Genio per amore

Irene Bignardi

Dio forse non gioca a dadi con l’universo. Ma in compenso quel mattacchione di Albert Einstein, a quanto si evince da Genio per amore, si divertiva un mondo a giocare con il destino altrui, bonariamente ma pronto a tutto, pur di far quadrare matematicamente quella cosa incommensurabile che sono i sentimenti. E l’idea di partenza di Genio per amore di Fred Schepisi (in originale I.Q., Quoziente di intelligenza, una nozione che ridancianamente il film rimette in discussione) è divertente e garbata.
Siamo nell’estetica “i grandi sono come noi”. Vediamo insomma come Albert Einstein, nei suoi anni di Princeton, si divertisse un mondo con altri tre mattacchioni di genio (tra cui Kurt Godel, il grande logico-matematico), tutti e quattro eternamente fanciulleschi e giocherelloni
come ogni spirito libero che si rispetti. E vediamo come da questa libertà di spirito nasca in Einstein la convinzione che la sua graziosa e intelligente nipotina non può e non deve sposare il noiosissimo psicologo con cui è fidanzata. Meglio, molto meglio il simpatico meccanico che irrompe per caso nelle loro vite, e che ha il pallino dell’astronomia e della fisica.
Che fare? Semplice. Si fa finta che il ragazzone sia un genio, lo si istruisce a dovere, lo si aiuta con ogni trucco a superare i test di cui è disseminata la carriera accademica, si prendono per i fondelli l’establishment scientifico di Princeton e la bella boccalona annunciando che il giovinotto ha inventato la fusione fredda e sperando che la seduzione intellettuale entri in sinergia con la chimica dell’attrazione sessuale.
Per la prima metà il film scorre oliato e sorridente sui binari di Frank Capra, Preston Sturges e le vite degli uomini illustri rivisitate per i ragazzini, grazie anche a un’irresistibile incarnazione einsteiniana di Walter Matthau, a Tim Robbins goffamente simpatico, a Meg Ryan - cui gioverebbe però un tono un po’ meno smorfioso - e a qualche gustosa battuta (“Ma lei è Albert Einstein!” se ne esce il giovane meccanico vedendo lo scienziato. “La ringrazio,” risponde l’altro). Schepisi ricostruisce con garbo la Princeton anni cinquanta, con tanto di Institute for Advanced Studies e di Palmer Hall. E i suoi sceneggiatori Andy Breckman e Michael Leeson (cui si deve La guerra dei Roses) giocano amabilmente con gli scontri tra scienza e amore, tra logica e sentimento, tra sapere ed essere, volgarizzando qui e là (il paradosso di Zenone spiegato al popolo), filosofeggiando amabilmente (“Sono le più grandi menti del mondo. E chi dice che abbiano tutte le risposte?” soprattutto se si parla di problemi del cuore...), e sostenendo con convinzione che le passioni non sono definibili, comprensibili o governabili dal mondo della razionalità.
Purtroppo dopo un’ora il gioco si affloscia, diventa lezioso, e lascia un retrogusto esageratamente dolciastro, sottolineato dalla colonna sonora ispirata (certo, siamo tra i grandi dell’astrofisica) a Twinkle twinkle little star. Come capita sempre più spesso nei film made in Usa, fa capolino un presidente (qui un Eisenhower benignamente pronubo). Ancora una volta, della deliziosa idea si sarebbe potuto fare un vero bel film, che in omaggio a un’idea di cinema popolare viene invece tradita a favore di un sentimentalismo bugiardo.
Da Irene Bignardi, Il declino dell’impero americano, Feltrinelli, Milano, 1996


di Irene Bignardi, 1996