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mahleriano
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sabato 18 aprile 2009
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un grande manfredi...
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Ho sempre avuto un bel ricordo di questo film, rivisto di recente, e a tutt'oggi fresco, divertente, scanzonato e che ben riporta ad una certa Italia di quegli anni. E l'atmosfera di evasione e in parte di sogno nella quale lo spettatore viene proiettato ammirando quei magnifici paesaggi non mi hanno mai suggerito l'idea del documentario. Forse anche perché le musiche di Armando Trovajoli che le accompagnavano erano così carine, orecchiabili e trascinanti da far venire davvero voglia di partire immediatamente per questo mondo incantato e splendido.
Credo che nel film in realtà siano presenti in ugual misura ambedue le componenti: l'attacco in chiave comica al "provincialismo arrogante dell'italiano danaroso nel Terzo Mondo", di cui parla Morandini, e la scoperta del proprio io di cui parla il bellissimo commento di udro.
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Ho sempre avuto un bel ricordo di questo film, rivisto di recente, e a tutt'oggi fresco, divertente, scanzonato e che ben riporta ad una certa Italia di quegli anni. E l'atmosfera di evasione e in parte di sogno nella quale lo spettatore viene proiettato ammirando quei magnifici paesaggi non mi hanno mai suggerito l'idea del documentario. Forse anche perché le musiche di Armando Trovajoli che le accompagnavano erano così carine, orecchiabili e trascinanti da far venire davvero voglia di partire immediatamente per questo mondo incantato e splendido.
Credo che nel film in realtà siano presenti in ugual misura ambedue le componenti: l'attacco in chiave comica al "provincialismo arrogante dell'italiano danaroso nel Terzo Mondo", di cui parla Morandini, e la scoperta del proprio io di cui parla il bellissimo commento di udro. Personalmente mi sono fatto volentieri trasportare dal senso di avventura e coinvolgere dal vero e proprio mal d'Africa che progredisce con il progredire del film, e che forse di una ricerca ancestrale dell'io è il simbolo per eccellenza.
Quel mal d'Africa che culmina nella meravigliosa interpretazione di Manfredi e che in pochi istanti spodesta letteralmente tutto il lavoro fatto fino ad allora dal pur bravo Sordi. Lo sguardo così nostalgico e intenso che Manfredi rivolge in primo piano a quella che ormai è la sua vera gente, dà veramente la misura della grandezza di questo attore. In quello sguardo, contrapposto a quello dei bellissimi volti della popolazione che in lontananza lo prega di rimanere, c'è tutto il senso del film: il bisogno e la nostalgia continua di una libertà e di una purezza incontaminata che quell'ambiente rinnova ad ogni istante. E soltanto per averlo saputo fissare così bene il regista avrebbe meritato un premio.
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udro
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giovedì 22 gennaio 2009
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una fantastica avventura alla ricerca di sé stessi
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Lasciatevelo dire da chi in Angola ci ha vissuto per anni: questo film è un capolavoro!
La ricerca del cognato Titino nel continente nero porta l'editore Di Salvio, uomo dalle idee sempre chiare, a confrontarsi con realtà inimmaginabili nel suo mondo dorato (mondo o gabbia?) e nel corso di questa "anabasi" si assiste ad una prograssiva distruzione delle certezze del "nostro eroe" (emblematica l'ultima frase: "non ho le idee chiare...")
I personaggi principali sono super-azzeccati (Sordi giganteggia, Bernard Blier spalla perfetta, Manfredi semplicemente perfetto), ma la vera forza del film, a mio avviso, si deve ai ruoli secondari: Durabal, Tomeo, i preti della missione, Geneviève, la coppia di portoghesi, i mercenari del deserto, e la splendida cornice offerta dalla gente del posto, sradicano lo spettatore dalla realtà europea per proiettarlo nell'Africa Nera (in un'epoca poi dove questa parola aveva ancora un sapore di avventura e di mistero).
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Lasciatevelo dire da chi in Angola ci ha vissuto per anni: questo film è un capolavoro!
La ricerca del cognato Titino nel continente nero porta l'editore Di Salvio, uomo dalle idee sempre chiare, a confrontarsi con realtà inimmaginabili nel suo mondo dorato (mondo o gabbia?) e nel corso di questa "anabasi" si assiste ad una prograssiva distruzione delle certezze del "nostro eroe" (emblematica l'ultima frase: "non ho le idee chiare...")
I personaggi principali sono super-azzeccati (Sordi giganteggia, Bernard Blier spalla perfetta, Manfredi semplicemente perfetto), ma la vera forza del film, a mio avviso, si deve ai ruoli secondari: Durabal, Tomeo, i preti della missione, Geneviève, la coppia di portoghesi, i mercenari del deserto, e la splendida cornice offerta dalla gente del posto, sradicano lo spettatore dalla realtà europea per proiettarlo nell'Africa Nera (in un'epoca poi dove questa parola aveva ancora un sapore di avventura e di mistero).
La splendida e fedele ambientazione dà, ahimé, appena una vaga idea di quel meraviglioso Paese che è (o meglio era) l'Angola.
Quello che inizia come un viaggio alla ricerca del cognato si trasforma presto in un viaggio alla ricerca di sé stessi, delle cose veramente importanti. Man mano che i "nostri eroi" si addentrano nel territorio angolano, anche il loro viaggio interiore giunge a livelli di analisi e conoscenza più profondi, fino ad arrivare a mettere in gioco tutto.
Ed è nel finale che lo spettatore può fare una scelta: ovvero identificarsi con Titino, che non riesce a resistere al canto delle sirene nere ("ìì-ué-àà, ìì-ué-àà" è una trovata semplicemente geniale!!!) o con l'editore Di Salvio, il quale ha ormai preso piena coscienza ma non ha la forza per mollare tutto.
Pertanto, il vero messaggio del film non è, come si legge nella recensione, l'attacco al "provincialismo arrogante dell'italiano danaroso nel Terzo Mondo" bensì la scoperta del proprio io!
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