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Rassegna stampa di Alfred Hitchcock

Alfred Hitchcock (Alfred Joseph Hitchcock) è un attore inglese, regista, produttore, sceneggiatore, montatore, art director, è nato il 13 agosto 1899 a Londra (Gran Bretagna) ed è morto il 29 aprile 1980 all'età di 80 anni a Los Angeles, California (USA).

VALERIO CAPRARA
Il Mattino

Scadranno giusto venerdì i venticinque anni dalla morte. Ma c'è proprio bisogno del protocollo per ricordare degnamente Sir Alfred Hitchcock o per sottolinearne l'autorevolezza, incrementata anziché affievolita dall'evolversi della storia (del cinema)? Ormai la bonaria figura del - cosiddetto con formula alquanto sbrigativa - maestro del brivido, una volta scavalcati certi ridicoli niet della «critica di papà», viene pacificamente e abbondantemente evocata ogni qual volta si torna a parlare non solo del genere thrilling, ma anche e soprattutto degli snodi epocali e delle mutazioni cruciali del linguaggio filmico in assoluto. È anche il caso di osservare che ogni stagione riesce a evidenziare un Hitchcock diverso, nel senso che tra i tanti lati della sua poliedrica personalità ce n'è sempre uno che sembra inventato apposta per illuminare «quel momento». Quando la saggistica cinematografica faceva timidamente capolino nei cataloghi, soppesata dagli editori nostrani come astruseria per cinefili, il volumetto «Il cinema secondo Hitchcock» di Francois Truffaut fece scoprire a tantissimi lettori quanto potesse avvincere e convincere il dialogo tra due registi di generazioni diverse che si trasforma in un'interrogazione sul fatto-cinema, sul mezzo-cinema, sulla sua grammatica, la sua strategia: era d'emblée disponibile, insomma, il più importante libro di cinema di sempre. Quando si cominciò a pretendere un urgente e accurato restauro dei film minacciati dal degrado della pellicola, fu subito chiaro che non ci poteva limitare alla «Corazzata Potemkin» & dintorni e che il concetto di classico poteva (doveva) partire anche da «La finestra sul cortile», «Intrigo internazionale», «La donna che visse due volte», «Psyco» o «Gli uccelli». Quando - come adesso - il discorso sulla crisi della fruizione in sala tende a paragonare, senza più tabù, la ricerca e la produzione del cinema tradizionale con quelle, ben più ardite, agili e futuribili dei telefilm (parliamo delle serie americane di ultima generazione, non certo della fiction «educativa» all'italiana), è impossibile dimenticare che Hitch si dedicò per il decennio 1955-1965 alla realizzazione di «Alfred Hitchcock presents» (365 episodi, venti diretti personalmente e tutti supervisionati con certosina pignoleria). La serie, in poche parole, che ha dimostrato per sempre (e insegnato ai migliori epigoni, magari agli autori di «X-Files» o «Twin Peaks») come una forte cifra d'autore possa perfettamente integrarsi in un palinsesto strategicamente «commercializzato» come quello televisivo. Non a caso, nel corso dell'intero mese di aprile, il benemerito canale Studio Universal (Sky) sta trasmettendo ogni sera alle 20,30 trenta episodi inediti in Italia nella versione originale sottotitolata, corredando a cadenza fissa la preziosa programmazione con tre documentari prodotti in proprio (imperdibile quello sull'universo femminile, un viaggio alla ricerca delle sue magnifiche ossessioni); ed è senz'altro un piacere unico confrontarsi, da spettatori fin troppo smaliziati, con l'alta tensione dei gialli montata nei sofisticati contrappunti di pura atmosfera, senza mai una scena cruenta o una spiegazione di troppo. Studio Universal non vuole e non può, nel contempo, celebrare la star televisiva (indimenticabili il profilo caricaturale introdotto dalla «Marcia funebre di una marionetta» di Gounod e la successiva chiacchierata «a quattr'occhi» con lo spettatore) amputandola, in qualche modo, dalla filmicità assoluta delle sue principali opere cinematografiche (anch'esse in onda a rotazione). Perché dalle inquietanti vicende nel bianco-e-nero vagamente slavato del piccolo schermo anni Cinquanta alle affilate geometrie voyeuristiche de «La finestra sul cortile», agli erotici girotondi mentali de «La donna che visse due volte», alla macchina da guerra degli «Uccelli» ecologisticamente scorretti, all'eroico masochismo della cleptomane «Marnie» o al delirante strip-tease edipico di «Psyco» non c'è altra misura creativa che il genio di Hitch. Nutrito da un pathos che ha le cadenze di un incubo fatto di scambi di persona, trappole, inseguimenti, fughe, colpi di scena e cerca nella messinscena i propri inestricabili gangli.

FRANCESCO BOLZONI
Avvenire

A 25 anni esatti dalla sua morte, avvenuta il 29 aprile 1980, quel che sta succedendo a sir Alfred Hitchcock ha qualcosa di insolito. Altri registi di fama, una volta preso congedo da noi, prima o dopo vengono dimenticati. Non così capita a due hollywoodiani un tempo non sempre osannati nella capitale del cinema mondiale: Orson Welles e Alfred Hitchcock. Su di loro si scrivono di continuo libri e le rassegne che dedicano loro richiamano giovani spettatori. Quarto potere del primo, nella struttura narrativa e nell'elaborazione delle forme, segnò un passaggio epocale, anche se le opere che lo seguirono non ebbero tutte la medesima forza innovativa. Hitchcock sembrava, al contrario, non violare mai le consuetudini dello spettacolo e in apparenza si accontentava di costruire prodotti riportabili al thriller. C'erano, sì, delle performance che non potevano sfuggire ai critici: quel bicchiere di latte che conteneva il veleno per Ingrid Bergman in Notorius (1946), quelle strisce sulla neve in Io ti salverò (1945) furono immediatamente considerati come esempi di grande bravura "tecnica". Ma non si trattava unicamente di perfetta conoscenza del mezzo. Anche piccoli film di mezz'ora circa, realizzati per la televisione in bianco e nero, mandavano contento il pubblico e oggi lo appassionano ancor più che negli anni in cui vennero realizzati. Quelle trame, non sempre coordinate da Hitchcock ma sempre segnate dalla sua maniera o stile che dir si voglia, convincono ancora; le motivazioni dei personaggi conservano verosimiglianza, gli ambienti sono suggeriti con tratto rapido eppure sicuro e, quasi mai, siamo davanti a documenti di un tipo di spettacolo, di un costume, di una mentalità tramontati. Eppure, per lunghi anni, Hitchcock non godette di molto consenso negli ambienti critici italiani, e questo avvenne nel secondo dopoguerra del '900. Le sue abili strutture narrative erano giudicate "macchinette", di quelle che si costruiscono in serie. Si poteva apprezzarne la buona fattura. Ma rimanevano condannate al purgatorio del "genere". Ci sarebbero volute le ricerche di Emanuela Martini a rivelare l'eccellenza di film quali Blackmail, L'uomo che sapeva troppo, Il club dei trentanove, Sabotaggio, La signora scompare. Erano film notevoli sul piano narrativo, e anche "precursori". In Sabotaggio del 1936 un terrorista affida una bomba al fratello della moglie e l'ordigno esplode in un autobus affollato… Sulla produzione inglese, che aprì a Hitchcock la via per Hollywood, gli spettatori non erano di sicuro più informati degli esperti. Eppure, da subito, apprezzarono i melodrammi hollywoodiani del regista e, in seguito, si innamorarono dei suoi "gialli" (da Il sospetto del 1941 a Paura in palcoscenico, 1950). Questa eleganza nella scrittura cinematografica, mai assente nell'opera hitchcockiana, venne segnalata dai critici francesi che diedero vita alla "nouvelle vague". Essi travolsero il "cinema di papà", alimentarono il cinema dei giovanissimi ponendolo sotto la protezione degli "zii degni". Fra loro collocarono Rossellini e Hitchcock. Qualcuno propose anche una lettura teologica dell'opera di Hitchcock che si dichiarò sempre cattolico. Ma lui diffidava degli eccessi. Quando incontrava un estimatore appassionato, per esempio Truffaut, si limitava al più a svelare qualche "segreto" del suo modo di organizzare i materiali narrativi. Che andò facendosi, soprattutto dopo La finestra sul cortile (1954), sempre più leggero, sempre più guadagnato al piacere del testo.

ENRICO MAGRELLI
Film TV

Uno dei saggi più appassionanti su Alfred Hitchcock resta quello scritto da due grandi critici-registi: Eric Rohmer e Claude Chabrol. Entrambi, prima da critici e poi da cineasti, attenti nei film degli altri e in quelli diretti da loro stessi alla “messa in scena“. Le storie sono tutte uguali. Forse. Quello che le rende diverse è lo stile, il tocco, la grana dell’immagine, il linguaggio, le coordinate figurative, la presenza di corpi che la Storia, l’evoluzione del costume e delle mode trasforma e al-lontana nel tempo. E non sembra scelta casualmente la citazione hitchcockiana messa come esergo del saggio: “Io sono, diciamo, come un pittore che dipinge fiori. È la maniera di trattare le cose che mi interessa”. Una maniera che è stata, è, e sarà inimitabile. Come certe firme così specifiche e particolari velate da un inchiostro simpatico, firme frutto di una grafia inaccessibile e non riproducibile. Il confronto con i pittori suggerito, con una voluta banalità, da Sir Alfred fa pensare che i falsari, per amore o per interesse, sanno come duplicare, copiare un quadro per quanto complesso e con uno stile prezioso. Nel cinema la situazione è completamente diversa e alcuni registi, sommi (l’elenco da buttare giù è un buon gioco di società, o un esercizio solitario da fare nei momenti di noia e nelle giornate uggiose), possono essere omaggiati, citati, “rifatti“, scopiazzati. Questi registi, tra i quali brilla Hitchcock, sono numi tutelari ai quali ispirarsi, con devozione o iconoclastia. E quando il film riesce, il massimo riconoscimento possibile è afferrare, al più, la stelletta di un aggettivo: hitchcockiano, felliniano, wellesiano, altmaniano, lubitschiano e... L’inimitabilità di un maestro come Alfred Hitchcock non è uno slogan critico o uno striscione da spalto del Maracanà del cinema, o una presunzione teorica. Se si guarda e si seziona un clone, prodotto da una cinefilia politicamente corretta ed esteticamente esangue, come lo Psycho di Gus Van Sant, interpretato da Vince Vaughn e Anne Heche, si guarda e si seziona un testo levigato e inerte: la relazione tra un autore e il Cinema (soprattutto se quell’autore appartiene al passato) è un chiasmo. Un soggetto creativo e un dispositivo si ritrovano in una forma incrociata. Una grammatica del senso, del set, dell’attore-personaggio, della macchina narrativa, che, in alcuni casi, assembla un prototipo. Dei due giovani e spumeggianti critici che pagano pegno a uno dei loro registi preferiti, solo Claude Chabrol, che ama la suspense, il poliziesco e i complotti di famiglia, segue, con intelligente distanza e autonomia, la scia hitchcokiana dalla fine degli anni 50 ad oggi,

EMANUELA MARTINI
Il Sole-24 Ore

Era un uomo tranquillo. Origine piccolo-borghese benestante, educazione rigorosa dai Gesuiti (la sua famiglia è cattolica), studi di Ingegneria, una passione per la geografia e il disegno (grazie alla quale supera la timidezza e, nel 1919, si presenta alla Famous Players-Lasky di Londra come bozzettista). Una moglie sola, la ragazza con la quale si fidanza poco più che ventenne sul set di un mélo, Woman to Woman, del quale è cosceneggiatore, scenografo e aiutoregista, mentre lei, Alma Reville, è montatrice e script-girl. Una figlia, Pat, che, occhialuta e tondeggiante, appare in piccole parti un po’ pettegole, in Paura in palcoscenico, Delitto per delitto, Psyco, e che non rinnega mai questo padre certamente bizzarro. E soprattutto, una carriera sempre in ascesa: il successo a 27 anni, con The Lodger, la conquista dei mercati internazionali a 35, con L’uomo che sapeva troppo (prima versione), e poi la transizione dall’Inghilterra a Hollywood (nel 1939, per girare Rebecca), tutto sommato non traumatica, nonostante le accuse di tradimento che l’Inghilterra gli rivolge allo scoppio della guerra, rari e non distruttivi gli insuccessi (Il caso Paradine e Il peccato di Lady Considine), recuperati in fretta con Delitto per delitto e con i contratti successivi con la Warner, la Paramount, la Universal), la fiducia incondizionata del pubblico. Mai un Oscar alla regia, è vero, a parte il tardivo Oscar alla carriera, conferitogli nel 1967. Ma, si sa, il regista forse più amato dal pubblico fu molto snobbato, trascurato, negletto dalla critica, considerato un "tecnico" mirabile più che un autore, finché non furono proprio i più accaniti sostenitori della "politique des auteurs", i francesi dei Cahiers, negli Anni Cinquanta, a stabilire la straordinaria coerenza di tecnica (linguaggio) e il significato delle sue opere, la profondità labirintica e addirittura "realistica" dei suoi viaggi nel terrore, l’umanità inquieta e scostante che brulicava sotto i suoi "trucchi". Fino all’uscita, nel 1966, del libro di cinema più bello, e più "tecnico" e umano, che sia mai stato scritto, Il cinema secondo Hitchcock, la torrenziale intervista di Frantois Truffaut ad Alfred Hitchcock.

PIETRO BIANCHI

I modelli letterari del regista inglese Alfred Hitchcock non sono gli scrittori misurati, controllati, sensibili al suono della frase o all’importanza delle virgole come Gustave Flaubert o Joseph Conrad: piuttosto dei tipi spregiudicati e dal sangue generoso come Balzac e Dickens, veri faticoni da scrivania, autentici forzati della penna. E soprattutto, un tantino visionari, che è ciò che conta per il nostro. Non è, intendiamoci, che Hitchcock non sappia «scrivere», come sarebbe assurdo sostenerlo per Balzac e Dickens. La differenza tra il modo di essere scrittori di un Flaubert e di un Balzac consiste in una diversa concezione dell’arte: per l’autore di «Salammbò», l’espressione è tutto, per il romanziere della «Comédie humaine» la lingua non deve essere che il docile strumento di un’originale concezione della società, di una suprema riflessione sul destino dell’uomo. Persino i frequentatori dei cinematografi suburbani sanno che Hitchcock rappresenta, nel cinema di questi anni, il genio della «suspense», cioè di quella gherminella stilistica per cui si tiene sospeso nel dubbio sull’esito della vicenda lo spettatore sino alle ultime immagini. Luogo comune, sostanzialmente vero. Ma se è esatto che il regista non ha chi l’eguagli per codesta qualità nel cinema hollywoodiano, è ancor più esatto dire che, nei suoi migliori esemplari, Hitchcock raggiunge risultati ch’e vanno assai al di là di una felice disposizione spettacolare. È sin troppo noto che se si desidera trovare un senso alla produzione dei film, spiegarne, al lume di un’artistica intuizione, di un’utilità sociale, gli esiti più riusciti, bisogna rinunciare a priori a certi canoni validi per le arti maggiori. I film cattivi dei registi di cui val la pena di occuparsi significano ben poco: la servitù del cinematografo è tale che opera d’arte si ha soltanto quando, per una quantità di felici occasioni, il regista ha avuto a disposizione gli elementi necessari a una felice creazione. Le occasioni mancate son sempre in minor numero delle remore, difficoltà, inframmettenze degli speculatori. Quanto, ad esempio, della malinconica involuzione di King Vidor è dovuto ad un cedimento, a una stanchezza dell’artista, e quanto alle necessità «alimentari»? Felici i narratori, e gli artisti in genere (se ne può citare sin che si vuole: da Dickens a Simenon, da Tiziano a Picasso, da Verdi a Strawinsky), le cui alte doti, il cui «messaggio» son stati prontamente compresi dai contemporanei. Essi non han dovuto attendere dei secoli il giusto riconoscimento, come è accaduto a Lorenzo Lotto, né il i88o, come è successo a Stendhal. Alfred Hitchcock è nato a Londra nel 1900. S’è occupato di cinema molto presto (ha firmato, sino ad oggi, una ventina di film), ma si è imposto all’attenzione solo nel 1935 con una pellicola poliziesca di buonissima qualità, Il club dei 39 (dal romanzo giallo omonimo di James Bucham), interpretato da Madeleine Carroll e Robert Donat. In cittadine inglesi colme di benessere e di noia, in teatrini periferici colmi di pubblico facinoroso, in osteriucce piene di spifferi d’aria, per lande deserte, nelle strade rese impraticabili dalla nebbia, si svolgeva un’assurda vicenda resa accettabile dal gusto di Hitchcock per i particolari di poetica concretezza e da quella padronanza della «suspense» di cui si è detto più sopra. In seguito chiamato ad Hollywood, doveva dar spago alla sua tendenza più intima, rivolta verso la celebrazione filmica degli stati morbosi. Se nel Club dei 39 l’artista è legato a una certa eleganza «georgiana», in linea con una cultura che vanta in quegli anni, come fiori supremi, i saggi di Aldous Huxley e i versi di T.S. Eliot, negli Stati Uniti la profonda natura sua avrà modo di rivelarsi pienamente. Accetterà di dirigere film plumbei, carichi di cattivo gusto purché gli si permetta di evocare dall’ombra i mostri che ci sono cari. La miopia, carica di una sottile grazia muliebre, di Madeleine Carroll nel Club cederà il posto alla opaca sensualità di Ingrid Bergman in Notorious: mentre le nebbie della nativa Inghilterra, ricamanti labili ideogrammi invitanti al fantasticare, daranno luogo ai raggi dell’impassibile sole in un mezzogiorno di sabbia e di fuoco. Lo sguardo a «doppio fondo» di Hitchcock ha scoperto subito l’organica disposizione di Hollywood al compromesso, più morale che artistico tra esigenze etiche e necessità commerciali. Nella fessura egli ha insinuato la lama irresistibile di una cinica attitudine a far restare la gente senza fiato, facendo finta di perseguire scopi di ineccepibile moralità. Il fondo puritano della cultura USA ha dovuto venire a patti, attraverso l’autocensura nota con il nome di «Codice Bren», con le esigenze dell’industria: siamo in un paese dove, sin dal lontano 1774 il Congresso aveva votato una legge che proibiva insieme «le corse dei, cavalli, il giuoco d’azzardo, i combattimenti dei galli e le opere di teatro». In fondo il talento di Hitchcock consiste nel rendere psicologicamente credibile ciò che è certo. È verità conosciuta sin dagli anni di Aristotele che molti fatti della realtà contrastano con il nostro desiderio di dare, come codificatori, trasfiguratori, spettatori, un ordine logico alle cose della vita. Certi avvenimenti sono troppo orribili per essere veri. Hitchcock sa scegliere nel coacervo dei fatti avvenuti, delle realtà immotivate: e la sua scelta, purificata dallo stile, rende, come s’è detto, credibile il vero. In uno degli ultimi film, Io confesso, il protagonista, vestito da prete, commette un delitto; poi, con la tonaca ripiegata sul braccio, corre da un sacerdote vero a confessarsi. Per una quantità di buone ragioni è proprio il prete, che ha raccolto la confessione dell’assassino, a essere sospettato. Gli elementi cari al genio visionario del regista sono radunati, in Io confesso in quantità rilevanti, il segreto della confessione, il delitto, la giustizia, e sin la figura sacerdotale, classica dell’ultimo romanticismo occidentale, come ci hanno insegnato gli eroi di Bernanos e le patetiche larve che popolano i romanzi di Graham Greene. Anche ne Il delitto perfetto e Finestra sul cortile con stupefacente abilità Hitchcock stratifica diversi episodi eccezionali e poi, dopo averli separati, li utilizza all’ultimo fine. Ricordiamo, per comodità di dimostrazione, alcune delle sue migliori pellicole. In Rebecca (Laurence Olivier, Joan Fontaine, 1940) che ha avuto immenso successo, Hitchcock è riuscito in qualche modo a riscattare il deplorevole testo letterario in tutta la parte che riguarda l’inchiesta della polizia: limpida, precisa, ricca di un confortante clima insulare.Il «mostro», cioè la orribile donna che, sapendosi condannata, ha ordito prima di morire la malefica trama, incombe senza mai palesarsi. Ne L’ombra del dubbio, che è forse il capolavoro di Hitchcock Joseph Cotten è un Barbablù in giacca di tweed e in pantaloni di vigogna: in apparenza un corretto e bonario gentiluomo. La sua sadica follia esplode improvvisa ma dopo che sapienti accenni e particolari minuti, ma pieni di senso, ci hanno avvertito che ci troviamo sul limitare del delitto. Tra i molti film di Hitchcock L’ombra del dubbio (1942) si distingue oltretutto per una straordinaria economia di mezzi; in altre e pur sapide cose sue l’artista non ha saputo resistere alla tentazione del barocco, alle strutture sontuose e pesanti. Ne I prigionieri dell’Oceano (dove curiosamente appare come protagonista Tallulah Bankhead, cioè la più celebre attrice americana della scena di prosa), che è un’opera di polemica antitedesca, il «mostro» è un cocciuto, fanatico comandante di sottomarino che cerca di far deviare la rotta alla scialuppa di salvataggio in cui è stato accolto dai suoi nemici. Ne L’altro uomo il protagonista Robert Walker è addirittura un tale che appioppa a un estraneo una missione delittuosa con la stessa disinvoltura con la quale si imbuca una cartolina in una cassetta postale. La singolare posizione di Alfred Hitchcock nel cinema d’oggi consiste dunque sia nell’alta qualità sua come nella meschinità e balordaggine dei produttori di film. Egli è uno dei pochi che non senta i ceppi dei controlli, dei conformismi ideologici e rituali, né gli ostacoli opposti dalla paura. È completamente libero, perché è un esorcizzatore di mostri. Se non è vero che i sadici, gli assassini, i folli omicidi finiscano sempre nelle mani della legge, è vero tuttavia che la gente desidera che così sia, per bisogno di sicurezza e di ordine morale. Hitchcock rende probabile una mezza verità. Nessuno può negare che i «mostri» esistano (vedi, di recente, il patriarca della «Grand’-Terre»): e quindi nessuno può proibirgli di evocarli al cinematografo. Da gran signore munifico, che conosce i gusti volgari, Alfred Hitchcock permette magnanimamente che l’orecchio del toro, cioè la testa del colpevole, sia poi offerta ai tipi che strepitano oltre le staccionate dell’arena.

FERNALDO DI GIAMMATTEO

Della sua vita va sottolineata l'educazione cattolica (presso il St. Ignatius College dei gesuiti). li resto è senza influenza: figlio di un commerciante di pollame e importatore di frutta e verdura, studia presso un istituto professionale (tecniche e strumenti della navigazione), trova impiego nella società del telegrafo, è assunto dalla filiale britannica della Famous Players-Lasky come estensore delle didascalie. Comincia una avventura che lo porta quasi di colpo - a 26 anni - alla regia di un film (The Pleasure Garden, 1925) e gli consente di lasciare un segno preciso nella produzione britannica fra muto e sonoro (il muto Il pensatore,1926, i sonori Blackmail,1929, e Il club dei trentanove, 1935, sono giudicati i più interessanti). Selznick lo conduce a Hollywood, dove tutta l'attività del regista si concentrerà e dove prenderà forma, progressivamente, il suo mondo narrativo dominato dai temi dell'angoscia e della colpa (presunta). La precisione impeccabile, e implacabile, del meccanismo del suspense ha indotto molta critica - francese specialmente - a giudicare Hitchcock uno dei maestri più brillanti dell'arte del mystery cinematografico, attribuendo al genere, e a lui soprattutto, valori di ascendenza filosofica.

News

Un programma di 14 appuntamenti per rivedere i film del grande maestro al cinema. Fino al 26 aprile.
Alfred Hitchcock presenta il più metafisco e spettacolare dei suoi film. Da lunedì 7 gennaio al cinema nella nuova...
Regia di Alfred Hitchcock. Un film con Jessica Tandy, Rod Taylor, Suzanne Pleshette, Tippi Hedren, Veronica Cartwright.
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