Cape Fear - Il promontorio della paura

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Un film di Martin Scorsese. Con Robert De Niro, Nick Nolte, Jessica Lange, Juliette Lewis, Joe Don Baker.
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Titolo originale Cape Fear. Thriller, durata 130 min. - USA 1991. MYMONETRO Cape Fear - Il promontorio della paura * * * - - valutazione media: 3,46 su -1 recensioni di critica, pubblico e dizionari.
   
   
   

Irene Bignardi

La Repubblica

Tanto vale dirlo subito. Cape Fear - Il promontorio della paura, versione Scorsese 1991 del romanzo di John MacDonald The Executioner, remake di un classico noir del 1962 diretto da J. Lee Thompson, grande successo di pubblico americano, non è un bel film. O meglio, certo che lo è. È un film fatto da un maestro del cinema contemporaneo al massimo della sua maturità professionale, è 1 esercizio di un genio della macchina da presa alle prese con un genere quantomai americano, è un trionfo della abilità e della confidenza nel mezzo cinematografico e nella direzione degli attori.
Ma è un brutto film, o, se si vuole, è un brutto film di Scorsese. La storia come la raccontava Thompson trent’anni fa era molto semplice, e ricalcava uno schema consolidato. Un Cattivo (Robert Mitchum) minacciava la famiglia del Buono (Gregory Peck), incarnazione della virtù borghese. Scorsese complica le cose, anche perché sappiamo ormai da un pezzo che il Bene e il Male non si possono dividere con una linea precisa. Finalmente libero dopo quattordici anni di prigione, Max - Bob De Niro, coperto di tatuaggi, mistico - fascista dalla testa ai piedi e imbevuto di dottrine superomistiche, ha un solo pensiero: vendicarsi dell’avvocato Bowden (Nick Nolte) che ha contribuito a farlo mettere dentro. Già, perché Bowden, che doveva difenderlo da un’accusa di violenza carnale, ha invece nascosto una prova fondamentale a suo discarico. Gli uomini per bene non sono più quelli di un tempo. Lo psicopatico Max di Bob De Niro, al cui confronto la recitazione del più eccessivo Jack Nicholson ha un rigore brechtiano, comincia la sistematica persecuzione della famiglia di Nolte, composta da una moglie nevrotica per le sporadiche infedeltà del consorte (Jessica Lange tra virtuosismo e manierismo) e da una ragazzina quindicenne che sente i primi risvegli dei sensi (ed è una vera scoperta, Juliette Lewis).
Il terribile Max - che come si vede qualche ragione dalla sua ce l’ha - sa scegliere come colpire. Minacce per gli adulti. Aggressioni a chi è loro vicino, compresa una signora con cui Bowden ha un abbozzo di tresca e a cui Max stacca senza tanti complimenti una guancia. Ha anche una perfetta conoscenza dei limiti entro i quali si può spingere legalmente (è stato quattordici anni a studiare la vendetta). Infine, sa che l’arma per colpire la ragazzina èla dolcezza. E, nella scena più terribile e più conturbante del film, in un’aula deserta della scuola trasformata nella scena teatrale per Cappuccetto rosso, la seduce puramente a parole, ottenendone una resa psicologica che significa anche il distacco dai genitori.
Se già la prima parte di Cape Fear gronda di eccessi, con qualche rara irruzione di humour (a Mitchum, che era il “cattivo” nella prima edizione del film, è ora affidato il “cammeo” di un moralizzatore), nel grande scontro finale lungo i canali della Louisiana tra Max il terribile e i Bowden, Scorsese dispiega insieme tutta la sua maestria di regista e tutta la volgarità di effettacci di un cinema horror di serie B: compresa l’indistruttibilità del cattivo, più immortale di Freddy Krueger e più feroce del Jaws di James Bond. Né bastano la complessità della sua visione cinematografica, il virtuosismo della cinepresa, il ritmo magistrale del montaggio di Thelma Schoonmaker o l’antimorale dello sconsolato finale, a fare di Cape Fear un bel film. D’altra parte, l’ha detto chiaramente lo stesso Scorsese: visto che il pubblico non va a vedere i miei film di cui sono fiero - tra cui metto Toro scatenato, Fuori orario, L’ultima tentazione di Cristo - l’ho accontentato con un film di genere fatto per denaro.
Da Irene Bignardi, Il declino dell’impero americano, Feltrinelli, Milano, 1996


di Irene Bignardi, 1996

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