Il falò delle vanità

Un film di Brian De Palma. Con Melanie Griffith, Bruce Willis, Tom Hanks, Kim Cattrall, Saul Rubinek.
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Titolo originale The Bonfire of the Vanities. Drammatico, durata 126 min. - USA 1990. MYMONETRO Il falò delle vanità * * * - - valutazione media: 3,00 su -1 recensioni di critica, pubblico e dizionari.
   
   
   

Irene Bignardi

La Repubblica

Che giova all’uomo conquistare il mondo se perde l’anima? Così filosofeggia autocritico, citando un celebre antico best seller, il giornalista scandalistico Peter Fallow, autore anche lui di un best seller premio Pulitzer, su Il vero Sherman McCoy, ovvero l’agnello innocente, mentre in una corsa vertiginosa girata con un magistrale piano sequenza viene portato, ubriaco come sempre, verso il suo trionfo mondano.
L’agnello innocente è Sherman McCoy, broker di Wall Street da un miliardo all’anno, wasp di Park, Avenue, marito, padre e amante felice, vittima di un caso scandalistico montato ad arte dallo stesso Fallow per il suo giornalaccio dopo che, per una svolta sbagliata, è finito nel Bronx con Maria, la sua amante, e ha accidentalmente investito un ragazzo nero che finirà per morire. E McCoy l’anima la ritrova, a quanto ci dice Il falò delle vanità di Tom Wolfe, da cui è tratto il film di Brian De Palma (cinquecentonovantasei pagine che non si lasciano mettere giù, e una prosa tra le più stravaganti del decennio).
Il film va più per le spicce e inevitabilmente sfronda sottigliezze e pentimenti, ma non per questo perde la forza della sua denuncia di una società in cui tutti sacrificano al dio denaro, alle lusinghe del potere e allo strumento della menzogna. Tutti. A partire dallo stesso McCoy, che si sente un padrone dell’universo e manovra miliardi di titoli più o meno fasulli a Wall Street, e dalla sua amante Maria (una caricaturale Melanie Griffith) che è alla guida al momento dell’incidente e si rifiuta di denunciare la cosa appena il caso esplode. Dal procuratore Weiss (F. Murray Abraham), il politicante ebreo pronto a ogni menzogna pur di assicurarsi la sedia di sindaco di New York, al reverendo Bacon (John Hancock), il predicatore nero, curiosamente simile a Gambadilegno, che dal pulpito non esita a sfruttare la morte del ragazzo per soffiare sull’odio razziale e sociale dei neri poveri contro i bianchi ricchi. Dal giornalista avvoltoio Peter Fallow, che pur di non andare alla deriva costruisce la grande carnevalata del caso scandalistico attorno a McCoy, alle donne (mogli, madri, amanti) tutte avide, bugiarde e/o insostenibilmente narcise.
La grande mela è marcia, dice Tom Wolfe con l’inimitabile prosa fantasiosa e barocca del suo primo romanzo dopo gli straordinari exploit di New Journalism (è a lui, tra l’altro, che va ascritta una delle locuzioni più alla moda di questi anni, quella di “radical chic”). Già il libro, nonostante il suo successo, aveva profondamente irritato il pubblico americano per la sua durissima critica a trecentosessanta gradi contro tutti i gruppi etnici - bianchi ricchi, bianchi poveri, irlandesi, neri, ebrei, colored - e contro tutti i valori accettati dalla cultura Usa.
Il film in America è stato accolto anche peggio. Eppure, nonostante almeno, due errori fondamentali (Tom Hanks nel ruolo di McCoy non è mai simpatico o di qualche charme, oltre a essere assai lontano dal modello di aristocratico wasp che ‘avrebbe dovuto essere, e Bruce Willis è una caricatura slavata di quello che avrebbe potuto essere nello stesso ruolo un attore sulfureo come Jack Nicholson), nonostante qualche scena sballata (la sparatoria di Tom Hanks contro gli ospiti della moglie), Brian De Palma, con un ritmo mozzafiato e uno stile tutto grandangoli e carrelli che riproduce la prosa trafelata e traboccante di Wolfe, ha costruito un film eccessivo e grottesco, iperrealista e corrosivo, che cattura sino all’ultima sequenza.
New York (e il mondo occidentale prossimo venturo) ne esce come un girone infernale di lussuriosi, simoniaci, barattieri, gente pronta a vendere il prossimo per un pugno di voti, una sveltina e qualche dollaro in più. Il conservatore Wolfe, cultore dei vecchi ideali americani, parla attraverso il vecchio padre McCoy, il buon capitalista all’antica che andava al lavoro in metropolitana. Ma non sono i valori capitalistici della ricchezza o del potere di per sé che Il falò delle vanità brucerebbe, quanto la loro esibizione, lo sperpero, la cattiva gestione pubblica, quello che Wolfe ha chiamato plutografia. E De Palma si scopre moralista attraverso la tirata finale del giudice nero Morgan Freeman che sembra la predica di un pastore vecchia maniera (e a proposito, a scanso di equivoci razzisti, trattandosi di un processo che contrappone un bianco ricco a dei neri poveri, si è pensato bene di rendere nero anche il giudice che, nel libro, era ebreo). Che piaccia o no con la sua carica barocca ed espressionista, con i suoi difetti e i suoi eccessi, con la sua aggressività savonaroliana, Il falò delle vanità è un film da meditare: e i meccanismi dell’ascesa e della caduta, della corruzione del potere e della falsificazione giornalistica hanno l’evidenza di un grande fumetto didattico.
Da Irene Bignardi, Il declino dell’impero americano, Feltrinelli, Milano, 1996


di Irene Bignardi, 1996

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