Un americano a Roma

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Il chiodo fisso dell'America contagia un ragazzone Valutazione 3 stelle su cinque

di GreatSteven


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venerdì 13 ottobre 2017

 UN AMERICANO A ROMA (IT, 1954) diretto da STENO. Interpretato da ALBERTO SORDI, MARIA PIA CASILIO, ILSE PETERSON, CARLO DELLE PIANE, LEOPOLDO TRIESTE, URSULA ANDRESS

A Roma vive il trentenne trasteverino Nando Moriconi (Sordi), nato e cresciuto nella capitale italiana, fidanzato con Elvira (Casilio), cameriera presso la villa di un deputato, figlio di un funzionario delle poste cui infligge, assieme alla madre, il suo peggior vizio: il suo chiodo fisso per l’America. Infatti il ragazzone veste sempre con jeans e maglietta bianca attillata, vede al cinema i film western e ne imita i pistoleri, si esprime in un inglese maccheronico con un’evidente inflessione romanesca e tenta senza il minimo successo di imbastire un musical alla Gene Kelly, ovviamente con lui come protagonista con un pomposo quanto ridicolo pseudonimo. Un giorno il suo pallino si trasforma in una mania talmente ossessiva che sale sulla cima del Colosseo e minaccia di buttarsi giù se non gli rilasciano un passaporto per gli USA. In un lungo flashback, veniamo a scoprire tre episodi rilevanti nel passato di Nando: 1.) un pomeriggio, vestito da poliziotto del Kansas City e con la fidanzata Elvira sul sellino di una motocicletta da lui stesso pilotata, incontra una coppia di americani che vorrebbe semplicemente mangiare del buon pesce in un ristorante ma, a causa di un equivoco naturalmente linguistico, Moriconi procura loro un incidente in un burrone nel quale precipita la macchina dei due, e l’uomo rimane ferito ad una caviglia; 2.) durante la Seconda Guerra Mondiale, Nando viene inviato, insieme all’amico di sempre Romolo Bellaccioni (Delle Piane), soprannominato Cicalone, in un campo di lavoro sorvegliato dai gerarchi nazisti, e riesce a mettersi in contatto con un plotone di soldati statunitensi, i quali, però, nonostante il riuscito tentativo di comunicazione, inizialmente vorrebbero condannarlo alla fucilazione per azioni di spionaggio e sabotaggio, salvo poi graziarlo perché lo stimano un pazzo; 3.) qualche tempo dopo, lavorando con Cicalone in un ristorante, incontra una pittrice d’oltreoceano (Petersen), Molly Brook, che crede sia innamorata di lui, ma la quale è in realtà interessata a lui soltanto perché lo ritiene, grazie al suo perfetto profilo romano, il soggetto ideale per dipingere un quadro con protagonista Nerone. Tornando al presente, vediamo Nando ancora in cima al monumento di Roma, e solo l’arrivo dell’ambasciata statunitense riesce ad accontentare l’americanofilo promettendogli un viaggio gratuito e un’offerta di lavoro nel Paese in cui sogna di andare a vivere. Peccato per il povero Moriconi che l’ambasciatore altri non sia che l’uomo vittima dell’incidente provocatogli da Nando qualche tempo prima, e allora non può esimersi dal riempirlo di botte fino a farlo finire in ospedale. Concluso lo stato di shock, Nando si risveglia, e secondo il primario del reparto dovrebbe essergli passata una volta per tutte la mania dell’America. Ma, evidentemente, usciti il medico, i parenti e gli amici, se Nando cancella la parola FINE e la sostituisce con THE END… Sordi s’era già fatto notare l’anno prima ne I vitelloni (1953), per il quale vinse un meritato Nastro d’Argento, e in questo film di Steno (al secolo Stefano Vanzina, 1917-1988), ala sua terza collaborazione artistica con L. Trieste, appare ancora più in forma, alle prese col ruolo che diede il definitivo decollo alla sua carriera di mattatore della commedia all’italiana: lo xenofilo che si fa contagiare dalle gomme da masticare, dagli eroi del cinema d’oltremare, dalle colazioni diversissime da quelle italiane (passata a tal proposito ad antologia la sequenza in cui Nando, disdegnato lo spuntino notturno a base di yogurt, latte, marmellata e mostarda, ripiega con un gustoso e abbondante piatto di maccheroni e una sorsata di vino rosso), dalla musica jazz, dagli attori statunitensi allora in auge e da tanti altri elementi che lo trasformano in un maniaco disposto a qualche scorrettezza o pazzia pur di ottenere lo scopo di trasferirsi in una nazione in cui si vede campione di baseball o, magari, di football. Il film di Steno, che lo ha anche scritto insieme ad Ettore Scola e a Sordi stesso, elaborandone pure il soggetto, riflette, con la debita enfasi esagerata, il clima italico dell’epoca: nonostante i nove anni trascorsi dalla conclusione del conflitto e della firma dei trattati di pace, a chi non piaceva giocare a far l’americano (e a questo proposito mancavano ancora due anni affinché Renato Carosone componesse e interpretasse il suo più celebre brano musicale proprio sul tema in questione)? Sebbene il 34enne Albertone nazionale, ormai famoso nell’Italia che iniziava a dargli i giusti riconoscimenti che meritava appieno, rubi sempre e comunque la scena a tutti, spiccano, fra i comprimari, la Casilio nel ruolo della fedele e affezionata morosa Elvira e Delle Piane nelle vesti di Cicalone, l’amico adolescente di Nando, che anch’egli non manca di dimostrargli il proprio favore sia quando zappano la terra sotto gli ordini della soldataglia tedesca, sia quando cuociono le frittelle nella tavola calda. Brava anche I. Petersen nelle vesti della pittrice cui servono sempre la presenza e il supporto del padre, da cui ha ereditato il talento, quando dipinge, e qui viene offerta l’occasione imperdibile per creare una delle gag più azzeccate dell’intera opera: Sordi, stordito, viene denudato, munito di alloro sul capo e di una lira in mano, per fungere da modello per il quadro sull’imperatore romano, è inizialmente rinchiuso in una camera dell’albergo in cui risiedono gli americani e, fuggendo da una finestra che rompe con una sassata, passeggia sui tetti di Roma entrando nelle inquadrature di una trasmissione televisiva condotta dal carismatico Fred Buonanotte, intralciando le riprese della troupe e scandalizzando col suo corpo nudo gli spettatori bigotti e divertendone i figli. Copione, regia e recitazione non bastano a rendere la pellicola un capolavoro, ma l‘esito finale strappa ben più di qualche sonora risata: il connubio efficace tra contributi tecnici e artistici permette di generare una saporosa commedia che i suoi detrattori, sbagliando (almeno per la prospettiva di chi scrive), han definito come uno sketch strascicato e prolungato, quando invece abbiamo a che fare quasi con un documento storico, o quantomeno con uno spettacolo allegro e divertente che prende in giro gli stereotipi, senza dare ragione ad europei od americani perché non sarebbe importato a nessuno né avrebbe costituito una cosa di qualche utilità, e veicola un messaggio significativo contro la pericolosità dei pallini portati alle loro estreme conseguenze, o meglio spintivi da una sorta di compulsività che sfocia nella ridicolaggine e in reiterati tentativi di realizzare sogni impossibili in quanto fantasmagorici ed eccessivi. Molto disomogeneo e a tratti perfino sgangherato, questo non si può negarlo, ma le trovate non mancano e arrivano sempre al momento giusto, esilarando lo spettatore che non vede disattese le proprie migliori aspettative.

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