Francis Ford Coppola è un attore statunitense, regista, produttore, produttore esecutivo, scrittore, sceneggiatore, montatore, musicista, è nato il 7 aprile 1939 a Detroit, Michigan (USA). Francis Ford Coppola ha oggi 85 anni ed è del segno zodiacale Ariete.
Nella grande confusione di valori e di definizioni che sembra aver investito da qualche tempo in qua il cinema, regalando etichette di genio agli autori di brillanti exploit, uno dei pochi modi per cercare di capire chi sia Francis Ford Coppola e per dargli il dovuto è metterlo nella compagnia che si merita: con Griffith, di cui condivide l’agitato destino industriale, con John Ford, di cui condivide la grandezza narrativa, con Stanley Kubrick, di cui condivide la visionaria ambizione. Qualcuno sostiene anche con Frank Capra, per la tenerezza del sentimento. Insomma con i grandissimi.
Questo non toglie che la sua carriera di regista, produttore, talent scout, abbia avuto, accanto agli “alti” di un capolavoro ambizioso e travagliato come Apocalypse Now (1979) i ‘bassi” di un film di maniera come Cotton Club (1984) - sofferente per le travagliate vicende della Zoetrope - o di film, peraltro notevoli, fatti con il principale e visibile proposito di incassare come Dracula (1992) e Il Padrino parte III (1990), che ha in effetti risolto tutti i problemi economici di Coppola, diventando imprevedibilmente, e come auspicato, la puntata più fortunata della saga dei Corleone.
Ma La conversazione (1974), Il Padrino (1972) e il Padrino parte ii (1974), Un sogno lungo un giorno (1982), Rusty il selvaggio (1983), Peggy Sue si è sposata (1986), Giardini di pietra (1987), Tucker (1988), vanno tutti a comporre il ritratto di un cineasta geniale e pronto al rischio, grande industriale e grande artigiano, intrepido nel cimentarsi con le avventure e con i generi, con i sentimenti e con la sperimentazione, che forse proprio perché Coppola è così lungimirante, è arrivata con troppo anticipo - e penso al caso di Un sogno lungo un giorno o al brillante esperimento televisivo di Rip Van Winkle.
Ma della grandezza di Coppola fa fede soprattutto la sua visione complessiva del lavoro di cineasta. Figlio di un musicista (il vecchio Carmine, flauto dell’orchestra di Toscanini e autore non sempre eccelso delle musiche dei suoi film), studente modesto, laureato in drama alla Hofstra University, Coppola ha cominciato a lavorare nella bottega di Corman come regista di seconde unità e come fonico, quindi come sceneggiatore - Parigi brucia? di Clément (1967), Questa ragazza è di tutti (1966) di Poilack, Patton, generale d’acciaio (1970) di Schaffner, per cui vince un Oscar, Il grande Gatsby (1974) di Clayton, che resta comunque un piccolo disastro.
I suoi primi film - altrettanti esperimenti di genere siglati da un tocco personale (un horror, una commedia, un musical con Fred Astaire, un “on the road” femminista) - hanno preparato velocemente il terreno a un grande film e a un successo commerciale come Il Padrino - nel quale Coppola riflette, tuffandolo nel noir della storia dei Corleone, il suo profondo senso della famiglia -, poi a un denso thriller “metafisico” che riassume tutta l’era Nixon come La conversazione. Nel 1968 è intanto nata lontana da Hollywod, a San Francisco, la Zoetrope (dal nome della macchina del precinema) - che oltre a produrre i film di Coppola lancerà George Lucas(American Grafflti, 1973) e produrrà Black Stallion (1979), Hammett - Indagine a Chinatown (1983) di Wenders, Mishima (1985) di Schrader - ma che nel 1983 sarà venduta all’asta per poco più di dodici milioni di dollari per pagare i debiti del baratro lasciato da Un sogno lungo un giorno. Per buona parte degli anni ottanta Coppola sarà costretto a lavorare “su commissione”, e i dolori anche privati non lo risparmieranno (durante la lavorazione di Giardini di pietra perde per un incidente il figlio Giancarlo, e il film reca le tracce di questo dramma). Con Il Padrino parte III rimette in sesto le sue finanze. E possiamo aspettare con fiducia il promesso On the road - da Kerouac - di uno dei massimi registi americani di tutti i tempi.
Da Irene Bignardi, Il declino dell’impero americano, Feltrinelli, Milano, 1996
Proprio quando ormai sembrava interessato solo a produrre vini e ad avviare alberghi (vorrebbe aprirne uno in Basilicata, la terra dei suoi nonni), Francis Ford Coppola sorprende il mondo del cinema con un nuovo film: Youth Without Youth (in italiano, Un'altra giovinezza) tratto da un racconto dello scrittore rumeno e storico delle religioni Mircea Eliade, uscito postumo nel 1988. Una storia d'amore «metafisica», intrisa di mistero e ambientata negli anni Trenta del Novecento, che il regista presenterà in anteprima mondiale alla Festa del cinema di Roma. Protagonista, Dominic Matei, un timido professore di lingue interpretato da Tim Roth. Il quale, colpito da un fulmine che lo fa ringiovanire, deve sfuggire ai nazisti che gli danno la caccia per carpirne il segreto.
Con Youth Without Youth, Coppola torna al cinema dopo dieci anni: il suo ultimo film The Rainmaker (L'uomo della pioggia) è del 1997. Ma oggi il regista di Il padrino e Apocalypse Now pare aver ritrovato la voglia di creare e ha già iniziato a preparare il prossimo film, Tetro, che girerà in Argentina. Proprio nella sua casa di Buenos Aires, qualche giorno fa, Coppola ha subito un grave furto: quattro uomini armati sono entrati in casa portandogli via i computer dove erano conservati anni di lavoro, compresa la sceneggiatura di Tetro. Il regista ha lanciato un appello televisivo ai ladri: «Cercavano soldi, hanno preso qualcosa di molto più prezioso per me».
Furto a parte, oggi Coppola, 68 anni, appare in pace con se stesso. Seduto sul patio della sua villa di Rutherford, nella californiana Napa Valley, dove produce i celebri, pregiati vini Rubicon, è in vena di ricordi. È qui che sono nati e cresciuti i suoi tre figli: Giancarlo (morto in un incidente in barca nel 1986), Sofia (la regista di Lost in Translation e Maria Antonietta, che oggi vive a Parigi con il marito, il cantante Thomas Mars, e la loro bimba di otto mesi) e Roman, che si sta affermando come sceneggiatore e regista ed è autore del copione di The Darjeeling, il film di Wes Anderson che ha partecipato al Festival di Venezia.
Signor Coppola, come ha scoperto il racconto di Eliade?
«Ero immerso nella scrittura di Megalopolis, il film che tento di realizzare da dieci anni senza pe: rò riuscirci (è una storia parte ambientata nella New York del futuro, parte nel passato della Roma imperiale, ndr). Riflettevo sul rapporto tra l'uomo e il tempo. Ho chiesto a un'amica orientalista, una studiosa di sanscrito, di suggerirmi delle letture sull'argomento e lei mi ha dato dei testi di Eliade, che ha insegnato anche negli Usa, a Chicago. Ho letto il suo racconto, Youth Without Youth, appunto, e mi ha subito affascinato perché sviluppava temi che mi sono cari: il concetto di tempo e di coscienza, la dimensione onirica della realtà. Visto che non riuscivo a trovare i finanziamenti per Megalopolis, ho pensato di fare come mia figlia Sofia con Lost in Translation: autofinanziarmi. La storia di Eliade mi è sembrata perfetta. Per girarla, mi sono bastati quindici milioni, guadagnati con la mia attività di viticoltore. Non facevo cinema da dieci anni e non avevo nessuna voglia di tornare nel giro dell'industria cinematografica. Avevo voglia di fare un film più "personale", interamente mio».
La novella di Eliade affronta temi filosofici e religiosi. Nel film, a quali ha dato più spazio?
«Al tema dell'amore eterno di un uomo per una donna. Il racconto è una variazione del Faust: che cos'è l'eterna giovinezza? Secondo me, è la capacità di innamorarsi di nuovo, e sempre della stessa donna: la donna della propria vita. Spero che al pubblico venga voglia di vedere il film più volte: ci sono tanti spunti e tante idee. Eliade era un filosofo, un orientalista, uno studioso di sanscrito e hindu... Il suo racconto è diviso in tre parti: nella prima, un anziano viene colpito da un fulmine che lo fa ringiovanire miracolosamente. Nella seconda spuntano i nazisti, a dargli la caccia. Nella terza c'è la storia d'amore vera e propria. Ho cercato di unificare queste tre parti, facendo dell'ultima quella principale. Ho cambiato la trama del romanzo e fatto incontrare il protagonista con la stessa donna che amava da giovane. È una storia ambiziosa, certo. E piena di idee, dicevo».
Invece di che cosa tratterà Tetro, il suo prossimo film?
È una storia ambientata in Argentina, che parla di famiglia, un argomento che in questo periodo mi sta particolarmente a cuore. In particolare, parla delle rivalità che si scatenano in una famiglia di artisti. Tetro avrebbe potuto anche avere come sfonda New York, o qualunque altra città dove ci sono immigranti italiani. È un mio copione originale, una scrittura alla Tennessee Williams o alla Eugene O' Neill. Una storia mia, una storia di fratelli. Tra i protagonisti ci sarà Matt Dillon».
Anche per Tetro lavorerà lontano dai grandi centri di produzione?
«Attualmente preferisco così. Anche se questo comporta delle limitazioni. Quando fai film con un budget limitato, non puoi per metterti, per esempio, di portare tanta gente in giro per il mondo: le spese più grosse che il cinema sostiene oggi sono proprio quelle per i trasporti e gli alberghi della produzione. Quando andrò in Argentina, a parte una o due persone con cui lavoro sempre, assumerò solo gente del posto».
Che rapporto ha con gli anni che passano?
«Bello. Ho attraversato tante fasi e tutte diverse, nella mia vita. Ho avuto la fortuna di fare un lavoro affascinante, ma anche la gioia di godermi una famiglia e un lungo matrimonio. Ho visto i miei figli crescere e diventare artisti. E adesso, alla mia età, ormai libero dal bisogno di guadagnare, ho l'opportunità di tornare con lo spirito a quando ero giovane e inseguire la carriera che sognavo allora. Sì, mi sento come un diciottenne».
A proposito di sogni: vuole confidarcene uno?
«Sì. Ma non uno di quelli notturni, come avrebbe fatto Fellini senza vergognarsene... Uno a occhi aperti: ho comprato un casolare in Basilicata, vicino a Bernalda, il paese dei miei nonni, che emigrarono in America compiendo un tragitto simile a quello descritto così bene in Nuovomondo da Emanuele Crialese, e vorrei farne un piccolo hotel-resort, do ve gli ospiti possano godere delle meraviglie naturali e gastronomiche del Sud Italia. Ho già realizzato un progetto simile, con successo, nei miei resort dal Belize al Messico. Per Bernalda ho un progetto particolare: vorrei creare un centro di formazione per sceneggiatori, scrittori di teatro, musicisti e artisti. In fondo, io ero tornato in quei luoghi per riscoprire me stesso come artista. È lì che mi è tornata la voglia di fare il cinema che sognavo da ragazzo. Non riuscirò mai a separare l'arte e il cinema dallo spirito dionisiaco che sempre si è agitato dentro di me».
Da Il Venerdì di Repubblica,12 Ottobre 2007
Film a basso costo. A tecnologia digitale. Girato in bianco e nero e con solo i flashback a colori. Titolo: "Tetro". Il ritorno del grande regista del "Padrino".
Aveva scelto il silenzio, l'artista che ci ha regalato i personaggi e le immagini del "Padrino" e che, grazie al suo . originale adattamento di Joseph Conrad, ci ha dato con "Apocalypse Now" e con Marlon Brando che esclama « Orrore, orrore» il film definitivo sulla follia della guerra. Sembrava avere dato l'addio al cinema Francis Ford Coppola. Se c'era un problema con i suoi vigneti a Napa Valley o se c'era da andare a ritirare un premio per il suo Malbec o il suo pinot noir, accorreva. Se doveva fare pubblicità il suo report ecologico in Belize non si tirava indietro e se qualcuno gli faceva osservare che la sua immagine pubblica era quella del "papà di Sofìa" rispondeva come un buon padre orgoglioso. Ma di ritorno al cinema non voleva sentirne parlare, dopo avere conosciuto gli Oscar e la bancarotta, dopo aver condotto battaglie epocali con tro gli studios e averli aiutati a scoprire attori come Matt Dillon, Tom Cruise, Mickey Rourke, Nicholas Cage e a riscoprire Brando.
A oltre dieci anni da quello che molti temevano sarebbe stato il suo canto del cigno, il convenzionale “L’uomo della pioggia" girato coi solo fine di pagare debiti con banche, Coppola è invece tornato sui suoi passi. Ha trovato la sua strada rimettendosi in gioco- scrivendo, dirigendo, producendo e anche distribuendo con il suo denaro i film che gli passano per la testa, senza dover dare conto alle case di produzione, alle banche e alle assicurazioni. «Quando fai un film di gangster che va bene, vogliono che fai altri film di gangster; quando fai un film di guerra di successo, vogliono altri film di guerra», dice. E ora parla di una «seconda carriera », cominciata due anni fa con "Un'altra giovinezza", una meditazione sul linguaggio e sull'inconscio tratta dall'omonimo libro di Mircea Elíade (accolta da molti come il capriccio di un ex), e ora continuata con "Tetro". Il film è una storia di rivalità tra fratelli girata in Argentina con Vincent Gallo, Klaus Maria Brandauer e Alden Ehrenreich, già considerato il nuovo DiCaprio. «Voglio fare i film che mi interessano, che per qualche motivo mi aiutano ad affrontare e a capire le mi fobie e le mie paure. E che mi danno l'opportunità di imparare qualcosa», spiega.
Non c'è rancore nella voce di Coppola, non ci sono né nostalgia, né desiderio di rivalsa, ma solo la serenità di un patriarca, arrivato ai 70 anni. Parlando di Hollywood esprime indifferenza. «Non so per quanto tempo ancora la gente vorrà continuare a vedere delle brutte imitazioni di "Guerre stellari" e de "Lo squalo", e non so quanto parrà ancora reggere la violenza sadica di film come "Batman" o "Angeli e Demoni". Non so nemmeno dove sta scritto che noi registi dobbiamo buttarci in film sempre più costosi e spettacolari con i Brad Pitt, i Johnny Depp e i Tom Cruise. Attori bravissimi, per carità. Ma il problema è che quando non sono giusti per quella parte che recitano, gli studios ti cambiano la sceneggiatura, l'età degli attori, le location e ti ritrovi fra le mani una creatura irriconoscibile». Dopo il successo di critica e di botteghino della saga sui Corleone, Coppola ha diretto il raffinato "La conversazione" e ha prodotto per l'amico George Lucas "American Graffiti". Dopo "Apocalypse" si è buttato su film sperimentali come "Un sogno lungo un giorno" e "Rusty il selvaggio" e altri sottovalutati come "Canoa Club" e "Tucker". "Tetro" è un po' un manifesto del suo nuovissimo corso: un film piccolo, con un cast fatto soprattutto di attori argentini e spagnoli, girato in bianco e nero e in alta definizione digitale e ambientato tra il quartiere de la Boca a Buenos Aires e la vastità della Patagonia. «Nella mia prima carriera volevo fare soldi e lasciare un segno, ma ho anche sempre cercato di fare film intimi, nei quali le emozioni sono vere. Il problema è che Hollywood è asserragliata a difesa delle vecchie formule. Mi ricorda Detroit delle automobili, cinque anni fa». E poi spiega come troppi soldi abbiano corrotto l'ambiente: «Questa storia che un regista deve vivere in una mansion a Beverly Hills e deve avere quattro o cinque auto, e già che c'è anche quattro o cinque mogli, non l'ho mai capita. È un'idea insensata, perché se ami il cinema per davvero non ci sono soldi». Se Coppola non fa cinema peri soldi e nemmeno perla gloria, che cosa lo spinge, alla sua età, a un mestiere impegnativo come quello di regista e produttore? Perché non se ne sta nel suo finto chateau sopra San Francisco a godersi vino e nipoti? «Tutte le cose che ti attraggono hanno sempre un'altra faccia. Se mangi troppo diventi grasso, se insegui le ragazzine la moglie ti lascia. Imparare è il solo piacere che non ha lati negativi. Lavoro perché continuo a imparare, sul linguaggio, sulle regole, sui nuovi strumenti tecnologici».
La scelta di girare "Tetro" in Argentina, per esempio, è stata dettata dal desiderio di immergersi per un anno in una cultura nuova: «Fare film è faticoso e se lo faccio che almeno sia un'avventura», dice. Ma non si è limitato a scoprire un luogo e una cultura nuovi, ha anche scelto di girare in digitale. «Il cinema elettronico è il futuro e la qualità non cambia. La pellicola è stata con noi per cento anni. La amo e la rispetto. Sofia, mia figlia, di digitale non vuole saperne e come lei molti giovani filmmaker, forse perché in cuor loro sanno che un giorno la perderanno. Tra sei, sette anni il mondo non avrà più immagini fotochimiche, ma per me che autofinanzio i miei film, l'ambiente digitale ha il vantaggio di essere sempre pronto. Possiamo girare in fretta e controllare meglio ciò che abbiamo fatto». In quello che agli occhi di molti sembrerà un omaggio al passato. Coppola ha girato "Tetro" in bianco e nero, facendo ricorso al colore solo per i flashback. Perché? «Una delle stranezze del cinema è che i distributori pagano il bianco e nero la metà. Quindi un "Otto e mezzo" vale la metà de "La pantera rosa", risponde Coppola: «Non ho niente contro il colore, ma se uno vuole girare in bianco e nero e gli pare che sia più appropriato a rappresentare quella particolare storia, perché penalizzarlo?». E conclude ottimista, nonostante tutto: «Il cinema può offrire ancora tante sorprese e questa è la sua bellezza ».
Da L’Espresso, 16 luglio 2009
Ritratto/autoritratto, intimo sguardo di «une identite ou un'moi», con Tucker, un uomo e il suo sogno, epica familiare di una America fine anni quaranta, Coppola, in una riflessione su se stesso, si rifà stilisticamente ai film di quel periodo, riproponendo il modello espressivo di La fonte meravigliosa di King Vidor, con i suoi ampi spazi, con la luce e il nero abbaglianti e la forte espressività degli attori - gesti e atteggiamenti iscritti in un segno architettonico esplicito. Nello stagliare le immagini, si riappropria della luce e del colore del l'America del dopoguerra, secondo un'ottica visionaria che, più vera del vero, è oramai l'unica con cui 'vediamo' l'America, la stessa che impone l'etica dei personaggi, che ripete a sua volta quell"identità dell'essere' cui ci ha abituati il nostro immaginario in questo universo che i 'generi' hanno codificato nella nostra memoria. Il protagonista, Preston Tucker è il 'sogno' di un uomo che si mette contro i sistemi di produzione delle tre grandi firme di Detroit - Ford, Crysler e General Motors - l'esperienza di pensiero che lo porta a costruire da solo con una piccola équipe la sua automobile ideale. Ma che fallisce nell'impresa solitaria anche se la sua invenzione e destinata a rivoluzionare la stessa tecnologia.
Metafora di sé, il film racconta attraverso questo personaggio inventato la storia di Coppola, della sua équipe familiare, della sua Zoetrope, della lotta pànica contro i grandi monopoli di Hollywood; racconta delle sue speranze e delle sue sconfitte ma anche la vittoria della sua alterità. La mdp si muove con un ritmo che ricorda i grandi musical, in una mimesi linguistica di stile giocoso e attonito; e quando scoprendo 1"invedibile', lo sguardo si sofferma sull'improbabile aereo di quel geniale mistificatore e produttore che era Howard Hughes, Tucker affonda le sue radici nello spirito dei grandi pionieri e strutturalmente ricostruisce la grande ala del cinema classico. Ma con un senso dell'oggi, con la violenza di una polemica contro il consumismo, come quando mostra durante un pranzo promozionale i guasti mortali dei troppi incidenti stradali, mettendone in primo piano gli orrori necrofili. Un film postmoderno, se si vuole, che rovescia il clichè di una polemica antimodernista per ripristinare una più intensa visione mentale e costruire un immaginario che rifiuta - come dimostrano le immagini in bianco e nero che sfilano alla fine assieme ai titoli - il reale fotografico per un reale filmico di finzione, in una vitalità di scrittura che dimensiona forma e figure in uno spazio allegorico sempre a contatto col pensiero contemporaneo. Con Dracula il vampiro, questa vitalità espressiva continua a emozionarci sempre concettualmente. Il mito di Dracula, rivisitato con una pienezza formale che filtra tutte le inquietudini dell'era scientifica, diventa il 'pensiero ragionante' la ratio che scopre il Mondo Nuovo nato sotto la spinta della conoscenza e in cui superstizione, scienza e magia, fisica e metafisica si uniscono per -dominare la paura dell'uomo. E l'uomo che si avventura nei regni dell'oltre, che osserva l'imperscrutabile ed entra con Freud negli spazi dell'inconscio, sperdendosi alla deriva degli stati ipnotici, e l'Uomo del Novecento, l'Uomo,tra l'altro, che assiste con partecipazione alla nascita del cinema e che vede i primi film pornografici sostituire alla pratica del sesso, un sesso mentale, che già preannuncia una sessualità inorganica. Lo stesso vampirismo si avvicina, del resto, nella forma di richiamo dell'inorganico, a una sessualità solo mentale. E mentali sono le visioni delle spose di Dracula, gli incantamenti erotici, le immersioni nel sangue della vendetta, le allucinazioni e le angosce.
Con Giardini di pietra, otto anni dopo Apocalypse now, Coppola e tornato al Vietnam come memoria, come ricordo di esplorazione, scivolando sulle bianche lapidi che ricordano una vicenda del tutto privata, tra il padre e il figlio morto. Un film che pesa come un mortificante riesame di se e della propria incapacità a fermare gli eventi, una messa tra parentesi di una solitudine esistenziale, un meditazione profonda nella quale il passato rivive sotto una luce carica ancora di incognite. Ricostruendo in forme geometriche uno stato d'animo, Coppola rivive quella guerra come un'immagine pànica, come sospesa nell'immaginario di un rimorso. L'epochè qui non è più un atteggiamento solo filosofico, il rimorso/rimosso non è programmato, è qualcosa di imprevisto che pesa nella coscienza come un fardello, che i giardini di pietra simboleggiano. Il giudizio negativo riflette considerazioni che vanno oltre il dato di fatto e mettono in gioco lo stesso problema dell'identità. L'identità scompare e il ripiegarsi su se stesso pone in sostanza l'affermazione di sé come universo totalizzante, come un insieme di metafore e immagini che si approssimano al reale, come tangenti. In questa concretezza di pensiero Giardini di pietra può dirsi certamente il film più ripiegato su se stesso, che lo porterà a interrogarsi sull'insignificanza del mondo e nello stesso tempo sul sentirsi parte di una ricerca continua, punto di non ritorno, che lo porterà continuamente a interrogarsi. In TheRainmaker ritroviamo gli stessi toni cupi di una illuminazione che affonda nel nero dell'ombra, anche qui espressione di un dolore nascosto, la morte di un giovane malato di leucemia, nel paesaggio autunnale di un giardino del Tennessee, con quei grumi di colore che Klee avrebbe definito "rivisti con l'occhio pensante". Anche qui la lisce di un tessuto abissale stabilisce quella sensazione di estenuazione che determina l'uscita da se. Coppola apparentemente insegue percorsi convenzionali (le sequenze del processo) legati ad un cinema di derivazione (il romanzo di John Grisham) ma in effetti punta nella logica di dissociazione, su un linguaggio che conferisce alla luce di un colore uniforme il ruolo primario di rendere stati d'animo nella stilizzazione della forma di percezione. Il film 'sente' attraverso l'immagine, le parole non parlano, sono parole per 'vedere', parole per percepire l'emozione mentale di un paesaggio, di un volto, di un gesto nella ipseità di un'autoriflessione. Il film, come avvolto in un flusso sensoriale, si costruisce fisicamente attorno ai personaggi, ogni sequenza è come pensata a ridosso del giovane protagonista, deciso di forzare i temi per divenire avvocato delle cause dei diseredati; ma ogni elemento si inserisce in un meccanismo visivo, in quell'occhio pensante che scruta senza retorica e accorpa una galleria di personaggi visti con una dose anche di ironia, che immerge il diegetico in una tensione tattile. La stessa ironia, amara, crudele nel gioco del paradosso di Jack, favola nera di un bambino che invecchia paurosamente, che accetta la sfida del tempo come un'avventura implacabile che brucia i secondi come fossero ore e gli anni come le giornate mortali di una farfalla. Jack nasce, nell'incipit, come una trasgressione, come qualcosa di abnorme che le stesse radiografie rifiutano di registrare, come un dato impossibile. Ma il proliferare delle cellule non è un'astrazione scientifica e l'impossibile nel film diviene il possibile ed agisce come meccanismo moltiplicatore delle ore e degli anni, metafora della metastasi, della tragedia della vita breve. Jack nella corsa del tempo si sfinisce, il suo corpo è stanco, a dieci anni è già un adulto di quaranta ma con lo spirito ingenuo di chi scopre la realtà che lo circonda, che vede il mondo attraverso il buco di uno scatolone, dentro cui costruisce la sua casa giocattolo. Il film è le contraddizioni di questo crescere anti-natura, la scoperta, giorno dopo giorno del senso del disagio, gli espedienti cui deve ricorrere per resistere, la profondità dei livelli percettivi, la sua vita di relazione con gli altri. Favola nera, premonizione verso la morte, implicante una scrittura che introduce, accanto alle scansioni e ai livelli d'azione, un continuo transfert ad altre esperienze, I giardini di pietra, Peggy Sue... amare storie intrise di questo senso di morte, di un dolore non rimarginato. Sguardo in controluce nel fondo di sé, di un riemergere di zone rimosse.
Da Ritratti Autoritratti, Bulzoni Editore, Roma, 2006