Quentin Tarantino è un attore statunitense, regista, produttore, produttore esecutivo, scrittore, sceneggiatore, fotografo, è nato il 27 marzo 1963 a Knoxville, Tennessee (USA). Quentin Tarantino ha oggi 61 anni ed è del segno zodiacale Ariete.
Avvertimento per chi si è commosso vedendo Kill Bili 2 terminare con le iniziali Q e U, tanto grandi da invadere l'intero schermo: Quentin e Uma sono certo la decisiva coppia regista-protagonista ma al Festival di Cannes Tarantino s'è presentato a fianco di Sofia Coppola, la regista di Lost in Translation figlia di Francis Ford Coppola, una volta tanto vestita benissimo. Si comportavano come una coppia innamorata.
Gli applausi, le feste, l'attenzione (sessantadue copertine di settimanali europei in due settimane), l'adorazione verso il regista della modernità è più entusiasta e affettuosa di quella riservata a un divo. Con la sua faccia da compagno di scuola brutto, a quarantun anni Quentin Tarantino ha già una sua leggenda super-nota. È nato nel 1963 a Knoxville nel Tennessee, è cresciuto in California con la madre (il padre s'era eclissato da sempre), nel 1985 è stato assunto come commesso in un negozio di videonoleggio che sarebbe stato la sua università di storia del cinema.
Le prime esperienze di scrittura le ha fatte con piccole scene scritte per la scuola di recitazione che frequentava. Il primo film che ha diretto, Reservoir Dogs (Le iene), presentato nel 1991 al festival di Sundance, è stato accolto subito come un piccolo capolavoro; il secondo film, Pulp Fictìon, 1994, ha suscitato grandi passioni, ha vinto un Oscar per la sceneggiatura e una Palma d'Oro a Cannes attribuita da una giuria presieduta da Clint Eastwood.
La sua maestria cinematografica è indiscussa, i suoi film sono quanto di più contemporaneo si possa vedere, i suoi gusti somigliano a quelli del pubblico, che anche per questo lo ama, che ama il divertente più che il bello: ha capovolto nell'ironia il segno del cinema di genere, ha trasformato i criminali in uomini comuni senza epica negativa, esecutori di una violenza che «è una condizione del mondo, non una sua alterazione».
Tarantino non cerca il cinema bello, perfetto, colto, lirico o tragico. Ama il cinema dì genere quando la sua retorica è corretta dall'iperbole, dalla comicità, dal mix. Ama il cinema spurio, in particolare la commedia nera di sangue e di risate, trucida e divertente, fatta benissimo: ama, insomma, i propri film.
Da Lo Specchio, 28 maggio 2004
È il nuovo Welles o è un fenomeno destinato a sgonfiarsi? Un autore destinato a durare o un ragazzo troppo brillante che ha sparato le sue cartucce di regista in due film: Le iene - Cani da rapina (1992) e Pulp Fiction (1994), per poi arrivare con il flato corto agli appuntamenti successivi - il quarto episodio di Four Rooms - già diventato la maniera di se stesso?
Tarantino. Il ragazzo semiautodidatta cresciuto a proteine e video. Il cinefilo del cinema pulp (ma anche colui che si vanta di aver lanciato dal suo videostore un regista come Eric Rohmer). Il geniale inventore di storie postmoderne che riciclano e reinventano la tradizione del noir, innestandovi elementi e ispirazioni classici che sembrerebbero lontanissimi da lui, come il dramma elisabettiano che Le iene finisce per essere. L’autore del più sorprendente successo del decennio di fine millennio (e non si parla solo delle qualità di invenzione ma anche dei cento milioni di dollari conquistati sul campo da Pulp Fiction). Il ragazzaccio che fa incetta di nomination e vince l’Oscar per la miglior sceneggiatura (per tacere della Palma d’oro di Cannes e di qualche altra decina di premi). Il regista che è stato definito dai suoi angeli custodi televisivi - il duo Ebert e Siskel - “uno spartiacque” e, se non bastasse, “la new wave di un sol uomo”. L’attore spesso divertente e qualche volta insopportabile di tanti cammei in film suoi, quasi suoi e degli amici:indimenticabile la sua rilettura di Top Gun in chiave omosessuale in un filmetto peraltro assai scemo come Il tuo amico nel mio letto (1994) di Rory Kelly. Lo sceneggiatore per gli altri: Una vita al massimo (1993), diretto da Tony Scott e Assassini nati (1994) di Oliver Stone. Lo sceneggiatore che raspa in fondo ai cassetti e fa realizzare con risultati disperanti la sua prima e demenziale sceneggiatura(From Dusk to Dawn). Il produttore - sotto l’etichetta A Band à Part Productions - di Killing Zoe (1993) di Roger Avary. La cartina di tornasole dell’atteggiamento della critica (almeno secondo certa critica...), indispensabile per distinguere, a seconda del livello di gradimento, i “vecchiottisti” dai “giovanottisti”. Il protagonista di un culto acritico che sta già portando a un’altrettanto acritica ondata di riflusso e di rifiuto (si veda l’esortazione a fermarsi per un po’ rivoltagli da Karyn James dalle pagine del “New York Times” e l’autorevole invito a smetterla di recitare lanciato dallo schermo tv del solito duo Ebert e Siskel). Il regista per la tv (l’episodio di E.R. Medici in prima linea). Il regista che si concede, a trent’anni e dopo due film, un’autobiografia...
Tarantino è un fenomeno turbolento, in perenne movimento, troppo caldo per essere giudicato nel complesso se non sulla base dei testi: i suoi due film, Le iene (o Cani da rapina, come Reservoir Dogs - titolo che nemmeno l’autore sa esattamente cosa voglia dire - è stato tradotto al secondo lancio italiano) e Pulp Fiction.
Personalmente mi schiero tra i suoi ammiratori, ma con juicio. Perché se posso immaginare un cinema fatto solo di film di Billy Wilder, di Stanley Kubrick o di Francis Ford Coppola -tanto per citare tre esempi di cineasti a largo spettro, che sanno variare le portate del banchetto cinematografico - la prospettiva di una dieta Tarantino di sole proteine al sangue in salsa ironico-pop mi lascia, confesso, estremamente perplessa. Aspettiamo che cresca.
Da Irene Bignardi, Il declino dell’impero americano, Feltrinelli, Milano, 1996
No: Knoxville, Tennessee, il posto dov'è nato quarant'anni fa, non ha niente a che vedere con Fort Knox (che è nel Kentucky) però Quentin Jerome Tarantino ha lo stesso fama di uno che trasforma in oro tutto quel che tocca. Uno che i sogni nel cassetto, prima o poi, riesce sempre a realizzarli. Compreso lo sconcertante Kill Bill, che sembra gli frullasse in testa dall'adolescenza quando una mamma liberal e un po' fricchettona lo lasciava guardare film-spazzatura di kung fu e mafie gialle. Trovatene un altro - dicono i suoi tifosi - che a soli trent'anni non solo vince una Palma d'oro e un Oscar ma diventa pure un cult e con una gallina dalle uova d'oro intitolata Pulp Fiction potrebbe vivere di rendita finché campa. San Quentin dei miracoli che cento ne pensa (pubblicità, videoclip, telefilm...) e una ne fa, magari mettendoci sei anni come nel caso di Kill Bill. Sei anni di riflessione e silenzio durante i quali, talentuoso e furbacchione qual è, ha fatto montare la curiosità dei fan fino al punto di fusione. Ma anche sei anni in cui chi non lo ama l'ha dato di nuovo per finito, kaputt. Era già successo nel 1995 all'uscita dell'inclassificabile Four Rooms, film di cui firmò un episodio con Bruce Willis che disorientò gli aficionados. Almeno come Jackie Brown, due anni dopo, forse troppo raffinato per sfamare la massa di quei tarantiniani ingordi che al loro idolo chiedono solo teste esplose, freddure da rivendersi in panineria. Tarantino esalta e divide perché con quella faccia da vitellone americano è un baciato dalla fortuna senza complessi di colpa. Uno che nel 1994, durante la premiazione a Cannes, rideva sguaiato e alzava il dito contro chi fischiava il suo trionfo. Uno che nelle interviste continua a dire: “Mi considero davvero bravo”. Tarantino è l'esemplare di un'America felix lontana dai tormenti anni 70 di Coppola e Scorsese (a cui viene spesso avvicinato) ma beneficiaria delle conquiste ottenute all'epoca.
È figlio di una figlia dei fiori (o quasi), mamma Connie, che mollata dai compagno lo tirò su a dosi dl permissivismo e cinefilia. Pare che oltre ai B-movie gli facesse vedere anche film di serie A complicati e allora scabrosi come Conoscenza Carnale e Un tranquillo week end di paura. A 16 anni, quando lui decide di dire addio alla scuola, lo lasciano fare. Si iscrive a un corso di recitazione, ma gli sarà più utile lavorare come commesso in un negozio di video-noleggio. Grande abbuffata di classici: Brian De Palma e Sergio Leone i preferiti, ma anche il ribelle dei western Sam Peckinpah e il re del poliziesco francese Jean-Pierre Melville.
Magari pochi sanno che prima di buttarsi in regia Tarantino ha fatto anche di produzione per l'assistente per un video di ginnastica fel bigjim svedese Dolph Lundgren, il signor “Ti spiezzo in due” di Rocky 4. O che - secondo la leggenda - si sarebbe fatto le ossa lavorando come proiezionista in un cinema a luci rosse dal nome fin troppo scontato: Pussycat. O che il suo debutto da fimaker è stato un filmino amatoriale dal titolo Il compleanno dei mio migliore amico.
Nel 1992, invece l'esordio vero arrivò con Le iene. Ma in Italia non se ne accorse quasi nessuno. Solo più tardi, ringalluzziti dai guadagni di Pulp Fiction, i distributori lo rimetteranno in circolazione. Per molti la storia dì quei sei gangster ammaccati che portano i nomi dei colori, ma vestono solo di nero, rimane il miglior film di Tarantino. Mentre per la Miramax che lo produsse il preferito è sicuramente Pulp Fiction, se non altro perché costò 8 milioni di dollari e ne recuperò 120 solo negli Usa. Qualcuno, con troppa enfasi forse, disse che con quel suo cocktail di intelligenza ed esagerazione il film era riuscito a riavvicinare due generazioni: quella cresciuta col cinema e che guardava le immagini per pensare, e quella nutrita con la tv, che le guardava per non pensare. Genio o splendido gigione? Una cosa è certa: nel paesaggio cinematografico un po' asfittico degli anni 90 Tarantino un po' di sana confusione riuscì a portarla. A lui i dollari hanno portato invece la possibilità di fare quello che gli pare. Quando lo vediamo recitare nei suoi film o in quelli degli altri abbiamo l'impressione che, con acume e gusto, ci stia allegramente prendendo per i fondelli. Ma il marchio Tarantino è anche quello di un'industria che funziona. La sua società Band à part (dal titolo di un vecchio film di Godard) è un ben oliato ingranaggio multimedia. Capace di sfornare spot (quello della Nike con Ronaldo che palieggia in aeroporto? la regia era di John Woo) come clip musicali d'autore: MeG (il regista dei due Charlie's Angels cinematografici) ha cominciato girando video per gruppi come Sugar Ray, Smash Mouth e Offspring. Per non parlare della clip di La Vida Loca. Il tormentone di Ricky Martin. Nel curriculum c'è anche la regia di un episodio di Medici in prima linea. Da produttore ha siglato film come Dal tramonto all'alba di Robert Rodriguez, misteriose storie di arti marziali, una parodia di Guerre stellari a cartoon. Ha scritto le sceneggiature di successi come True Romance di Tony Scott e Natural Born Killer di Oliver Stone.
Come per tutti i “Fregoli”, afferrare chi sia il vero Tarantino è un'impresa. Nei film ci sono le sue ossessioni e i suoi feticci. Ma è soprattutto l'ironia onnipresente a renderne la personalità davvero imprendibile. Adesso con Kill Bill (che ne contiene a secchiate) si tornerà a discutere sulla violenza nel suo cinema. Innocua? Contagiosa? Perversa? Lui ha detto una volta: “Non faccio violenza da cartoon ma in maniera realistica” basta la sequenza di braccia che volano e occhi che schizzano per capire che non è vero. E che c'ha preso in giro un'altra volta.
Da Il Venerdì di Repubblica, 17 ottobre 2003
Il regista cult si racconta. I maestri. Gli autori e gli attori preferiti. Il suo metodo di lavoro. La sua mania di perfezione.
Quentin Tarantino ha un passo dinoccolato da adolescente di 46 anni. Regista che non assomiglia a nessun altro suo collega, è anche unico per il suo essere un vero cinefilo. Nei grandi e piccoli festival, quando li frequenta, nelle città in cui fa sosta, entra nella sala, si mette nell'ultima fila, mescolandosi con il pubblico normale. Tarantino è sempre impaziente di vedere film altrui. Pierre Rissient, il re non incoronato del cinema mondiale, uno degli scopritori del regista, ritiene che il successo e la celebrità ormai planetarie non l'abbiano cambiato: «t restate lo stesso, in tutti questi anni. È schietto e spontaneo, e queste sono le sue qualità principali. Il pubblico lo percepisce e lo considera come uno dei suoi. Non ha quell'aria snob di alcuni registi». Tarantino è stato proclamato l'enfant terrible del cinema americano dopo lo shock del 1992 con "Le iene". Due anni dopo con "Pulp Fiction" è entrato nella leggenda. Sono seguiti i due "Kilt Bill" e ora, ad autunno, in Italia potremo vedere "Inglorious Basterds". Lui, la sua passione la racconta così: «Da bambino ero l'unico della mia classe ad andare a vedere film che nessuno dei miei coetanei si prendeva la briga di guardare. Di conseguenza non potevo condividere con nessuno la mia cinefilia. Quando più avanti, a festival del cinema più o meno famosi, ho incontrato appassionati come me, attaccavo bottone con loro e non smettevo mai di parlare, per ore intere». Tarantino ama anche questa sensazione particolare: sentirsi in sintonia con centinaia di sconosciuti, una sensazione che si prova soltanto al buio della sala. Quando lo si incontra si deve parlare di cinema. Di che altro vorrebbe mai parlare? La domanda gli sembra del tutto incongrua. E poi, dice: «Del resto anche "Inglorious Basterds" mostra come il potere del cinema può cambiare il corso della storia». La pellicola racconta di un commando di
soldati ebrei che riescono ad ammazzare Hitler e i capi del nazismo, in un cineclub di Parigi.
Da bambino Quentin non aveva paure né di mostri né di fantasmi, ma temeva pericoli più concreti: «Il primo film che mi ha terrorizzato dev'essere stato "IJ ultima casa a sinistra", una pellicola di Wes Craven del 1972. Avevo nove anni e rimasi sconvolto e terrorizzato all'idea che delle persone spietate potessero introdursi e violare la sicurezza della mia casa», racconta serio. Per Tarantino il cinema è infatti ancora qualcosa di viscerale, anzi, di "ancestrale". Anche se si tratta di un film di secondo piano, c'è sempre un momento in cui scatta qualcosa e la storia ci avvince, un attore ci commuove. «È per questo che amo i film di ogni genere, e anche i loro sottogeneri», dice. Tarantino ama i registi che vanno fino in fondo. Come Douglas Sirk, per esempio: «Sirk prende un genere, diciamo il melodramma, e lo spinge alle sue estreme conseguenze, senza compromessi. "La magnifica ossessione» del 1954, con Rock Hudson e Jane Wyman, fa parte dei suoi film più arditi del genere. Lo spettatore lo segue, senza porsi la minima domanda, completamente fiducioso, malgrado i colpi di scena talora improbabili della storia. Oggi il pubblico americano sogghigna davanti a questo genere di film, e io avrei proprio voglia di strangolare questa gente». L'ironia ha sostituito l'innocenza, il pubblico è diventato troppo esigente. Tarantino dice di voler girare un melodramma, ma «dovrei farlo in spagnolo. Dovrei girare in Spagna, fare qualcosa "alla Almodôvar". Il pubblico spagnolo non ha perso il gusto per il melodramma come noi in Arnerica».
Oltre che cinefilo, il regista si dichiara "cinefago": colleziona copie in 16 mm, dvd, guarda il canale Turner Class c Movies per buona parte della notte. Insomma: Tarantino vede ogni film, ma ha visto davvero tutto? «Ci sono pellicole che mi riservo per una grande occasione. Per esempio, non ho mai visto "È nata una stella" di George Cukor, con Judy Garland. C'è stato un periodo in cui ero fissato per Judy Garland, ma di proposito ho lasciato quel film da parte. Per altri tempi».
Ci sono registi che amano gli attori e quelli che invece amano dirigerli. Tarantino a quale delle due specie appartiene? Alla prima, risponde senza esitare. E racconta di essere stato quasi sul punto di abbandonare il suo ultimo progetto, '`Inglorious Basterds", perché non trovava l'interprete adatto per uno dei ruoli chiave. «Non riuscivo a trovare l'attore giusto per il personaggio del colonnello nazista Hans Landa. Landa è un vero genio della parola e delle lingue. Mi serviva quindi un attore capace dì incarnare quel talento. Qualcuno che potesse esprimere la poesia delle parole in quattro idiomi: inglese, francese, tedesco e italiano. Quando ci siamo trovati a due giorni dalla scadenza che ci eravamo fissati, prima di gettare definitivamente la spugna è arrivato l'austriaco Christoph Waltz. Già vedendolo camminare, e dopo poche scene, ho capito che il film si sarebbe fatto». Intervistato a proposito della sua collaborazione con Tarantino, Waltz ha espresso tutta la stima che nutre per lui: «Girare un film con Tarantino è come fare un viaggio da sogno. È l'osservatore più preciso, incisivo e intelligente che io conosca per ciò che concerne il cinema. Riesce a farti fare quello che vuole lui, senza alcuno sforzo». E Brad Pitt, protagonista numero uno del film, tosi racconta l'attenzione di Tarantino ai particolari: «Ho molto apprezzato il rispetto per le lingue nella pellicola, la scelta di usare attori francesi per ruoli francesi, attori di lingua tedesca per ruoli tedeschi e così via».
Che la scelta fosse giusta lo prova il fatto che Waltz ha ottenuto il premio come miglior protagonista maschile al Festival di Cannes. Quando però si entra più nello specifico egli si chiede chi siano i suoi attori idoli, Tarantino cita per primi quelli considerati di seconda fila: Aldo Ray e Ralph Meeker. John Wayne, Cary Grant e Humphrey Bogart vengono soltanto dopo. «Molto spesso provo più interesse per gli attori che non hanno avuto la carriera che si meritavano». Ralph Meeker? Se non ricordate chi è, provate a pensare al ruolo secondario di pellicole come "Orizzonti di gloria" di Stanley Kubrick, o "Quella sporca dozzina" di Robert Aldrich. Parlando invece di Bogart, Tarantino esclama: « Se solo si pensa che Bogart, in inglese, è diventato un nome dì uso comune, perfino un verbo e un aggettivo. Non è formidabile il potere del cinema? ». Stessa reazione suscitano in lui le attrici: a 16 anni ha avuto una passione sfrenata per Jean Arthur che aveva scoperto nei film di Frank Capra. Poi ricorda la bella bionda Ilona Massey, attrice di origine ungherese. «Era eccezionale in "Joe, l'inafferrabile", un film dì serie B dei 1942», ricorda. Veronica Lake . e Barbara Stanwyck le ha amate, ; ma soltanto in seguito.
Dai suoi attori Tarantino si aspetta una grande curiosità intellettuale e 2 una disciplina di ferro. « Adoro che i miei attori sappiano ciò di cui parlano, che comprendano fino in fondo il loro personaggio oltre che i dialoghi. Prima di girare faccio vedere loro moltissimi film, e anche durante le riprese»: Quando erano sul' set di "Pulp Fiction", per esempio, Quentin ha mostrato a tutto il cast il film "La signora del venerdï", con Cary Grant e Rosalind Russel. Quel film di Howard Hawks e una commedia molto vivace, nella quale gli attori parlano come altrettante mitragliette: «Per me i dialoghi sono fondamentali: gli attori devono capire che il segreto di tutto sta nella loro recitazione». Tarantino vuole dunque che i suoi attori comprendano anche ciò che c'è dietro i dialoghi: «Ricordo un film di Woody Allen, "Mariti e mogli", nel quale due personaggi parlano dei film di Leni Riefenstahl ed è evidente che nessuno di loro aveva la più pallida idea di chi fosse... si vedeva. Per me questo è l'esatto contrario di quello che io voglio fare al cinema e il pubblico se ne accorge».
Per quanto concerne la politica, Tarantino sa solo una cosa: ha detestato George W Bush mentre ora è affascinato dal presidente Barack Obama. Ma l'immagine degli inquilini della Casa Bianca lo fanno tornare a "Inglorious Basterds". Commenta Tarantino: «I miei personaggi hanno cambiato il corso della storia. Quel che intendo dire è che, se quegli uomini fossero realmente esistiti, tutto ciò che accade nel film sarebbe plausibile e sarebbe potuto capitare sul serio».
Da L’Espresso, 9 luglio 2009
Bastardi senza gloria, revisione alla sua maniera del nazismo, è campione di incassi in America. Alla vigilia dell'uscita in Italia, il regista racconta una lavorazione lunga e piena di dubbi. Perché «i film devono essere come dico io». Altrimenti? «Smetto».
«È italiana. Le è piaciuto Brad Pitt in versione Enzo Girolami». Senza aspettare risposta (Enzo Girolami Castellari è il regista del film italiano a cui si è ispirato), Quentin Tarantino si lancia in una lunga e sussultante risata che riproporrà più volte durante l'incontro. È sovraeccitato, felice. Dopo la trionfale accoglienza al Festival di Cannes, il suo Bastardi senza gloria ha conquistato, due settimane fa, il pubblico delle sale americane, incassando 37,6 milioni di dollari nei primi settegiorni,dieci in più rispetto alle previsioni, oltre la metà del costo del film. Merito, in parte, proprio di Brad Pitt, che nel filai è Aldo Raine, capo di un gruppo di soldati ebreo-americani inviati nella Francia occupala a seminare il terrore tra le fila naziste, tra teste scalpale o spaccate con la mazza da baseball e svastiche incise sulla fronte dei sopravvissuti. In questo film lungo due ore e mezzo, diviso in cinque capitoli (in sala dal 2 ottobre), c'è non solo l'omaggio al cinema di genere bellico, ma anche l'ambizione di riscrivere la storia: in Bastardi senza gloriaAdolf Hitler e i capi del Terzo Reich vengono sterminali dentro un cinema della Parigi occupata durante la premiere di un film di propaganda nazista. Un colpo di scena che ha suscitato reazioni contraddittorie, e attacchi in Israele.
«Quello che posso dire è che ho concepito la mia storia come una vendetta in salsa kosher per l'Olocausto. Non volevo fare un'opera alla Schindler List, ho puntato su un film divertente, d'azione» dice Tarantino. «E, comunque, sono convinto che molti giovani ebrei abbiano pensato alla vendetta, io l'avrei fatto. Avrebbero voluto sparare quei colpi in faccia a Hitler come Eli Roth nel film. E, lavorando sul set a Berlino, mi sono reso conto che eliminare il Fürher è stato il sogno di tre generazioni di tedeschi. Io l'ho realizzato al cinema».
Ucciso con una revolverata in faccia. Poi bruciato vivo.
«Esatto. Perché nel mio film è il cinema stesso, grazie al rogo delle pellicole, a distruggere il nazismo. In senso letterale, appunto».
È venuto come voleva? «Bastardi senza gloria» ha avuto una gestazione di dieci anni.
«Alla virgola. All'inizio della mia carriera, ai tempi delle Ieneero angosciato dall'idea di non sapere nulla di effetti speciali e scenografie. Avevo la mia visione del cinema, ma non ero certo di saperla tradurre sullo schermo. Per fortuna al Sundance Festival feci una risolutiva chiacchierata con Terry Gilliam che mi spiegò: non devi saper fare queste cose, il tuo compito è circondarti dei migliori professionisti del settore e spiegare loro, esattamente, quello che vuoi».
Quanto è stata importante la scelta del cast?
«Le dico solo che a un certo punto stavo pensando di rinunciare al film. Non trovavo l'attore giusto per interpretare il colonnello Hans Landa. Avevo già allertato i produttori, quando mi sono imbattuto nel fantastico Christoph Waltz, capace di recitare meravigliosamente in quattro lingue. E, ovviamente, Brad Pitt. Il suo Aldo Reine è un soldato del Sud degli Stati Uniti che combatte il nazismo come ha fatto con il Ku Klux Kan. Quanto a EH Roth, beh, non potevo togliere la soddisfazione a un giovane ebreo di Boston di sparare in faccia a Hitler».
Nel suo film, il cinema salva il mondo. Nella realtà, vista la sua giovinezza turbolenta, si può dire che il cinema le abbia salvato la vita?
«Non so se mi abbia salvato la vita, certamente me ne ha dato una. Dedicarmi al cinema, a farlo, a guardarlo, può essere la vita. Nel mio caso, una vita meravigliosa».
Il momento più esaltante?
«Quello in cui il pubblico vede il film. Uscendo in macchina dal Palais di Cannes, dopo undici minuti di standing ovation all'anteprima, ho detto ai produttori: ci siamo ammazzati per finire il film in otto mesi, abbiamo rischiato e sputato sangue e sapete una cosa: dopo questa serata vi dico che ne valeva la pena».
Lei ha bisogno di sentirsi amato dal pubblico.
«È essenziale. Per me il film è finito solo nel momento in cui lo vedo con il pubblico. E per pubblico non intendo una massa indistinta della quale cerco di indovinare i gusti. Il pubblico sono io. Per questo comprendo cosa piace e cosa fa arrabbiare».
E per quanto riguarda i critici?
«Nessuna animosità. Se non avessi fatto il regista avrei fatto il critico. Una volta parlavo tanto di cinema, ora preferisco scrivere recensioni, che non pubblico. Magari lo farò, in un libro. Scrivere mi chiarisce le idee, rafforza la mia estetica, mi fa capire quel che funziona in un film».
Inglourious Basterds somiglia a un film europeo?
«Nel mio cinema ho sempre pescato a piene mani e senza vergogna nella cultura pop americana, ma l'influenza europea c'è. Jackie Brownda questo punto di vista, è un film francese. Kll BiIl è stato influenzato dagli spaghetti western e dal cinema d'azione di Hong Kong.»
E questo film?
«A parte il titolo mutuato dal bel lavoro del mio amico Enzo G. Castellari, mi sono ispirato a Quella sporca dozzina e ho visionato molti film di guerra, quelli di propaganda, termine che non amo. Grandi autori come Jean Renoir con Questa è la mia terra, Jules Dassin con Nazi AgentDouglas Sirk con La pazzia di Hitler. Per questi registi il nazismo non era un fantasma del passato, ma una minaccia viva e reale. Molti lo hanno sperimentato sulla propria pelle. lo non riesco nemmeno a immaginarlo, un mondo in cui Jean Renoir non è libero di vivere in Françia».
Ci sono anche molti riferimenti al cinema italiano.
«Sempre. Castellari, le musiche di Morricone. Ma anche piccoli riferimenti, come il soldato Fenech, lo trovo un nome fantastico anche se ovviamente non c'entra niente con la splendida Edwige. E mi ha divertito spacciare i miei rozzi soldati per cineasti italiani. Il momento in cui Brad, strizzato nello smoking bianco, si ritrova a balbettare nella vostra lingua è in assoluto la scena in cui il pubblico si diverte di più».
Verrà in Italia per la promozione del film, ma anche per recitare un cammeo nel film di Castellani con Franco Nero...
«Sono molto impegnato, ma vorrei essere sul set di Enzo. Anche se quando mi sono rivisto sul set di Sukjyaki Western Django del mio amico Takashi Miike ero così grasso che sembravo Bud Spencer. Ma se devo fare un'eccezione, la faccio per Enzo e Franco Nero e per il cinema italiano, cui tengo molto. Anche se c'è chi non ci crede....».
Allude alla polemica partita dalla sua considerazione sul cinema italiano «deprimente»?
«Già, una frase tolta dal contesto. Io esprimevo solo il dispiacere per la fine di un'industria come la vostra, che è stata una gloria per il cinema mondiale. Ammiro registi come Olmi, Bellocchio, Moretti, Garrone: Gomorra è un film fantastico. Ma mi manca il cinema di genere: il giallo, il poliziottesco, l'horror. Un Paese è forte solo quando possiede il giusto equilibrio tra industria e film d'arte. In Italia oggi l’industria è legata alle miniserie tv Anche Hollywood è industria, ma nella quale può trovare spazio anche un artista come me».
È vero che progetta il prequel di Ingloudvus Basterds?
«Potrei farlo, ma devo riflettere bene perché, a 46 anni, non ho ancore molte cartucce a disposizione. Non voglio essere uno di quegli autori che si mette dietro la macchina da presa a ottant'anni. La vita di un regista nasce e muore con la sua filmografia e non ho intenzione di abbassare la mia media con qualche stanca pellicola senile. Ancora qualche anno e mi ritiro. Farò il romanziere».
Da Il Venerdì di Repubblica, 11 settembre 2009
Nel campo semantico Quentin Tarantino procede verso una astrazione di pensiero che muove nel doppio meccanismo di una diegesi fortemente allusiva, che sussume i rituali della messa in scena degli interstizi e della forma, nella violenza incruenta dei combattimenti zengakuren e nella violenza cruenta della metropoli di oggi.
Dietro l'apparente geometria dell'immagine e l'intricato impiego dei geroglifici di Kill Bill vol. I nella serie infinita di rimandi, dove il suono, il colore, la violenza esasperata rovesciano la prospettiva narrativa, la catena ininterrotta di significati e di significanti evidenzia la forza di volontà e il dolore, la 'costruzione' di una donna, intesa come figura, come l'elemento primario che evoca il fuoco. Non è un'associazione qualunque, donna e fuoco, per Tarantino appartengono a un unico mito, sono insieme vita e morte come la protagonista (sempre Uma Thurman) di Pulp fiction che ancora una volta, 'muore' e risorge, in un cinema tutto addensato sull'immagine, segnato da scatti espressivi improvvisi. Il fuoco è bellezza e mistero, il lampo di una accensione, la forza di un dinamismo che trasforma l'inerzia in movimento, metamorfosi slabbrata nelle mille posture evocate, nel distendersi degli episodi, in una determinazione a non lasciarsi sopraffare, che domina la ragione. Un fuoco interiore che dà vibrazione e vince la stasi, la morte apparente, in un transfert che risolve la volontà in movimento. Simbolo che richiama antiche saghe, fuoco rapito agli dei, ragione e condanna di un orgoglio umano che muove dal dolore struggente di un corpo violato e di una vita, forse, negata (quella mano che scopre l'ombelico per indicare il figlio sottratto... ), di una sofferenza che resta 'invendicata'.
Kill Bill vol. 2 sembra interrompere il gioco della violenza rappresentata dalla forza del balletto delle spade, dal turbinio esaltante del primo volume per rileggere filosoficamente questo dramma della vendetta, questa lucida volontà di pensiero e di azione che guida la Mariée (non in noir!) a superare le violenze degli altri. Uma Thurman è il corpo e il gesto, la possessione che rappresenta il nihilismo, il segno del fuoco, vita e morte in una giungla dove occorre essere sempre preparati. La lezione morale si intrica con la forma della forza pura, con la lezione dell'istruttore delle arti marziali, in un testa a testa, abile e violento, in uno splendore visivo dove il pugno rompe lo spessore del legno. Lezione che servirà a costruire la sequenza più bella del film, il seppellimento e la 'resurrezione' della protagonista, dal nero alla luce, dalla bara a quella mano liberatrice che emerge dalla terra. Tarantino, come in una pausa, chiude lo spazio, rinserra lo sguardo sulla donna, avvolge nel nero ossessivo i gesti della ragione, filma il tempo scandendo il battito della volontà ed esplode nella determinazione a proseguire la vendetta. E in questa sfida filma l'amore deluso, tra l'uomo e la donna, la tenerezza tra la madre e la figlia; e sospende la conclusione.
Ma quello che intriga in Tarantino è anche il suo rinchiudersi negli spazi, non nel senso del beckettiano Le jene, in cui tutto si svolgeva in quel set maestoso e crudele, in una sorta di riserva di immagini dove il significato assurge a un linguaggio secondo, metaforico e astratto, ma proprio nel senso quasi letterale di condensazione degli spazi - paesaggi, aereoporti, supermarket, uffici - di Jacky Brown, dove si attua e si risolve la drammatizzazione della Grande Scena, in un labirinto mentale. Costruito sui modelli ancora di un cinema classico il film è un teorema, un gioco ad incastri, un ingresso nel virtuale, reso solido da una serie concatenata di piani, in cui agiscono i vari personaggi - ancora figure - che fondano l'immagine dentro la materialità dei volti e al tempo stesso in una digressione sulla dimensione umana, sulla malinconia, la solitudine e la violenza date come forme enigmatiche e contraddittorie dell'esistente. La parola accompagna queste presenze straordinarie, si incarna nei volti e nei gesti, e diegeticamente assolve una serie complicata di rapporti sui quali prevale l'intelligenza della donna. La narrazione procede attraverso un'epica quotidiana, intrighi, violenze, assassinii gestiscono un reale ai limiti del non-sense, la morte arriva come una astrazione, come rallentata nello spazio, anticipa l'apprensione sensuale di Kill Bill in un mosaico in cui ogni cosa ha una sua collocazione luminosa e precisa. Approfondendo questo doppio meccanismo narrativo Tarantino segue una tecnica di accumulazione che potremmo definire barocca, dove la stessa violenza appartiene alle rêveries filosofico-mistiche dell'estetica dionisiaca, anche quando rientra nei confini di un'allucinazione 'realista', dove ogni gesto ha un valore ossessivo che obbedisce ad un rituale scenico, come il movimento di macchina, circolare, meticoloso, che sospinge l'uccisione di quel piccolo trafficante, convinto ad entrare nel portabagagli, in un fondo di interiorità mitologico; a differenza di Scorsese, rigido e impietoso cantore di una moderna ballata, tragedia dell'epica dei 'bravi ragazzi'.
Da Ritratti Autoritratti, Bulzoni Editore, Roma, 2006