Affari sporchi

Irene Bignardi

Affari sporchi suona in americano Internal Affairs, che non sono semplicemente gli affari sporchi nei quali si muove con grande abilità un agente della polizia di Los Angeles, Dennis Peck (Richard Gere). Ma Internal Affairs, questioni interne, come si chiama l’ufficio della polizia incaricato di indagare sulle faccende della polizia stessa: in un certo senso, affari di casa. E Internal Affairs riassume perfettamente il senso del film perché mai, forse, in un film di genere poliziesco, thriller, noir, i delitti e i castighi, i corrotti e i corruttori, i crimini e i misfatti, il marcio insomma, si muovono tutti ed esclusivamente all’interno del mondo della polizia, nella casa della legge e dell’ordine o nella sua immediata periferia di informatori, complici e vittime.
Sofisticato, colto, elegante, ma anche capace di andare a toccare attraverso una storia lontana dalla maggior parte degli spettatori le loro insicurezze e incertezze più profonde, Mike Figgis perfeziona e porta alle estreme conseguenze una metafora e un paradosso già più volte proposto ma mai così chiaramente: il male forse non esisterebbe se non esistesse chi se ne occupa male. In questa Los Angeles, ritratta con astratta precisione dal britannico Figgis, tira anche un’aria da dramma della gelosia shakespeariano. Andy Garcia e Laurie Metcalf, ufficiali di polizia, sono incaricati di indagare su un personaggio troppo popolare, troppo ricco e troppo stravagante per non suscitare sospetti. Appunto Richard Gere - grigio, inquartato, molto bravo - che ha otto figli e uno in arrivo, una moglie e tre ex mogli con cui intrattiene una gamma di rapporti che vanno dalla complicità al sesso, un clan di protetti che grazie a lui hanno accesso a molti interessanti secondi lavori, un pozzo di soldi e poca voglia di far carriera. Ma soprattutto ha un’abilità sconvolgente nell’infilarsi nel letto delle mogli di amici e vicini e, dove non ci riesce, di insinuare in questi il dubbio sulla fedeltà delle loro donne e le loro capacità di amanti.
Ci prova e ci riesce anche con Andy Garcia, sventolandogli sotto il naso, novello Jago, un paio di candide mutandine e qualche dubbio sulla felicità sessuale di sua moglie (che è la bella Nancy Travis). E lo trascina, poliziotto
contro poliziotto, inquisitore contro inquisito, yankee contro latino, nella logica perversa della gelosia, verso un finale dove Richard Gere, purtroppo, dice qualche frase memorabile di troppo. Ma più che la storia e la sua oggettiva crudeltà (c’è persino uno yuppie che commissiona freddamente l’assassinio di due genitori scomodi), del film va a segno l’atmosfera nera, la nerissima eleganza drammatica delle immagini, la stupenda fotografia di John A. Alonzo e il cinismo scientificamente tarato della sceneggiatura di Henry Bean. E collaborano eccellentemente Richard Gere, Andy Garcia (che nella sua furia maniacale ha la parte più difficile) e Laurie Metcalf, che finalmente ci dà una donna poliziotto fuori dai cliché e dalle banalità sessiste. Ugualmente brillante, ma assai più inquietante di Pioggia sporca, sotto il riparo delle regole del poliziesco il film di Figgis va assai più in profondità, scavando nel malessere e nelle insicurezze. La polizia di Los Angeles è una miniaturizzazione e un modello del mondo. E il mondo secondo Figgis ha un cuore di tenebra.
Da Irene Bignardi, Il declino dell’impero americano, Feltrinelli, Milano, 1996


di Irene Bignardi, 1996