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Manhattan: una dichiarazione d'amore, un monumento senza tempo

Pieno di malinconia nascosta sotto il tappeto di un dialogo spumeggiante e arguto, il film di Woody Allen merita il suo posto intatto nella storia del cinema. Ora al cinema nella versione restaurata.
di Roy Menarini

Manhattan

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Woody Allen (Allan Stewart Konigsberg) (88 anni) 1 dicembre 1935, New York City (New York - USA) - Sagittario. Interpreta Isaac Davis nel film di Woody Allen Manhattan.
domenica 14 maggio 2017 - Focus

Che rivedere Manhattan restaurato su grande schermo faccia tutta la differenza del mondo, diventa chiaro fin dal primo minuto del film. Il celeberrimo skyline newyorkese, commentato dalla "Rapsodia in blu" di George Gershwin, perde immediatamente la polvere di citazione facile che aveva fino a quel momento nel ricordo dello spettatore, e riguadagna una potenza visiva inossidabile. Merito delle luci e dei bianchi e neri di Gordon Willis - qui grande coautore di Woody Allen, quasi a far pensare a una equa suddivisione (Woody il formidabile testo narrativo e Willis il nitore metropolitano). Ma merito anche dell'idea di Allen: immaginare un inno intellettuale e nevrotico per la Grande Mela proprio nel momento della sua massima sporcizia, decadenza, pericolo.

La fine degli anni Settanta, infatti, rappresenta uno dei picchi di violenza in città, e sono molti i film del decennio in via di conclusione che ne hanno raccontato la brutalità - primo fra tutti Taxi Driver, certo, ma l'alone di biblica perdizione si allunga sino al 1980 di Cruising, il grande film maledetto di William Friedkin.
Roy Menarini

Nulla di tutto questo in Manhattan, dove i luoghi sacri dell'intellettualità newyorkese - dal Guggenheim a Central Park, dai cineclub al planetario - vengono squadernati come le stazioni di una sacra rappresentazione borghese, bagnata da autoironia e umorismo ebraico. Una dichiarazione d'amore - come si è più volte giustamente detto - che ruota intorno ad alcuni personaggi che si cercano, si trovano, si lasciano, si riprendono, facendo i conti con i propri limiti (principalmente) e con le proprie differenze di età, professione, esistenza. Spiccano le due donne protagoniste del film, Mariel Hemingway (che fors'anche per qualche impaccio recitativo riesce a restituire con candore impensabile la fragilità dei suoi 17 anni) e Diane Keaton, ancora più bella in bianco e nero che nei colori - pur sempre basici, firmati Ralph Lauren - che Allen le aveva donato due anni prima in Io & Annie.


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In foto una scena di Manhattan.
In foto una scena di Manhattan.
In foto una scena di Manhattan.

Rivisto con gli occhi di oggi, e considerato il tempo che passa, Manhattan appare sempre di più come un monumento senza tempo, e incuriosisce per questo respiro simbolico che ogni tanto sovrasta le piccole scelte snob dei personaggi per abbracciare la metropoli nel suo indaffarato romanzo quotidiano. La distanza tra la storia della città, in tutta la sua bellezza interiorizzata che Allen e Willis riportano alla luce, e le vicende tutto sommato inutili, e privatissime, di Isaac, Yale, Mary, Tracy, potrebbe apparire abissale. Ed è invece proprio questo il gesto più sorprendente del regista e sceneggiatore, quello cioè di convincerci che i destini di questi brillanti ma insoddisfatti intellettuali si intreccino con le radici stesse della città, con la sua identità e la sua lunga storia.

Nel tempo che passa, forse oggi appare ancora più chiara l'influenza del cinema di Eric Rohmer, non troppo citata (se non nelle recensioni d'epoca) forse perché il passaggio dalla cultura francese a quella ebraico-americana, e da Parigi a New York, è tutt'altro che minimo. Eppure le "ronde" amorose sono quelle, le vanità e la sventatezze anche, per non parlare delle giovani virginee e ipnotizzanti che mettono in scacco uomini apparentemente maturi e pieni di esperienza della vita. Già, ma a che cosa serve l'esperienza se si continuano a commettere errori su errori?
Roy Menarini

Pieno di malinconia nascosta sotto il tappeto di un dialogo spumeggiante e arguto, Manhattan merita comunque il suo posto intatto nella storia del cinema, indipendentemente dal cinema europeo di cui è intriso fin nel midollo, perché Woody Allen è riuscito a trasformare tutta la propria vasta cultura letteraria e artistica in un'opera completa, compatta, umanamente viva e raffinata. E ogni volta che critichiamo Woody per non riuscire più a raggiungere certe vette, non dimentichiamoci che questo Everest cinematografico è davvero uno dei punti più alti che si possono raggiungere.


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