Il compositore argentino Luis Bacalov debutta con uno spettacolo dedicato alla musica del suo Paese. E racconta il suo rapporto con la statuetta e di quando fece arrabbiare Fellini.
Ritorno ideale alla sua Argentina, raccontata attraverso le note del tango. Mi Buenos Aires querido (in prima nazionale al Teatro Ambra Jovinelli di Roma dal 21 al 26 aprile) è l'omaggio che Luis Bacalov, da oltre quarant'anni in Italia, ha voluto dedicare alla sua terra. Perché, dice il maestro che nel 1995 ha vinto l'Oscar per le musiche di Il Postino, ««non si possono cancellare i primi venti anni di vita di una persona. Io sono la somma delle mie nazionalità. Mi sentirei spaesato solo se scoppiasse una guerra fra Italia e Argentina, ma effettivamente è piuttosto improbabile». Mi Buenos Aires querido parte dalla fine dell'Ottocento, con i primi tanghi e con la nascita di una società in cui la cultura creola si mischia con quelle dell'emigrazione europea, e arriva a Astor Piazzolla «che qualcuno ancora considera un traditore del vero tango». Un percorso fatto di note, di danza e di parole, con le poesie di Jorge Luis Borges e Juan Gelman per raccontare l'evoluzione di una musica e di un Paese. «Perché nel tango» dice Bacalov «c'è la società con le sue crisi economiche, le sue angosce e il sarcasmo dei cittadini di Buenos Aires».
Sbagliamo tutto quindi quando lo pensiamo come una musica d'amore e di passione?
«È un'idiozia. Spesso il tango viene visto come il supporto per un ballo coreografico con le gambe per aria.
Ma quello è solo tango export e non c'entra niente con quello intimo e austero dell'Argentina».
Nello spettacolo si raccontano anche gli anni della dittatura?
«Ci sono solo degli accenni. Con Carlos Sessano, con cui l'ho scritto, volevamo concentrarci sui miti del mio Paese e i militari, per fortuna, non lo sono mai diventati. Sono stati soltanto assassini».
Quando ha iniziato a suonare?
«Da bambino. E da me tutti si aspettavano che sarei diventato un pianista con un repertorio classico».
E, invece, a partire dagli anni Sessanta, ha arrangiato centinaia di canzonette, dal Ballo del mattone di Rita Pavone a Sabato Pomeriggio di Claudio Baglioni...
«Era un'ottima occasione di guadagno. Era un lavoro che consideravo un po' minore, ma non spazzatura. Certo non sono molto legato alla Partita di pallone, ma sono felice di aver lavorato con Sergio Endrigo, Gino Paoli o Lucio Dalla. I cantautori sono stati la più alta mani festazione della creatività nella musica leggera italiana».
II cinema permette più libertà? Sceglie da solo il tema di un film?
«Da solo mai, si decide con il regista. I peggiori sono quelli che non capiscono niente di musica e ti dicono di fare quello che vuoi. È meglio non accettare di lavorare con loro».
Perché?
«Sono talmente confusi che poi non gli va mai bene niente».
Come è andata con Pier Paolo Pasolini per Il Vangelo secondoMatteo?
«Pasolini era molto riservato e cortese, ma non c'è stata né complicità né cordialità. Però quando gli feci ascoltare un'opera religiosa africana per coro e voce solista accompagnata da percussioni gli si illuminarono gli occhi e la utilizzò nei momenti più importanti del film. Ma non gli erano piaciuti alcuni passaggi delle musiche composte e dovetti riscriverli direttamente in sala di registrazione».
Si riesce a correggere una composizione?
«La composizione è un mestiere. Del resto, il genio, si sa, è l'un per cento ispirazione e il novantanove per cento traspirazione, cioè lavoro e sudore».
Federico Fellini le chiese le musiche per La città delle donne dopo la morte di Nino Rota. È stato difficile rimpiazzarlo?
«Finché non ho capito che voleva che entrassi nello spirito di Rota non si riusciva ad andare avanti. E così ho imparato a roteggiare. Fellini era un grande seduttore e un grande manipolatore che metteva nel suo lavoro una dedizione immensa. Era monomaniacale e questo gli ha permesso di fare tanti capolavori. Io non sono così e per questo non passerò alla storia della musica».
Con l'Oscar per Il postino è però sulla buona strada...
«Non ho mai mitizzato quella statuetta, e dopo poche settimane l'ho regalata a mia figlia. L'Oscar è soprattutto fortuna».
Non le ha cambiato la vita?
«Certo, si sono aperte porte che neanche immaginavo. Quello che più imi ha stupito è che dopo l'Oscar le grandi istituzioni concertistiche hanno iniziato a commissionarmi delle opere sinfoniche».
Che effetto le ha fatto quando Quentin Tarantino ha voluto per Kill Bill alcuni suoi vecchi pezzi di uno spaghetti western?
«Sono stato molto felice perché Tarantino mi piace tantissimo e la cosa mi ha anche fruttato un bel po' di quattrini. Non avrei mai immaginato che quelle musiche potessero interessare ancora qualcuno e avere addirittura successo. Le avevo scritte per Il grande duello, un film pessimo del 1973. Di tutti gli spaghetti western, ne salverei non più di dieci. Tutti gli altri potrebbero essere anche bruciati».
Da Il Venerdì di Repubblica, 17 aprile 2009