Ombre rosse

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Un film di John Ford. Con John Wayne, Thomas Mitchell, John Carradine, George Bancroft, Andy Devine.
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Titolo originale Stagecoach. Western, b/n durata 99 min. - USA 1939. MYMONETRO Ombre rosse * * * * 1/2 valutazione media: 4,66 su -1 recensioni di critica, pubblico e dizionari.
   
   
   

Una leggenda d'avventura e romanzo cinematografico Valutazione 5 stelle su cinque

di GreatSteven


Feedback: 70013 | altri commenti e recensioni di GreatSteven
lunedì 24 aprile 2017

 

OMBRE ROSSE (USA, 1939) diretto da JOHN FORD. Interpretato da JOHN WAYNE, CLAIRE TREVOR, JOHN CARRADINE, THOMAS MITCHELL, ANDY DEVINE, DONALD MEEK, LOUISE PLATT, GEORGE BANCROFT

A Tonto, nel 1880, una diligenza deve partire, diretta a Lordsburg, nel New Mexico, vicino alla frontiera meridionale. I passeggeri sono: Lucy Mallory, moglie incinta di un ufficiale dell’Esercito; un banchiere che ha derubato una cospicua valigia di lingotti e tagliato i fili del telegrafo perché non si sappia del suo furto; Hatfield, pokerista gentiluomo; e Samuel Peacock, mite rappresentante di liquori. Il conducente del carro è il simpatico Buck e la scorta armata è garantita dalla presenza del rude ma coraggioso maresciallo Curly Wilcox. All’ultimo minuto si aggiungono Josiah Boone, medico ubriacone, e Dallas, prostituta cacciata dal paese per la sua professione. Il viaggio sarà tutt’altro che facile perché il territorio da attraversare è devastato dagli Apaches di Geronimo in rivolta contro i cavalleggeri dell’Esercito. Poco dopo la partenza, sulla diligenza monta anche Ringo, galeotto finito ingiustamente dietro le sbarre, vecchia conoscenza del maresciallo Curly e con un amaro conto in sospeso coi fratelli Plummer, che gli hanno assassinato il padre e il fratello. La traversata è densa di eventi sconvolgenti, ma anche di gioie: fra le altre cose, Lucy partorisce la sua bambina, i distaccamenti dei soldati si rifiutano di scortare i passeggeri in un territorio così pericoloso e soprattutto la comparsa improvvisa degli indiani rischia di far fare una brutta fine all’intero convoglio, ma l’arrivo provvidenziale della Cavalleria sistema tutto per il bene dei viaggiatori. E soprattutto assumono un’enorme importanza le relazioni che si stabiliscono fra di essi: il dottore beve come una spugna tutte le bevande alcoliche del povero Peacock (da tutti scambiato per un sacerdote), il banchiere fuggitivo riesce solo a scontrarsi con tutti per il suo desiderio impellente di raggiungere, per ovvie ragioni, il prima possibile Lordsburg, il maresciallo comincia a comprendere le motivazioni che spingono Ringo a compiere la sua vendetta personale e anche i sentimenti d’amore che nutre per Dallas, bistrattata dagli altri passeggeri, ma da lui rispettata per la sua comunque immacolata onestà. Giunti a Lordsburg dopo aver dovuto subire una perdita (Hatfield, fin dall’inizio prodigo di attenzioni verso la moglie gravida del tenente, muore durante l’aggressione indiana), Ringo si sente a tutti i costi in dovere di saldare il suo vecchio conto e, aiutato da Boone e Wilcox, uccide i Plummer. Il film si chiude col dottore e lo sceriffo che concordano di bere un cicchetto e il calesse che accompagna a grandi falcate l’audace Ringo e la sua amata Dallas verso la fattoria di proprietà di lui, situata lungo le montagne della frontiera. La fonte d’ispirazione del film è unanimemente considerata il meraviglioso Boule de soif, racconto lungo di Guy de Maupassant, di cui l’opera di Ford ricalca la trama solo in parte e anche modificandone ampiamente il significato finale, ma in realtà alla base c’è pure Lordsburg, racconto di Ernest Haycox da cui lo sceneggiatore Dudley Nichols ha ricavato la storia cinematografica. Che costituisce un caposaldo inalienabile nel western, al punto che Ombre rosse è ritenuto la quintessenza per antonomasia di questo genere che, fin dagli esordi del cinema americano, ha riscosso un enorme successo in tutta la nazione perché ne raccontava il passato recente, analizzando con incredibile acume i rapporti fra i pionieri che ancora dovevano costituire lo Stato e i nativi americani, che vi risiedevano legittimamente da molti secoli prima. Il suo punto di forza, come moltissimi critici hanno sottolineato, è la definizione psicologica dei personaggi, e il conseguente ribaltamento degli stereotipi: individui di alto rango, di notevole ricchezza personale o di prestigio lavorativo vengono stroncati, primi fra tutti l’irascibile finanziere che scappa immediatamente dalla città dopo il suo ladrocinio ed escogita loschi sotterfugi per non farsi scoprire e, a modo suo, anche Boone (un T. Mitchell in perfetta forma, che si guadagnò un Oscar più che mai meritato), il quale non è però meno devoto alla sua professione che all’alcool, e lo dimostra in almeno due occasioni, ovvero quando assiste la puerpera durante il parto e quando mette in guardia i Plummer dalla determinatezza di Ringo; dal lato opposto, coloro che socialmente sarebbero detestabili, ossia il pistolero fuggito dal carcere e la meretrice, mostrano invece un carattere molto più denso di umanità, altruismo e carità, e non a caso sono gli unici a trovare un completo riscatto dopo quanto di male c’è stato nelle loro vite, progettando di sposarsi perché capiscono di essersi innamorati l’uno dell’altra di un amore che può fruttare meravigliosamente. Un cast di attori uno più bravo dell’altro, con un J. Wayne astro nascente non solo del cinema western e d’avventura, una C. Trevor a briglia stretta e di un’espressività magnifica, un J. Carradine deciso e ardente, un A. Devine comicissimo nella parte del loquace postiglione e G. Bancroft nelle vesti dell’uomo di legge ligio al suo mestiere, ma non per questo insensibile alle problematiche di chi la legge è costretto a subirla. E gli indiani? Il loro ruolo nella storia è quantitativamente esiguo, ma riveste comunque una notevole rilevanza: tenendo conto che stiamo parlando ancora di un western classico e non di uno revisionista, è chiaro che questo popolo viene inquadrato da una prospettiva negativa, ma il fatto che attacchino la diligenza, da una parte non li tramuta in antagonisti soltanto spuri e malvagi, e dall’altro non serve a riabilitare totalmente il compito assunto e poi mancato della Cavalleria, che li teme e perciò respinge la richiesta dello sceriffo di accompagnarli in una zona dove potrebbero venire attaccati, e dove effettivamente l’attacco succede. Il film ha inoltre segnato il ritorno al western di Ford dopo tredici anni di assenza, e segna senza ombra di dubbio la consacrazione del suo magnifico sodalizio con l’altro John (vero nome: Marion Mitchell Morrison), che in futuro regalerà al pubblico mondiale altre perle imperdibili in cui l’avventura si mischia alla crescita psicologica degli uomini, ma mai al livello di Ombre rosse, che è e rimarrà sempre una pietra miliare per almeno tre motivi. Primo: la scarsezza dei mezzi con cui venne realizzato (escluse magari le macchine da corsa su cui furono montate le telecamere per riprendere l’assalto alla diligenza), che ha permesso pertanto di ottenerne un prodotto straordinario. Secondo: il gioco di squadra fra gli interpreti, figlio di quell’ideologia collaborativa che la settima arte made in USA e made in 1930-1950s ha sempre adottato e applicato in modo intelligente nella costruzione delle storie di allora. Terzo: la ricerca di una morale educativa, che trova la sua attuazione ideale nel racconto di una società in miniatura costretta a spostarsi, il che comporta che ogni viaggiatore conservi le sue esigenze, ma consente anche di esaminare le dinamiche che animano uomini e donne in una situazione di pericolo, cosa che fa andare avanti da sempre le varie collettività esistenti. E raccontare l’evoluzione di una piccola società così eterogenea e strabiliante non è un gioco da ragazzi, specialmente se di mezzo ci sono un rischio multiplo e sfaccettato da affrontare e non poche divergenze di idee all’interno del gruppo stesso. Un bianco e nero assolutamente delizioso. Una Monument Valley ripresa per le prime volte, e resa immortale proprio da questa pellicola. Novanta minuti di emozione superba e suggestiva.

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