Franco Brusati è un regista, scrittore, sceneggiatore, co-sceneggiatore, assistente alla regia, è nato il 4 agosto 1922 a Milano (Italia) ed è morto il 28 febbraio 1993 all'età di 70 anni a Roma (Italia).
Un segno che i tempi sono cambiati può essere questo. Anni fa Franco Brusati diresse un film intitolato Il padrone sono me, dal romanzo di Alfredo Panzini. Era un'idea bizzarra, perché il libro dello scrittore, pur con pagine brillanti, è dei suoi meno felici. Vi traspare la mentalità del Panzini, lodatore indefesso del tempo antico, e con la sufficienza verso il volgo del piccolo borghese che ha fatto il liceo e perciò resta persuaso, sino alla tomba, di essere il sale e il miele della terra. Ognuno prende il suo bene dove lo trova e non sono certo i buoni libri a offrire lo spunto dei migliori film. Ciò che era incongruo nell'impresa di Brusati era la profonda, radicale, rivoluzionaria differenza tra il dopoguerra 1919 e quello ultimo. Nel secondo i borghesi di città, a meno che fossero assai ricchi, non erano più in grado di mantenersi la proprietà in campagna, mentre fittavoli e mezzadri si erano rimpannucciati col mercato nero. Per dirla in breve, a meno di non essere più tanto giovani e di ricordarsi l'età del grigioverde e del Piave, Il padrone sono me risultava di scarsa simpatia e comprensione. In compenso il film è ricco di suggestione. Quanto a Myriam Bru, che ne è la protagonista, Brusati l'aveva vista in chiave Bonnard: una creatura di sogno, stupenda, avvolta in abiti bianchi. Una bellezza muliebre accarezzata golosamente da un artista innamorato delle forme, voglioso di ripetere, nel bianco e nero della pellicola, il miracolo della luce e dell'ombra.
Non fummo molti a lodare Il padrone sono me. Ci volevano troppe cose insieme: l'amore per la scrittura nitida, umoresca, del Panzini e il ricordo amoroso dei romagnoli, da Albertazzi a Serra, stretti attorno alla scuola dei Carducci; il ricordo di stagioni infantili con il mezzadro che offriva pesciolini fritti del fiume, polenta e vino bianco, fresco di cantina, all'ospite affamato; l'ammirazione per la venustà di Myriam, allora nel suo patetico mattino. Il nostro consenso fu pressoché solitario e Brusati dovette attendere per anni una nuova occasione. Nel frattempo, con un certo successo, aveva scoperto il teatro; ma a poco a poco i produttori timidi di una volta scoprivano che l'intelligenza cinematografica è come u,n conto in banca.
Il disordine (non Una giornata balorda, come han detto altri) è forse il primo film brechtiano ché sia apparso in Italia. Non che sia propriamente un film di denunzia sociale; ciò che tocca in Brusati (che ha studiato in Germania) l'insegnamento di Brecht è il fatto di esporre ogni personaggio della complessa vicenda nel suo momento cruciale. Come ne L'opera da tre soldi, un tale viene alla ribalta e in breve ci racconta i suoi affari.
Brusati non s'è certo dimenticato l'espressionismo, che in fondo non è che una realtà esagerata. Qual è la vera «realtà» di un individuo? Un tale vive come un tranquillo borghese; casa, ufficio, partita di calcio alla domenica, qualche chiacchierata al bar, una ragazza non troppo impegnativa, un po' di televisione. Poi salta fuori Raoul Ghiani. O quel tale Meursault, che diventa lo «straniero» nel famoso romanzo di Albert Camus. La volontà di Brusati di fare un'opera impegnata in ogni direzione, tesa a cogliere i contorni di una malattia comune, può essere denunziata dal fatto che l'alienazione dei suoi eroi è generale. Ricchi e pveri cercano la libertà dove non la possono trovare.
Applicate questo fervorino al Disordine, e vedrete che tra l'americano e il milanese vi è una stupefacente affinità. In fondo, il trionfo dell'esistenzialismo nell'Europa del dopoguerra è da ricercare proprio nella indeterminatezza di un sistema di idee che, partito da Kirkegaard il solitario, si presta alle diverse modulazioni di un Sartre, di un Heidegger, del cattolico Gabriel Marcel. Il difetto del materialismo è quello del serpente che si morde la coda. Si può essere col sentimento con la gente che soffre, con gli umili o con gli offesi, ma è molto difficile per una intelligenza rigorosa venir a capo delle contraddizioni del materialismo. La difficoltà l'ha sottolineata acutamente un pensatore che non può essere ovviamente accusato di non avere il senso dello sviluppo storico, cioè di essere un conservatore. Sartre ha scritto: "Non posso comprendere come la materia possa far nascere l'idea della materia". i registi che si limitano alla "classe", escludono la verità degli altri ceti; fissi alla santità della condizione operaia, sono nella stessa condizione spirituale di coloro che si convertono improvvisamente alla religione. Da una parte si chiudono in una fortezza che li protegge; ma dall'altra sono prigionieri di un mondo che, una volta che li ha catturati, non usa più schiudere le proprie porte verso i cieli del criticismo e della libertà intellettuale. Non si può uscire da una religione una volta che se ne è invocata l'ortodossia come "ultima ratio".
Franco Brusati, in tutti gli anni che corrono da Il padrone sono me al Disordine, deve aver parecchio riflettuto al problema. Un regista giovane e ambizioso non può sottrarsi ai miti dell'epoca, a costo di ritirarsi fin dai primi tentativi sotto la tenda dei praticoni scegliendo il conto in banca, la villa a Capri e la fiducia dei commendatori. La guerra e il dopoguerra sono stati avvenimenti rivoluzionari per la generazione cui appartiene Brusati. La sconfitta e le risse seguite alla fine della guerra hanno messo in discussione tutto: religione, famiglia, idee politiche, tradizione. Al convegno promosso dal produttore Lombardo a Milano, nell'estate dell'anno scorso sotto l'insegna «Il nuovo corso del cinema italiano», Franco Brusati appariva tra i più irrequieti. Non voleva sentir parlare delle vecchie, e logore, giustificazioni quietiste. Ci fu un frate che disse, imprudentemente, che in certi film mancava la speranza. «La speranza? Ecco una parola che suona in modo sinistro,» replicò vivacemente Brusati, lasciando interdetto il buon frate.
Il disordine, con tutti i suoi difetti che sono una certa discordanza nel gioco degli interpreti, inevitabile, data la loro diversa provenienza culturale e nazionale; una certa sommarietà provocatoria; e un difetto di chiarezza espositiva in certe scene, è fedele allo spirito del manifestino di Jonas Mekas. Non più l'urlo e il furore di Faulkner, ma un'inquietudine che si rivolge al mondo dei sentimenti perché non trova risposta nelle fedi tradizionali. «È un rifiuto del cielo per troppo amore alla società di uomini e donne che si dibatte con poca felicità sulla terra.» Al limite c'è (ci può essere...) un disordine nella sfera delle idee. Ma Brusati ha imparato dal commercio assiduo con le cose dell'intelligenza che i posteri hanno un debole per lo stile. In sostanza, Il disordine può essere un film singolare, un pochino «crispé», non del tutto persuasivo, insomma un caso limite.
Ma può essere anche, oltre che un momento privilegiata nella carriera personale di Brusati, una sorta di manifesto delle idee nuove. Un film «sgradevole», nel senso in cui il vecchio George Bernard Shaw definiva sgradevoli certe sue commedie. È un segno dei tempi.
Nelle aspirazioni dei nuovi registi, fedeli in un certo senso alla lezione di Ingmar Bergman, si può scorgere, con una punta di malignità (quanti l'hanno fatto?) un aspetto di I presunzione. Assomigliano al filosofo solitario che passeggia va sulla riva del mare e vide un bimbo che travasava acqua da un secchiello sulla rena. «Che fai?» disse il filosofo. «Cerco di vuotare il mare.» «Ma è impossibile!» «Tu credi che sia impossibile vuotare il mare e credi possibile la definizione di Dio?» È una vecchia storia che ogni tanto può essere utile ricordare. Pensiamo però che ci sia una differenza fondamentale tra gli inquieti del passato e quelli di oggi. È una differenza di comportamento più che di scienza.
Il cinema ha rivelato, secondo noi, agli intellettuali dell'ultima generazione la possibilità di un «discorso pubblico»vietato alle altre arti. I giovani registi hanno non soltanto respinto le accuse di fatuità portate contro la nuova arte dai reazionari, ma hanno accettato con rassegnazione, il che sembrava più difficile, ha condanna a non sopravvivere nel tempo che sembra caratteristica dei film. Le pellicole migliori, data la fragilità della loro materia, sembrano destinate alla sorte di quei tempietti greci di legno, di elegante struttura, di cui parla D.H. Lawrence in una pagina famosa. Incantevoli ma costruiti per la gioia e il riposo spirituale di poche generazioni.
Il rifiuto del tempo, delle cineteche e del giudizio dei posteri può essere una componente di eccezionale importanza nella scelta dell'arte del film da parte di tanti giovani dotati. Un correre deciso verso una meta di umiltà e di purificazione. Dopo di noi... Essi raggiungono, inconsapevoli, la curiosa posizione dei registi di Hollywood, pure importanti come Howard Hawks, William Wyler, John Ford che ricordano appena i loro film gloriosi di un tempo. I grattacieli perdono la misura umana, l'arte informale nega i risultati della natura, i romanzi alla moda uguagliano l'individuo pesante alla pietra. Brusati ha sentito acutamente un problema tra i più attuali. Per questo il suo film si chiama, emblematicamente, Il disordine.
«Non si può certo dire che io sia entrato nel cinema come un signorino che improvvisamente si mette a fare un film - ricorda Franco Brusati - a Roma mi feci presentare a Renato Castellani che stava girando Sotto il sole di Roma, era il 1948, e che mi accettò come aiuto non pagato [...]. Nel 1956 il vecchio Rizzoli mi offrì di realizzare un film dal libro di Fanzini II padrone sono me, la storia della decadenza di una famiglia borghese».
Devono passare altri sette anni perché Brusati possa realmente esordire nella regia cinematografica con un suo soggetto (II disordine, 1963). Nel frattempo raggiunge il successo come commediografo (La fastidiosa, Pietà di novembre<(em>, Le rose del lago...), attività che per tutti gli anni Sessanta svolgerà in alternativa o in parallelo a quella cinematografica.
Il disordine è l'opera di un regista che esprime una rabbia esistenziale diversa da quella di autori inglesi degli stessi anni, in uno stile violento ed espressionista che lo avvicina molto a quello di Ingmar Bergman.
Cinque anni dopo il terzo film, Tenderly, commedia ambientata in Svezia (scritta dal regista per liberarsi dal clima cupo del dramma teatrale Pietà di novembre su John Kennedy), raro esempio di sophisticated comedy all'italiana realizzata con un brio e un tocco difficilmente paragonabili a quelli di altri autori italiani. Film dopo film, Brusati appare come un corpo estraneo nella produzione nazionale, come un uomo che ha le proprie radici culturali e attinge il proprio stile e quasi ritrova la propria memoria all'estero. Curiosamente, a tutt'oggi esiste soltanto una raccolta di saggi molto recente sulla sua figura e neppure una monografia d'insieme.
Della generazione di autori che affondano le radici nel neorealismo, Brusati è e resta una figura di outsider, un personaggio di non facile definizione. Il successo di Tenderly gli consente di realizzare a due anni di distanza I tulipani di Haarlem, dove gioca su una tastiera assai più vasta di semitoni, dimostrando, come in un teorema, le tappe per giungere al possesso assoluto e l'impossibilità dell'amore totale. Sullo sfondo di un paesaggio e di atmosfere in cui dominano colori tenui, viene raccontata con toni dolci ed estenuati una storia d'amore non dissimile da quella della Cagna di Marco Ferreri: da una parte una ragazzina libera, che ha già avuto tutto dalla vita, e dall'altra un ragazzo, che per amore accetta e subisce tutto. Anche di venire accecato. Brusati non racconta un'avventura dell'eros che giunge a esplorare orizzonti estremi (come Nagisa Oshima); fa semplicemente incontrare due naufraghi e li osserva nel loro sforzo disperato di aggrapparsi l'uno all'altro, nella speranza di rendere meno doloroso l'affondamento.
In lotta per restare a galla è anche il protagonista del successivo Pane e cioccolata del 1974, l'opera di Brusati che ha riscosso il maggior successo internazionale, ottenendo un premio al Festival di New York come miglior film straniero. La storia è quella di un operaio italiano emigrato in Svizzera, che scopre a sue spese, al di là dell'aspetto esterno del paese civile, come in effetti si tratti di una specie di giungla piena di trabocchetti e di agguati. In questo film Brusati non adotta più i toni intermedi, ma usa in prevalenza meccanismi antitetici - ironia e pathos, commozione e protesta - per mostrare come l'avventura di un italiano, che vive fino in fondo la sua esperienza in un paese che lo rifiuta, possa diventare tragico e grottesco viaggio di progressiva degradazione fino a condizioni subumane (la famiglia che vive nel pollaio).
Dimenticare Venezia è il film che presenta la struttura più articolata e in cui il regista si dimostra più coinvolto. Nel breve volgere di un week-end un gruppo di personaggi, vissuto con l'impressione di poter sfidare il tempo (grazie alla presenza di una figura materna che ha fatto vivere tutti in una specie di dimensione di eterna giovinezza), all'improvviso, alla morte di questa donna, si trova inerme e scopre di dover cominciare effettivamente a vivere. Gli ultimi due film II buon soldato del 1982 e Lo zio indegno del 1989 aggiungono poco al suo tragitto, soltanto note più cupe e pessimiste che non favoriscono una buona accoglienza né da parte della critica né del pubblico.
Da Gian Piero Brunetta, Il cinema italiano contemporaneo. Da «La dolce vita» a «Centochiodi», Laterza, Roma-Bari. 2007