Il film di Vittorio De Sica sviluppa nel profondo l'idea che il cinema possa essere guardato e
raccontato ad altezza di bambino. Dal 4 febbraio torna al cinema in versione restaurata.
di Roy Menarini
Circolano ancora oggi parecchie ambiguità sul neorealismo. Non un movimento unitario e compatto, ma nemmeno un serbatoio di film irrelati tra di loro, il neorealismo è stata prima di tutto una tensione intellettuale ed estetica verso le forme del raccontare attraverso le immagini. Se Rossellini ne è stato il rappresentante più filosofico e sofferto, Vittorio De Sica ha rischiato di essere sottovalutato presso la critica degli anni Quaranta e Cinquanta, insospettita dal desiderio di offrire racconti universali in forme popolari, e dunque di dialogare con un pubblico più ampio. E dire che fu proprio l'autore (e attore) romano a rifiutare per Ladri di biciclette (guarda la video recensione) una partecipazione produttiva statunitense e un attore americano, Cary Grant, che avrebbero garantito un successo internazionale squillante.
Oggi, per fortuna, Ladri di biciclette è considerato un capolavoro da tutte le audience del pianeta, anche per la sua capacità di farsi esempio globale di come si racconta la povertà.
Un po' come il crimine (mito narrativo del presente), anche la povertà purtroppo è comprensibile a tutte le latitudini, e anche se il
folclore di una trattoria o di un dialetto sembrano localizzare la storia nella Roma del dopoguerra, la riconoscibilità della condizione sociale permette a tutti gli spettatori - di qualunque origine siano - di identificarsi. Ed è per questo che Ladri di biciclette, forse più di altri film neorealisti, è stato preso a modello da tanti cineasti negli anni successivi, da Oriente a Occidente.
Se insistiamo tanto sulla lampante universalità del film scritto da Cesare Zavattini è anche per scrollargli di dosso la patina un po' scolastica di opera magna legata al periodo e dunque possibile mezzo per raccontare la storia italiana del dopoguerra, e restituirgli invece la forza primariamente narrativa e cinematografica con cui ha conquistato il mondo.
Quanto al testo, Ladri di biciclette sviluppa nel profondo l'idea che il cinema possa essere guardato e raccontato ad altezza di bambino. Lo sguardo del film è solo apparentemente soggettivo. In verità, tocca al piccolo Bruno interpretato da Enzo Staiola guidarci nell'affannosa ricerca della bicicletta da parte del papà. Bruno non è solo protagonista di uno dei finali più strazianti di sempre, ma anche colui che - attraverso un complesso schema di gestione dei punti di vista e delle inquadrature - si fa testimone della nostra coscienza spettatoriale e - come è stato più volte notato - configura anche una metafora del nuovo cinema
che nasce nel secondo dopoguerra. Nuovi occhi per nuove storie.