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Rassegna stampa di Fred Zinnemann

Fred Zinnemann è un attore austriaco, regista, produttore, è nato il 29 aprile 1907 a Vienna (Austria) ed è morto il 14 marzo 1997 all'età di 89 anni a Londra (Gran Bretagna).

LIETTA TORNABUONI
La Stampa

Fred Zinnemann è il regista di Mezzogiorno di fuoco e di Da qui all'eternità, il viennese-hollywoodiano collezionista di Oscar ed eccellente direttore di attori quali Marlon Brando, Montgomery Clift, Audrey Hepburn, Sean Connery, Grace Kelly, Burt Lancaster, Vanessa Redgrave o Gary Cooper, il cineasta democratico cavaliere delle libertà. È morto, novantenne, a Londra dove ha abitato per oltre trent'anni costretto sulla sedia a rotelle. Era un uomo piccolo, asciutto, cortesissimo e insieme remoto, poco simpatico e molto intelligente, d'una coerenza meravigliosa. L'ultimo film l'aveva diretto (e prodotto) quindici anni fa, e Cinque giorni, un'estate resta forse l'unica sua opera sentimentale: nella storia d'una vacanza in Svizzera di due amanti infelici, un medico scozzese e la ragazza sua nipote, c'erano la memoria d'un suo lontano amore, le montagne d'Engadina bellissime nelle immagini di Rotunno, la malinconia del tempo che se ne va, il desiderio di fermare l'attimo fuggente, la nostalgia d'un passato agghindato dal ricordo. Negli altri film molti lo giudicavano accademico, distante, professionale se non mestierante, freddo: forse perché non era affatto sentimentale, oppure perché non tutti pensano che la politica, la libertà, l'impegno, possano essere passioni ardenti quanto l'amore, la vanità, l'avidità. Zinnemann era un regista molto bravo che, spesso rifacendosi a opere letterarie o storiche, con il realismo, l'esattezza e l'analisi psicologica del suo tempo affrontava grandi temi di forte significato sociopolitico. Mezzogiorno di fuoco (1952), bellissimo western anomalo, denunciava la solitudine dell'onesto, quella vigliaccheria della collettività manifestatasi così chiaramente nel periodo della “caccia alle streghe” americana; Da qui all'eternità (1953) era un gran melodramma antimilitarista, al di là delle scene famose, indimenticate, di Frank Sinatra spezzato dalla violenza, della stretta amorosa di Deborah Kerr e Burt Lancaster tra le piccole onde sulla riva del mare; Un uomo per tutte le stagioni (1966) raccontava attraverso Thomas More ed Enrico VIII il conflitto tra ragion di Stato e coerenza morale; Giulia (1977) era un thriller politico antinazista nella vicenda di un'amicizia; Uomini (1950) e Teresa (1951) parlavano delle difficoltà d'integrazione alla società americana dei reduci o delle mogli straniere dopo la seconda guerra mondiale; e persino in Storia d'una monaca (1956) la missionaria Audrey Hepburn abbandonava l'abito monacale per assistere meglio, fuori dalle regole anguste del suo ordine religioso, i poveri del Congo belga. Regista all'antica? Certo, per generazione: ma anche capace di tenere insieme impegno europeo e glamour americano, di condensare contenuti civili e successo popolare, di contribuire con le facce splendenti dei divi alla formazione di tante coscienze e d'affascinare gli spettatori. Regista all'antica? Certo: l'attenzione, gli investimenti, la capacità professionale, lo studio perché ogni film avesse l'originalità e la forza d'un prototipo e sapesse comunicare al pubblico cose importanti, sono addirittura impensabili nella standardizzazione e ripetitività attuali del cinema americano. Anche i personaggi con un'esperienza simile alla sua si fanno, ovviamente, sempre più rari. Nato a Vienna nel 1907 in una famiglia borghese, bambino studioso del violino, giovane laureato in legge, Fred Zinnemann venne sedotto dai film di Von Stroheim e di King Vidor, sperimentò l'avanguardia a Parigi e a Berlino, emigrò negli Stati Uniti come tanti altri intellettuali ebrei austriaci o tedeschi alla fine degli Anni Venti e all'inizio dei Trenta. Al cinema arrivò attraverso la passione per la fotografia, per i documentari d'arte e per i documentari sociali, lavorò con Paul Strand e Robert Flaherty (ma anche con l'elegante Busby Berkeley per The Kid from Spain): il primo film come regista di cui nel 1944 si disse quasi soddisfatto, dopo un paio di gialli, era già La settima croce, tratto da un romanzo di Anna Seghers, con Spencer Tracy un pò dislocato nella parte di tedesco antinazista.

FERNALDO DI GIAMMATTEO

L'onestà intellettuale di un tecnico - un regista vero è sempre un tecnico - che non presume di essere un uomo di cultura e che al cinema offre una solida umanità, il rispetto delle proporzioni, un impegno sommesso verso i sentimenti. Nella storia del cinema questo viennese, fotografo emigrato prima a Parigi, poi in Germania e in Usa, occupa un posto appartato ma degno di nota. Collabora con Paul Strand per I ribelli diAlvarado (1936), si fa le ossa con due gialli, crede nelle virtù drammatiche di un romanzo ideologico di Anna Seghers e ne ricava un greve saggio antinazista interpretato da uno spaesato Spencer Tracy (La settima croce, 1944), si emoziona nel narrare la storia edificante dell'amicizia fra un soldato americano e un bambino liberato da un campo di concentramento (Odissea tragica, 1948), esplora con attenzione i congegni del dramma quando vi siano coinvolti personaggi segnati da ferite recenti (i reduci di Atto di violenza, 1949, e di Uomini, 1950, quest'ultimo interpretato da Marlon Brando).

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