A una famiglia sgangherata e a una madre che lo trascurava, l’adolescente François Truffaut aveva rimediato cercando il calore di un mondo immaginario, capace di sostituire la carenza dell’affetto familiare con i sogni dei grande schermo. Fu questo grande amore per il cinema a far sì che le porte dei riformatorio si chiudessero alle sue spalle. Il maldestro tentativo di dar vita a un cineclub si concluse con una serie di denunce per insolvenze burocratiche e debiti non pagati. Ma la notizia di un ragazzino finito dietro le sbarre per passione cinefila commosse André Bazin. André Bazin dirigeva i Cahiers du cinéma, che conduceva un’aspra battaglia contro il “cinema di papa”, termine con cui si liquidava un cinema vecchio, sclerotico, mummificato. Al “cinema di papà” i giovani dei Cahiers intendevano sostituire un cinema d’autore, personale, libero da condizionamenti produttivi, con un linguaggio svincolato da regole accademiche e ingessate convenzioni. In questo clima di fermento culturale, Truffaut condivise le esperienze di Claude Chabrol, Jean-Luc Godard, Eric Rohmer, che dalla militanza teorica dei Cahiers passarono ben presto alla prassi dei set. Per Truffaut l’occasione arrivò quando investì la dote della moglie in I quattrocento colpi (1959), in cui l’esperienza di un’adolescenza disagiata si traduceva in un tenero e lucido spunto poetico. Un buon investimento, se si considera che in meno di 24 anni seguirono altri 21 film, fra cui Jules e Jim, Fahrenheit 451, Il ragazzo selvaggio, Adele H, una storia d’amore, Gli anni in tasca. Anche i film successivi come La calda amante (1964), Baci rubati (1968) e L’amore fugge (1979) fino all’ultimo, Finalmente domenica (1984) rivelano il costante riferimento alla quotidianità, senza mai trascurare le influenze dei cinema di un tempo, assorbito e trasformato in uno stile personale e inimitabile. Sempre impregnato di malinconica amarezza e di quell’ironia che Truffaut chiamava “il nutrimento della vita”.
Da Famiglia Cristiana, 28 settembre 2003