solo episodio felice del film, che vede i due, costretti dal caso, coabitare nella stessa stanza d’albergo (entrambi hanno perso i bagagli) e amarsi lietamente fino a che arrivano, con le valigie, i vestiti - e la perduta identità.
Altman è troppo intelligente, colto e abile per non disseminare il suo film di segnali di questo tipo. Ma lascia anche che lo sfondo debordi, in un imperfetto equilibrio tra la realtà (parziale) e la finzione (impacciata), che la narrazione si sfilacci in gag di bassa lega, che le idee si ripetano. E, spenti i riflettori, smorzata la musica, riposti i lustrini, Prét-à-porter resta nel ricordo come il film banale di un genio.
Da Irene Bignardi, Il declino dell’impero americano, Feltrinelli, Milano, 1996


di Irene Bignardi, 1996

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