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Rassegna stampa di Rainer Werner Fassbinder

Rainer Werner Fassbinder. Data di nascita 31 maggio 1945 a Bad Wörishofen (Germania) ed è morto il 10 giugno 1982 all'età di 37 anni a Monaco di Baviera (Germania).

DANIELE DI UBALDO
MYmovies.it

Fassbinder è un autore eccezionalmente prolifico che, in 36 anni di vita ma in soli 13 di attività, è riuscito a girare 40 film, scrivere una dozzina di commedie, firmare almeno 30 regie teatrali e vari adattamenti radiofonici, senza considerare la produzione letteraria. I suoi film sono arrivati in Italia tardi e male. Tardi, considerando che il primo film distribuito è Il Matrimonio di Maria Braun (1979, quando i primi lavori risalgono al 1965). Male, perché trova spazio solo dietro la nomea di artista maledetto, omosessuale, drogato. In realtà, Fassbinder è solo una personalità dotata di una particolare sensibilità che cerca nel cinema il punto d'origine di un profondo disagio: il senso di oppresione e di mancanza di libertà provocato dal rapporto con l'istituzione. Ma questa esigenza dello spirito diventa, nel cinema di Fassibinder, tutt'uno con la ricerca stilistica. É come se ogni conquista formale rappresentasse una parziale liberazione, anche se non il superamento, da un'angoscia. Non è un caso allora che il suo genere preferito sia il melodramma, dove la storia dell'autore, i riferimenti autobiografici, si pongono in perfetto equilibrio con la Storia e la parabola, in cui è più facile il passaggio dal piano privato a quello sociale. Il matrimonio di Maria Braun, ad esempio, è ambientato nell'immediato dopoguerra e racconta le vicissitudini di una donna che, costretta da difficoltà, restrizioni e umiliazioni, cerca con forza e determinazione di ricominciare. Alla fine, tra amori diversi, si renderà conto che la sua libertà, le scelte, l'autonomia sono solo apparenti. É una vicenda privata che diventa una palese metafora della Germania, della sua situazione politica ed economica. Così come in altri casi diversi ritratti femminili serviranno a descrivere la Germania bismarckiana (Effi Briest, 1974, dal romanzo di Fontane), quella degli anni Cinquanta (Veronika Voss, 1981) e Settanta (Un anno con tredici lune, 1978).

ENRICO MAGRELLI
Film TV

«Rainer Werner Fassbinder è morto... oggi ho perduto un buon amico e la Germania un genio. Non avrei mai immaginato che sarebbe giunto il giorno in cui io, tanto più vecchio, mi sarei trovato a scrivere parole di lutto per un uomo di soli trenta-sei anni. La sua energia creativa, la sua vitalità parevano indistruttibili». Con queste affettuose parole, piene di stima, comincia il ricordo di Douglas Sirk Il regista che Fassbinder avrebbe voluto essere e al quale si è ispirato per comporre i suoi lividi, angosciosi, cupi melodrammi in cui le passioni e le emozioni sono strozzate dalle parole e dalle regole sociali, dai flash-back e dalla verità degli attori, dalla luce e dai tagli del montaggio. Da un cinema che continua a proporsi come specchio rotto della vita. Il 10 giugno del 1982 il regista muore nel suo appartamento di Monaco e con il “wunderkind”, il bambino prodigio del cinema tedesco del secondo dopoguerra, scompare uno dei protagonisti di quell’ultima onda del cinema europeo che perderà, rapidamente, la sua spinta, la sua originalità, la sua forza esplosiva. Fassbinder se ne va troppo presto, trascinato da una corrente impetuosa, da quelle rapide esistenziali che non lasciano scampo. Qualche mese prima della sua tragica fine aveva vinto il Festival di Berlino con uno dei suoi capolavori Veronika Voss e, con la velocità che aveva contrassegnato e connotato tutto il suo arco creativo, era riuscito a girare la sua ultima pellicola, il lancinante e bellissimo Querelle de Brest. Senza contare i testi teatrali, l’attività radiofonica e discografica o le interpretazioni in film diretti da altri, Fasbbinder lascia, in 13 anni (nel 1969 debutta, dopo due cortometraggi, con la sua opera prima L’amore è più freddo della morte), più di quaranta regie tra pellicole, video, sceneggiati, film per la televisione. Una filmografia ipertrofica, espansa, originale in cui cinema e Tv si intrecciano in maniera fertile (una coabitazione e una collaborazione tra i due media che hanno influenzato la nascita e lo sviluppo di tutto il cosiddetto “nuovo cinema tedesco”). Racconta in una delle molte e generose interviste: «Nei miei film ho lavorato secondo un’estetica del pessimismo, mentre in televisione secondo un’estetica della speranza». Naturalmente, analizzando trame e racconti scritti e diretti per la Tv, la chiave di lettura offerta da Fassbinder non è del tutto veritiera. Il futuro cineasta nasce 31 maggio del 1945 a Bad Wörishofen in Baviera. Il padre è un medico e la madre una traduttrice, la quale apparirà in numerosi film con gli pseudonimi Lilo Pempeit e Liselotte Eder. Lasciata la scuola senza conseguire la maturità liceale, Fassbinder studia recitazione, lavora nell’archivio di un quotidiano, cerca di iscriversi alla scuola di cinema di Berlino, ma non viene ammesso, entra a far parte dell’action-theater, fonda con un gruppo di attori tra i quali una delle sue muse, Hanna Schygulla, l’Antiteater. A cavallo tra gli anni 60 e gli anni 70 dirige Dèi della peste Attenzione alla puttana santa!, Il mercante delle quattro stagioni, Le lacrime amare di Petra von Kant rivelando un talento, una rabbia, una disperazione, un uso del linguaggio cinematografico che bruciano gli occhi degli spettatori. Il successo internazionale arriva nel 1978 con Il matrimonio di Maria Braun, dopo aver intrapreso con film come Tutti gli altri si chiamano Alì, Effi Briest, Il diritto del più forte, Despair la sua esplorazione del melodramma, la sua personalissima interpretazione del cinema di Douglas Sirk, che è considerato superiore a quello di Godard, Fuller e Fellini: «Ha girato i film più teneri che io conosca: sono i film di un uomo che ama la gente invece di disprezzarla». Anche Fassbinder ama nei suoi film gli uomini, le donne, i personaggi condannati all’infelicità, alla gelosia, alla delusione, al disincanto, a non essere mai corrisposti, all’intollerabile legge del potere e dell’oppressione. Il successo del Matrimonio di Maria Braun lo aiuta ad affrontare una riduzione televisiva (un modello di riferimento eccezionale) del romanzo Berlin Alexanderplatz e a continuare, con Lili Marleen, Lola e Veronika Voss, il suo dolente viaggio in un lunghissimo autunno in Germania. Purtroppo la morte lo ha afferrato proprio mentre egli stava dimostrando a se stesso che i film possono liberare la testa.

SARETTO CINICINELLI

Figlio di un medico e di una traduttrice, partecipa come attore e regista all’Action Teather un gruppo d’avanguardia di Monaco. Lì incontra alcuni dei suoi futuri collaboratori: Hanna Schygulla, Peter Raben e Kurt Raab; con essi fonderà l’Antiteater di cui ben presto diverrà il leader. Nel 1969 presenta al festival di Berlino, il suo primo lungometraggio L’amore è più freddo della morte, un’opera ricca di riferimenti al primo Godard e a Straub; seguiranno Katzelmacher e Gli dei della peste. Nel 1970 realizza per il cinema il suo dramma Il soldato americano, realizza Attenzione alla puttana santa: si tratta dell’opera che, in un certo senso, conclude il primo periodo della sua attività. Sulla scia dell’entusiasmo prodotta dalla visione di alcuni film di Douglas Sirk, Fassbinder inizia a ripensare il suo ruolo d’autore. Da questo ripensamento emerge la rivalutazione dell’ingenuità nel cinema hollywoodiano e in particolare nei melodrammi di Sirk.
Nel 1971 gira Mercante delle quattro stagioni storia di un perdente, girata interamente dal punto di vista del protagonista, il cui mutismo appare più assordante di un grido; accolto da un grande successo di critica il film mostra quanto il regista abbia assimilato e personalizzato la lezione di Sirk. Le lacrime amare di Petra von Kant (1972), traccia la relazione sentimentale tra una stilista di moda e una giovane di estrazione popolare, che presto l’abbandonerà per ritornare dal marito. La relazione omosessuale, giocata tra il raffinato e il dozzinale, svela una dialettica amorosa in cui i componenti tendono a vampirizzarsi a vicenda. Le difficoltà di una relazione sono anche al centro di La paura mangia l’anima (1973), storia di una vedova sulla sessantina, con un lavoratore marocchino molto più giovane di lei, che si presenta come una variante di Secondo amore di Sirk; in entrambi un amore socialmente impossibile, suggellato con il matrimonio, scatena il disprezzo dei figli: se tuttavia Sirk descrive essenzialmente la meschinità di una cittadina americana di provincia, Fassbinder indaga anche l’interno della coppia, per rintracciare le crepe che la chiusura o l’accettazione interessata dell’ambiente producono nella reciproca fiducia dei protagonisti. Con Martha, incentrato sul sadomaochismo delle relazioni matrimoniali, il regista anticipa la tematica di Effi Brest, di cui il film, in un certo senso, costituisce la variante “horror”. Tratto dall’omonimo romanzo di Fontane, quest’ultimo, magistralmente interpretato da Hanna Schygulla, è il più stilizzato e controllato film di Fassbinder e costituisce il suo maggior successo di pubblico prima di Il matrimonio di Maria Braun. Interpretato dallo stesso regista, Il diritto del più forte (1974) porta a compimento la trilogia sull’educazione nella coppia iniziata con Martha: questa volta ad essere “educato” sarà Fox, un giovane proletario omosessuale che dopo aver vinto 500.000 marchi alla lotteria si innamora di Eugen, figlio di un piccolo industriale che vorrebbe riplasmarne modi e mentalità per adeguano alla sua nuova condizione sociale. Il rapporto fra i due arriva fatalmente al punto di rottura: ritrovatosi solo e povero come all’inizio, Fox si suicida. Lucidamente estranea ad ogni utopia omosessuale, l’opera fu contestata dalle associazioni gay tedesche che la interpretarono riduttivamente, come un film sugli omosessuali. Remake di un’opera di Jutzi del 1927, Il viaggio in cielo di Mamma Kusters (1975), si rivela il film politico di un regista estraneo alla politica che ha il difetto/pregio di non ricadere in alcun schema ideologico e di scontentare tutti. Voglio so/o che mi amiate (1976), prodotto dalla televisione e basato su un fatto realmente accaduto, nella sua rappresentazione delle violente conseguenze di una mancanza d’amore, è uno dei più semplici e personali di Fassbinder, mentre Nessuna festa per la morte del cane di Satana sfrenata e provocatoria farsa nichilista sull’intellettuale piccolo-borghese, rappresenta la sua opera più eccentrica. Diverso ma tutto sommato proveniente dalla stessa atmosfera “nera” è Roulette cinese (che assieme al precedente e a Despair forma una trilogia sui generis sul tema della schizofrenia e della falsa coscienza borghesi). Quest’ultimo, girato in inglese con attori di fama internazionale (Bogarde e Ferreol) e tratto da un romanzo di Nabokov, narra la complessa storia della perdita d’identità di un ricco emigrato russo che, nella Germania di Weimar, pensa di realizzare il delitto perfetto uccidendo un suo presunto “sosia”: girato splendidamente e ben interpretato il film apre il cammino, tematico e produttivo, all’ultima fase dell’attività del regista, che si costituisce come un’approfondita riflessione sulla vita tedesca nel periodo che precede e segue il nazismo, cui fanno da contrappunto alcuni splendidi film a basso costo, più sperimentali e maggiormente legati all’attualità. Fra questi segnaliamo il coraggioso episodio di Germania in autunno(1978), convulso tentativo di definire “il politico” attraverso il “privato” durante gli anni di piombo tedeschi e il disperato In un anno con 13 lune, autentico capolavoro, di cui Fassbinder firma sceneggiatura, regia, scenografia, fotografia e montaggio. Realizzato dopo il suicidio dell’amico Armin Meier, il film racconta gli ultimi cinque giorni del transessuale Elvira, ed è forse l’opera più radicale di tutta la filmografia fassbinderiana. Avvicinabile per la sua ispirazione privata a Il diritto del più forte, il film elabora nuove possibilità di uso dell’immagine e del suono, della visione polifonica e della narrazione, schiudendo allo spettatore le porte di un cosmo che poi dovrà egli stesso conquistare. Il matrimonio di Maria Braun, affascinante apologo postbrechtiano sul dopoguerra e la ricostruzione, segna la definitiva consacrazione del regista e della protagonista presso il pubblico internazionale: melodramma raffreddato da una narrazione asciutta e diretta, Il matrimonio è un film insieme intellettuale e popolare, la storia di una donna che è anche metafora di una nazione, Berlin Alexanderplatz (1980) sceneggiato in sole 15 ore, co-prodotto dalla televisione italiana e tratto dal torrenziale romanzo di Doblin, fu accolto con entusiasmo alla Biennale di Venezia del 1980. Questo devastante capolavoro che narra con una infinita varietà di toni e una grandezza solitamente riservata agli eroi, le insignificanti vicende di un ex-detenuto e dei suoi amici nella Germania di Weimar, è soprattutto il tentativo di rendere l’epopea di un’epoca in cui i temi e problemi si riflettono continuamente nell’oggi.

FERNALDO DI GIAMMATTEO

Brucia la sua vita a 36 anni, per una overdose. Ha sperimentato un cinema politicamente ribelle, narrativamente assurdo, pateticamente compromesso con i lati più disperati della vita e della società tedesca. Figlio di un medico, che divorzia dalla moglie quando lui ha cinque anni, Fassbinder vive con la madre e, durante le sue frequenti assenze per lavoro, si nutre di cinema. Respinto da una scuola di cinema, si dedica al teatro, fondando con alcuni attori (Hanna Schygulla in testa) un gruppo di avanguardia, l'Antitheater. Al cinema giunge per la scorciatoia del cortometraggio, negli anni in cui si va organizzando un (innovamento della cultura e della estetica (sotto la bandiera del “Junger Deutscher Film”). Il primo film s'intitola - basta il titolo per comprendere L'amore è più freddo della morte (1969): un melodramma che esaspera i toni dello sperimentalismo (Straub, Godard, gli americani) calandoli nella realtà degradata di un mondo borghese in espansione e in crisi.

UGO CASIRAGHI

Il mattino del 10 giugno 1982, nel suo appartamento a Monaco di Baviera, il corpo senza vita di Rainer Werner Fassbinder giaceva davanti al televisore acceso. La morte lo aveva ghermito mentre, al solito, stava facendo troppe cose: guardare un film videoregistrato, fumare una sigaretta dopo l'altra, ingerire liquori, tranquillanti e stupefacenti, riempire di note un copione, uno dei tanti cui stava lavorando e che teneva ancora in mano. Da dieci giorni aveva compiuto 37 anni: tutti scrissero 36 ma non sapevano che se n'era tolto uno per vincere la scommessa di realizzare trenta film entro i trent'anni. Alla fine sarebbero stati quaranta per il cinema e la televisione - più le tredici puntate con epilogo di Berlin Alexanderplatz - in meno di tredici anni: il cineasta più prolifico del mondo.
Dieci anni sono passati da quel triste giorno. Dopo il festival di Berlino '92, che non s'è nemmeno accorto della ricorrenza, e in attesa delle manifestazioni annunciate per il decennale in Germania (che per la verità ha molto da farsi perdonare nei suoi confronti), una rassegna fassbinderiana comprensiva anche del suo teatro ha percorso l'Italia da Milano a Roma, da Urbino a Pesaro. Con Wenders e con Herzog, Fassbinder costituiva la pattuglia di punta del nuovo cinema tedesco, ma con questa differenza: che i primi due lavorarono prevalentemente all'estero mentre lui, nonostante ogni ostilità, rimase abbarbicato alla Repubblica federale. Oggi quel cinema non esiste più: non solo perché non c'è Fassbinder, ma perché Wenders e Herzog non sono più quelli degli anni Settanta. La Germania si è riunificata, ma il suo cinema si è frantumato; e certamente un corpus come quello fassbinderiano, così eccedente e caotico ma anche così fondamentalmente unitario, ha fatto capire anche a chi non amava particolarmente quello smodato e irritante terzo uomo, che con la sua scomparsa si è effettivamente perduto qualcosa di molto vitale.
Da quale impulso nasceva la sua micidiale frenesia di lavoro? Senza dubbio dalla necessità di rispondere all'orrore dell'esistenza, di sentirsi vivo in un mondo avviato all'autodistruzione. Fassbinder era affascinato dalla quantità esattamente come dalla qualità. Del resto non si erano forse attribuite cinquecento commedie a Calderòn e addirittura quasi un migliaio a Lope de Vega? Glielo diceva nel fatale incontro ad Ascona il suo idolo e vecchio maestro Douglas Sirk, colui che in gioventù aveva saputo imporre il melodramma d'amore nella Germania nazista per poi trasferirlo gloriosamente a Hollywood. Gli occhi di R.W. brillavano ma egli sapeva benissimo che non avrebbe avuto a disposizione il tempo di quei classici. Spinto dalla disperazione, lavorò tuttavia sodo «come un normale lavoratore tedesco». Proprio questo modo di vivere e di lavorare, però, lo ha ucciso. Al momento della morte sono andati a ricercare alcol e droga, ma la vera causa è. che aveva già accumulato una tale overdose di attività (perché oltre al cinema c'era la televisione, oltre al teatro la radio, oltre al regista l'attore) da bastare per una vita ben più lunga della sua.

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