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Rassegna stampa di Woody Allen

Woody Allen (Allan Stewart Konigsberg) è un attore statunitense, regista, scrittore, sceneggiatore, musicista, è nato il 1 dicembre 1935 a New York City, New York (USA). Woody Allen ha oggi 88 anni ed è del segno zodiacale Sagittario.

DANIELE DI UBALDO
MYmovies.it

Inizia la carriera nel mondo dello spettacolo a 17 anni, quando viene assunto dalla NBC, scrivendo gag per comici e produttori televisivi. Scrive la sua prima sceneggiatura per il cinema nel 1965 (Ciao Pussycat, interpretato dal camaleontico Peter Sellers) ed esordisce come regista in Prendi i soldi e scappa.

LIETTA TORNABUONI
La Stampa

A vederlo, al Festival di Cannes, il nostro Woody Allen aveva l'aspetto di sempre: un uccelletto spiumato con pochi capelli bianchi, un po' curvo, l'aria smarrita data dalla avanzante sordità. Con gli occhi desolati e ansiosi di chi poteva immaginare una vecchiaia tranquilla e si ritrova adesso, a 70 anni, a lavorare duro per mantenere l'ex moglie Mia Farrow e i figli adottivi di lei, suo figlio che lo detesta e vive con la madre, i propri due figli adottivi, la moglie Soon Vi che è ingrossata conservando una passione vorace per i diamanti e ogni lusso in genere, gli avvocati, gli amministratori, e peri soldi è obbligato a fare tutte quelle cose che ha sempre odiato ed evitato, conferenze stampa, apparizioni personali, distribuzione di autografi, tournée musicali, presenza alle sfilate di moda.

LIETTA TORNABUONI
La Stampa

Col prossimo film tornerà a New York, il primo amore. Ma ora in sala c'è Vicky Cristina Barcelona, il suo omaggio alla capitale catalana. Prima aveva tradito Manhattan con Londra. E ancor prima aveva fatto una puntata a Parigi e a Venezia. Eppure, per lui, hanno tutte qualcosa in comune…
Woody Allen torna a casa: il prossimo film sarà di nuovo ambientato a New York, la città che ha trasformato nei suoi film nel luogo ideale dell'amore, dell'eleganza e della cultura, la città romantica e vitale che ha reso desiderabile per milioni di spettatori nel mondo occidentale, alla quale ha reso un servizio e un omaggio incommensurabili. In realtà, il suo rapporto con New York è più creativo che realistico, come è accaduto con altre città dove i guai della vita e del lavoro l'hanno portato: le patti della città che gli sono famigliari sono rappresentate con affettuosa fedeltà e minuzia, le altre parti (più oscure o estranee) vengono ignorate. Il mondo è come Woody Allen lo vuole, è lui a imporsi con i suoi film sulla realtà.

IRENE BIGNARDI
La Repubblica

Per - “ebreo liberai paranoico sciovinista maschio, farisaico misantropo, nichilista disperato”, Woody Allen da trent'anni incarna il “wit nuovayorkese”. Sono venticinque i film della sua “commedia umana”, o ventotto, mettendo nei conto i tre fatti con altri sotto la sua prepotente ala nevrotica. Partito in sordina, come un attore che porta il suo carisma comico sullo schermo in film - a rivederli - episodici e semplici, Woody Allen si è conquistato ben presto il diritto di cittadinanza tra i veri cineasti con la leggerezza del suo genio - opposta alla pretenziosità intellettuale -, con uno humour che non rinnega la tenerezza, con l'ironia come contravveleno alla banalità. Che si prediliga il paesaggio con figure di Manhattan (1979) o il sogno fantastico di La rosa purpurea del Cairo (1985), l'insuperabile apologo sull'adattabilità umana che è Zelig (1983) o i dolorosi rapporti sororali di Hannah e le sue sorelle (1986), la sconsolata favola morale di Crimini e misfatti (1989) o il pezzo palpitante di vita di Mariti e mogli (1992), Woody Allen è un regista senza cadute, nella cui filmografia ogni tassello può essere più o meno felice, ma contribuisce a creare un impareggiabile quadro della vita urbana contemporanea, delle sue nevrosi, delle sue sofferenze, dei suoi nuovi sentimenti. E delle sue gioie: annotiamo qui, perché ciascuno possa meditarle, le “cose per cui vale la pena vivere” elencate alla fine di Manhattan: Groucho Marx, il giocatore di baseball Willie Mays, il secondo movimento della sinfonia Jupiter, Potato Head Blues, i film svedesi, L'educazione sentimentale, Marlon Brando, Frank Sinatra, le nature morte di Cézanne, i granchi di Sam Wo, il viso di Tracy... che è la dolce Mariel Hemingway di cui Woody Allen è innamorato nel film. Nella mia lista personale la sua commedia umana occupa uno dei primissimi posti.

ROBERTO ESCOBAR
Il Sole-24 Ore

Il cinema di Woody Allen si specchia in quello di Ingmar Bergman, ma non ci si smarrisce. Un'altra donna racconta il tragico della vita: la solitudine dell'individuo, l'avventura della sua memoria, il suo viso che il tempo costruisce come maschera di menzogne, la tenerezza sepolta sotto l'opaco egoismo accumulato negli anni, la colpa d'aver tradito quel che la giovinezza aveva promesso. Questo suo "racconto" è simile a quello di Il posto delle fragole (1957) e di Persona (1966), ma anche di Sinfonia d'autunno (1978 in Marion c'è qualcosa sia della Eva che della Charlotte di quel film) e Alle soglie della vita (1957 alla futura madre spaventata Hiordis si avvicina la futura-madre spaventata Hope). Ma la somiglianza non è identità: ciò che li distingue è tanto radicale da evitare che nello specchio dello svedese l'americano perda se stesso. Il cinema di Bergman è dominato dal senso sacro della verticalità, in ascolto di una dimensione che sta al di sopra dell'individuo, della sua vita quotidiana. Dietro e dentro i suoi film c'è la grande cultura "premoderna" protestante, dalla "theologia crucis", cioè dall'"abbandono" dell'individuo da parte di Dio che fu il centro dell'esperienza religiosa di Lutero, alla "differenza infinita" kierkegaardiana. Una differenza infinita, appunto, separa irrimediabilmente l'individuo dall'assoluto, e insieme però all'assoluto lo chiama, lacerandolo. L'assoluto può essere Dio, come nei film del primo periodo, o il sogno di un io armonico e non scisso, non divorato dalla colpa. In ogni caso, il racconto più vero del cinema di Bergman è il silenzio: il silenzio straziante di Dio, o dell'io. Il cinema di Allen - quello comico allo stesso modo di quello tragico - è attraversato invece dal senso laico dell'orizzontalità. I suoi personaggi vivono nella "modernità ", nella vitale contraddizione della metropoli (la sua poetica è newyorkese in senso profondo, legata ai valori della maggior città del mondo). In loro è cresciuto a dismisura il senso dell'io, dell'individualità: questo è il primo lato della contraddizione della modernità, la ricchezza umana della metropoli. Insieme, però, vivono la paura che questo io e questa individualità si riducano a nulla, persi nella complessità e nell'instabilità dei rapporti: questo è il secondo lato della contraddizione della modernità, la povertà umana della metropoli. Marion tradisce quella ricchezza per paura di questa povertà: per egoismo meschino, per mancanza del coraggio di vivere - ecco il punto di partenza di Un'altra donna. La sua esistenza è superficiale e ordinata, almeno fino a quando il libro che si trova a dover scrivere muove quel che in lei pareva sepolto. Dal basso, dall'inferno della memoria - dalla grata da cui vengono le "voci" che la attraggono -, riemerge il suo disordine, dissolvendo la superficie di una vita di autoinganni. Ora, come l'attrice Elisabeth di Persona, Marion viene assalita dall'angoscia: la sua superficialità le si rovescia addosso. Elisabeth - ricordate? - rifiuta di parlare, si rifugia in un silenzio autistico, interrotto solo alla fine del film dalla parola "nulla". La sua "maschera" - il suo io non autentico, recitato - è stato schiacciato dall'alto, sotto il peso di una scoperta "verticale", metafisica: la sua mancanza di senso di fronte alla terribilità sacra e vuota dell'assoluto. Anche Marion scopre di essere oppressa da una maschera (mostrata due volte nel film). Ma questa maschera non vela (e perciò non svela) il nulla dell'assoluto: è invece il risultato psicologico e storico della sua vita, il prodotto "orizzontale" del suo egoismo. La sua angoscia non è metafisica, non ha niente a che vedere con il sacro. è piuttosto una sfida laica al suo coraggio di ripensare se stessa, di ricominciare. Ricominciare significa per lei riattraversare il passato, tuffarsi nella memoria che riemerge dall'inferno. Marion, dunque, ripercorre il cammino del vecchio Isaac Borg di Persona. Come lui, anche lei viene invasa dalla colpa e dalla tenerezza: dalla tenerezza di affetti che sono morti, dalla colpa d'averli lasciati morire, per egoismo. Il viaggio di Isaac nella memoria approda alla quiete: ma è una quiete senza speranza, solo una riconciliazione con un passato irrecuperabile (ecco una versione "psicologica" della "differenza infinita"). Il vecchio, alla fine del film, osserva i genitori con lo stesso amoroso rimpianto, con lo stesso senso di perdita con cui Bergman chiude la sua splendida autobiografia (Lanterna magica, Garzanti). Per entrambi, la memoria è qualcosa che si è perduto, e che può solo essere rievocato. E invece è la speranza che chiude Un'altra donna (Hope, speranza, si chiama appunto la giovane madre del film). Marion ha avuto il coraggio di esplorare fino in fondo la memoria e di riemergere dall'inferno: la mano del fratello Paul sulla sua spalla le ridà la tenerezza smarrita, le restituisce le promesse che il suo egoismo ha tradito. Dopo quasi ottanta minuti di penombre autunnali, attraverso una finestra filtra il sole. Per lei, di certo, la memoria è qualcosa che si è trovato.

LARA CRINò
Il Venerdì di Repubblica

Della Torah e dei suoi influssi sull'indice Nasdaq . Delle esecuzioni capitali sponsorizzate dalla Nike. Delle T-shirt griffate come baricentro dell'identità. Sono alcuni dei comportamenti mentali che si sono agitati, di questi tempi, nella mente di Mr.Woody AIlen. E non in un impeto nostalgico dei tempi in cui - era il 1973, Woody immaginava il terzo millennio strampalato e postatomico di Il dormiglione, né in previsione di tuia nuova commedia amara e sofisticata, come quelle che il regista statunitense ha confezionato negli ultimi anni - Match Point, Scoop o il nuovo Cassandra's Dream, fuori concorso alla prossima Mostra del cinema di Venezia. Piuttosto, come surreali spunti dei racconti di Pura Anarchia, con cui Woody ritorna come scrittore comico, vent'anni di assenza dalle librerie. A ricordarci che, prima ancora che regista celebre, AIlen è un grande maestro dell'umorismo scritto, aveva provveduto qualche anno fa Daniele Luttazzi: la sua nuova traduzione, nel 2004, delle tre celebri raccolte degli anni Settanta (ora intitolate Effetti collaterali, Rivincite e Senza Piume), ha restituito ai lettori italiani alcune delle battute più provocatorie, epurate nelle prime edizioni per pruderie (un «vibraton» si era addirittura trasformato in «fuochi artificiali») o malintese per scarsa conoscenza del background ebraico dell'autore. In Pura Anarchia sono riuniti racconti inediti e casual, brevi scritti d'occasione pubblicati linera solo su riviste americane come The New Yorker. È quindi curi una certa apprensione che si scorrono le prime pagine del libro, chiedendosi se - al di là del titolo - nel settantenne di oggi sia rimasto qualcosa dell'impertinente ragazzo di Brooklyn e del perverso, complessato, meraviglioso Allen della prima maturità. Niente paura. Come ha scritto il New York Times, questa raccolta è in alcune parti assolutamente «vintage Woody», una giacca di sartoria non modernissima nella linea ma che calza a pennello, per la delizia degli aficionados. Con l'aggiunta di un tocco privato, laddove l'ironia sposta le luci di scena sulle benestanti famiglie newyorkesi e la loro ossessione per la moda, la gastronomia, le scuole private dei figli, mostrando in controluce l'autoritratto di un attempato signore, magari pacificato, ma non meno feroce d'un tempo.

FEDERICA LAMBERTI ZANARDI
Il Venerdì di Repubblica

Mentre sta per uscire il suo ultimo film «Sogni e delitti», Woody Allen racconta cosa pensa della politica, del uso paese, delle prossime elezioni. «Stavolta voterò democratico» dice «perché Bush per noi ha significato otto anni di sciagure». Ma aggiunge «Torneremo presto a dar lezioni di democrazia» «La società americana non ha mai toccato un livello di moralità e civiltà così basso. Colpa dei suoi governanti e dell'amministrazione Bush. Ma sono sicuro che la situazione sta per cambiare. Con le prossime elezioni torneremo a essere un Paese che può dare lezioni di democrazia a tutto il mondo».
Woody Allen non è mai stato un regista «impegnato», ma questa volta sente che gli Usa hanno bisogno di una svolta radicale: «Negli anni passati non sempre ho votato democratico, ma per queste elezioni penso proprio che lo farò».
Le primarie con le quali si sceglierà, fra i candidati democratici e repubblicani, chi correrà per la Casa Bianca a novembre, sono appena iniziate. E, nelle prossime settimane (il primo febbraio), uscirà nelle sale italiane l'ultimo film del regista più psicanalizzato d'America, Sogni e delitti. Un'altra storia di omicidi impuniti, dove due fratelli (Colin Farrell e Ewan McGregor) vengono sedotti e corrotti dal denaro di uno zio potente, che promette ricchezza in cambio dell'assassinio di un suo ex socio.

FERNALDO DI GIAMMATTEO

«I miei film descrivono la New York dei miei sogni, dei miei desideri, a volte dei miei ricordi. Vivo in una zona circoscritta. Una mia isola. Lì mi sento sicuro»: questo pensa, e fa, il regista più «metropolitano» che esista. Nasce da famiglia ebraica, non porta a compimento gli studi, si improvvisa gagman per la tv, si esibisce nei night, sceneggia nel 1965 un film di Clive Donner (Ciao, Pussycat) ,scrive commedie: una di queste -Provaci ancora Sam diventerà nel 1972 un film con la regia di Herbert Ross e la interpretazione (smarrita e sorniona, come tutte le altre) dello stesso Allen, impegnato in una patetica sfida con il fantasma di Humphrey Bogart.

News

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Un viaggio insieme ad un artista prezioso, perennemente in cerca della propria realizzazione.
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