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Rassegna stampa di Louise Brooks

Louise Brooks (Mary Louise Brooks) è un'attrice statunitense, è nata il 14 novembre 1906 a Cherryvale, Kansas (USA) ed è morta il 8 agosto 1985 all'età di 78 anni a Rochester, New York (USA).

PIERO DI DOMENICO
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Il padre, Leonard Porter Brooks, è un onesto avvocato di provincia; la madre, Myra Rude, donna colta, amante della musica classica e delle buone letture, avrà una grande influenza sul carattere di Louise spingendola sin da giovanissima alla danza. Infatti, a soli quindici anni, Louise abbandona il liceo per recarsi a New York dove entra a far parte della compagnia Denishawn. Allontanata a causa del suo atteggiamento insofferente e anticonformista, lavora dapprima per i George White Scandals, quindi, dopo una breve parentesi al Café de Paris a Londra, viene ingaggiata nelle riviste Ziegfeld Follies. Spirito erratico e mutevole, Louise riesce a distinguersi nella vita mondana per la franchezza disarmante delle battute, inusuale in una giovanissima provinciale, che in un ambiente di ipocrisie e verità sottaciute viene spesso presa per insolenza. La Brooks si distingue per l'indipendenza, la capricciosa volubilità e la fiducia nel futuro nonché per l'assenza delle tradizionali virtù femminili (quali la fedeltà) e, nel fisico, per una figura snella e quasi da ragazzo sottolineata dal corto taglio di capelli acconciati a caschetto. Dopo l'esordio cinematografico nel 1925 in The street of forgotten men, grazie anche all'amicizia col produttore Walter Wanger, Louise gira A social celebrity con Adolphe Menjou, quindi It's the old Army game con W. C. Fields sino a Love 'em and leave 'em. Louise fissa definitivamente il tipo della maschietta anni '20: il caschetto di capelli neri e lisci, gli occhi vivissimi e una vitalità irrefrenabile. Nel luglio del 1926 Louise sposa Eddie Sutherland, il regista di It's the old Army game, ma già nell'aprile del 1928 divorzierà tumultuosamente da lui: appare comunque già evidente la sua insofferenza per l'impersonale macchina hollywoodiana. Il 1928, comunque, fu un anno di svolta per la sua carriera cinematografica: infatti gira Beggars of life di William Wellman e A girl in every port (Capitan Barbablù) di Howard Hawks. Tuttavia lo spettatore più interessato all'interpretazione di Louise sarà però il regista austriaco G. W. Pabst che, con intuizione felicissima, la vorrà per il ruolo di Lulu in Die Büchse der Pandora (Lulu o il vaso di Pandora). Nel successivo capolavoro di Pabst il personaggio di Louise Brooks si raffina: in Das Tagebuch einer Verlorenen (Diario di una donna perduta) la protagonista Thymian è, al principio, nettamente inserita nella società borghese, e solo dopo esserne stata espulsa in nome di una rispettabilità esteriore (viene infatti sedotta e messa incinta) saprà riconoscerne la sostanziale falsità. Hollywood comunque non attira Louise e così, nel 1930, gira a Parigi Prix de beauté (Miss Europa), per la regia di Augusto Genina (su sceneggiatura di Pabst e René Clair). Sempre nel 1930 rifiuterà di doppiare un suo precedente film muto, The canary murder case (La canarina assassinata), tratto da un romanzo giallo di S. S. Van Dine, e si attirerà la vendetta degli studios hollywoodiani. La sua parte verrà doppiata (male) da Margaret Livingston e contribuirà a creare la fama che il declino della Brooks fosse dovuto alla sua pessima voce, incompatibile con l'avvento del sonoro. L'ultima possibilità per rimanere una stella di prima grandezza le viene offerta da William Wellman, che le chiede di essere la protagonista di The public enemy, con James Cagney. Incredibilmente la Brooks non accetterà la proposta e il film verrà poi interpretato da Jean Harlow; in seguito girerà solo film minori - tra l'altro un progetto di Pabst, che voleva lei e la Garbo insieme in un film, non si concretizzerà mai. Nel 1935 si risposa e poi divorzia nel giro di pochi mesi, e nel 1936 è impegnata in due western, Empty Saddles e Overland stage raiders, con John Wayne: saranno i suoi ultimi film. Nel 1940 apre una scuola di danza a Wichita, che chiuderà nel 1943 per trasferirsi a New York, dove lavora alla radio in alcune soap opera e per la pubblicità. Per necessità diventa anche commessa, ai grandi magazzini Saks, lasciando l'impiego nel 1948 grazie all'aiuto di alcuni ricchi amici. L'attrice si ritira allora in un appartamento della periferia newyorkese, dove affonda i suoi dispiaceri nell'alcol. Solo negli anni '50, grazie a James Card, grande studioso di cinema che scopre in lei delle insospettate doti di scrittrice, Louise Brooks esce da quell'anonimato che in parte si era creata lei stessa. Comincia così a scrivere articoli sul cinema per note riviste specializzate, come Positif e Sight and sound, mentre anche i suoi film cominciano a essere riscoperti: il Museo del Film danese la invita a Copenaghen dove proiettano il film Beggars of life; a Parigi la Cinemateque Française organizza un memorabile ricevimento per lei appena dopo la visione di Die Büchse der Pandora. Nel 1982 pubblica Lulu in Hollywood, una raccolta di suoi articoli che ha grande successo, accantonando invece il progetto di scrivere la sua autobiografia. L'anticonformista Louise muore nel 1985 a settantotto anni per enfisema polmonare, rifiutando gli antidolorifici per poter rimanere lucida, almeno in punto di morte. Il suo sguardo penetrante, il suo caschetto di capelli neri che incorniciavano il perfetto ovale del volto, hanno fatto di lei un'autentica icona della femminilità del ventesimo secolo. Il suo mito ha continuato a resistere negli anni, nonostante la scarsa circolazione che ebbero i suoi film, sia perché vennero presentati nel difficile momento di transizione tra il muto e il sonoro, sia perché ebbero diversi problemi con la censura e furono addirittura rifiutati in alcuni paesi europei; nonostante ciò, il caschetto di capelli corvini è rimasto nell'immaginario popolare come assoluto modello di passionalità.

A CURA DELLA REDAZIONE
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Il suo successo fu rapidissimo, quanto breve la sua carriera (dal 1925 al 1931, con un modesto "ritorno" in un paio di film del 1936). Tuttavia è considerata una delle poche autentiche grandi attrici del cinema, notevolmente più capace e ricca di mezzi delle sue celebri rivali, quali la Helm e la Garbo. Aveva cominciato come ballerina (fu "formata" dalla celebre danzatrice Ruth Saint-Denis), aveva lavorato per impresari come Ziegfeld, come White, poi era passata al Café de Paris di Londra. "Il suo tipo incontrava: bruna, con occhi vivi-di e stupendi, i capelli diritti acconciati con la frangetta di moda, lo sguardo provocante e pur fanciullesco, il riso smagliante grazie a una chiostra di denti sfavillanti, essa era l'immagine stessa della garçonne, la maschietta, la ragazza europea degli anni intorno al 1925. Hollywood la chiamò, e nel 1928 giunse il suo primo successo: Capitano Barbablù, dove a Louise era affidata la parte di una ragazza francese. Ma la "sua" parte fu quella vissuta in un film dell'anno successivo, la parte di Margaret Odett, la cantante protagonista del giallo The Canary Murder Case. Poi vennero i suoi grandi film europei, nati dalla collaborazione con un importante regista tedesco, Pabst. Questi intuì che quell'incarnazione fragrante e monellesca della bellezza 1925 sarebbe stata l'interprete ideale di Lulu, il film che egli si proponeva di realizzare, basandosi su due drammi di Franz Wedekind: Lo spirito della terra e Il vaso di Pandora. E Louise Brooks fu veramente lo spirito della terra, fu veramente, proprio grazie alla sua bellezza così "attuale", il simbolo eterno dell'amore allo stato puro e incosciente, l'amore che finisce per distruggere se stesso. La mirabile, miracolosamente naturale interpretazione di Lulu trovò una variazione ed un proseguimento nell'altro film di Pabst: Il diario di una donna perduta. Poi venne, in Francia, Miss Europa, una storia che si addiceva all'attrice e che è in certo modo attuale ancor oggi. Si trattava di una sartina che, eletta reginetta di bellezza, era portata dalle circostanze, dalla celebrità, dalla fortuna a subire un'intima trasformazione che le impediva di realizzare la piccola felicità cui in origine aspirava. Alla fine, come racconta Genina, il regista del film, "la sartina viene uccisa con un colpo di rivoltella mentre assiste alla proiezione di un suo provino cinematografico e ad ucciderla è il suo ex-amante, geloso di sentirle ripetere un motivo che essa aveva giurato di cantare a lui solo. La sartina cade morta sulla poltrona mentre sullo schermo la sua immagine continua a cantare «Je n'ai qu'un amour, c'est toi'»."Miss Europa - ed insieme con lei Louise Brooks - finivano così con quel viso ridente, con quella voce fresca che cantava sullo schermo, sopravvivendo, con effetto impressionante, alla morte della donna. Perchè i film che essa interpretò ancora, dopo il suo ritorno in America nel 1930, ebbero scarso rilievo. E il matrimonio con un ricco industriale di Chicago, nel 1933, fu il preludio ad un ritiro definitivo dallo schermo, da cui del resto l'attrice era venuta allontanandosi. La stagione di Louise Brooks fu breve, come si addiceva alla sua particolare bellezza. Ma il suo volto, che le immagini di celluloide conservano immutatamente giovanile, rimane come uno degli emblemi più splendenti di tutta una mitologia del sesso" (G. C. Castello).

EMANUELA MARTINI
Film TV

La ragazza era annoiata e la sua personalità era cosi intensa ch’era bastata soltanto una parziale flessione dei suoi occhi a rivelare il fatuo. Era una giovane donna buona e bella, dalla figura che sarebbe pienamente sbocciata prima di quanto ella potesse desiderare. Aveva diciotto anni soltanto». E ancora «La faccia di lei, arrossata dal freddo e poi riscaldata di nuovo dalla danza, era un tumulto di rosa squisiti e delicati, come tanti garofani sorgenti in numerose sfumature dal bianco del suo naso alle altare degli zigomi. Un suo respiro era molto giovane, quand’ella glI si fece vicino, giovane, sollecita e stimolante». Sono soltanto due degli appassionati, fuga da ritratti femminili disseminati da Francis Scott Fitzgerald nei suoi romanzi, taccuini, appunti. Ragazze degli anni 20, l’Età del Jazz, quella in cui «la più sfrenata delle generazioni, quella ch’era stata adolescente durante la confusíone della Guerra (la Prima guerra mondiale, ndr.), bruscamente spinse da parte a spallate i contemporanei e si mise a danzare alle luci della ribalta. Era, questa, la generazione delle ragazze che si davano un’aria drammatica presentandosi come maschiette sofisticate, la generazione che corrompeva i più vecchi e, infine, superò se stessa più nella mancanza di gusto che nella mancanza di principi morali». Durò dieci anni; il crollo di Wall Street del 29 rimandò tutti a casa ( quelli che una casa l’avevano ancora). E circa dieci anni, gli stessi, durò la carriera dell’incarnazione più pura e perfetta di quelle giovani donne fitzgeraldiane: Louise Brooks, che insieme alla rossa Clara Bow fu la flapper, la ragazza con le gonne e i capelli corti e danzanti, che si balla via la notte, energia nervosa all’apparenza inesauribile, baci (e molto di più) nel buio accogliente delle automobili, vita di corsa fino al diluvio. O al crollo nervoso (come accadde alla Bow, che si ritirò nel1925 ed entrò e usci da svariati istituti per malattie mentali), o alla füga scontrosa dentro la realtà. Questo è quello che accadde invece a Louise Brooks, che era nata da una buona ~ (nel igo6, nel Kansas), aveva esordito a 15 anni come ballerina, nel 1925 era arrivata a Hollywood con un contratto di cinque anni con la Paramount e in meno di tre anni, da piccole parti di scatenata commediante, era stata promossa protagonista con film come Capitan Barbablù di Hawks e &‚Beggars of Life di Wellman. Almeno 2000 lettere di ammiratori alla settimana, partner importanti, un idolo dei comics (Betty Boop) a lei ispirato. Louise Brooks era brava, era efebica ma non del tutto, fatale ma non del tutto, ingenua ma non del tutto. Era, appunto, la personificazione di una delle protagoniste di Fitzgerald, quelle che possono rovinare la vita a un uomo ma nello stesso tempo finire distrutte da un sentimento ammaccato. Era imprendibile e “viva”. Di questo miscuglio di determinazione e fragilità si accorse un grande cineasta tedesco, Georg Wilhelm Pabst che quando la Brcoks rifiutò di firmare contratti a lungo termine a Hollywood e ne fu perciò emarginata, la scritturò per due capolavori drammatici: Lulù -Il vaso di Pandora e Diario di una donna perduta, con i quali il volto bianco dell’attrice e il suo arrendevole abbandono agli eventi e agli amori più rovinosi ( l’ultimo incontro di Lulù, è noto, è con Jack lo Squartatore) divennero simboli precoci di una femminilità anarchica, vittima del mélo ma non vittimista, che affronta, tesse e subisce l’amour Fou tenendo in equilibrio ribellione e sottomissione al destino. Non è un caso che Louise Brooks sia diventata una vera star in decenni molto posteriori, quando nuovi ruoli e una redistribuzione immaginaria dei generi maschile e femminile scoprirono la sua modernità. Quanto a lei, tornò in America non domata, si ritirò dal cinema nel 31 e riprese la carriera di ballerina. Hollywood la cercò ancora nel 36, ne sortirono solo scadenti B movie e la Brooks nel 38 si impiegò da Saks, il grande magazzino sulla Quinta Avenue. Solo negli anni ‘50 ritornò a una (relativa) vita pubblica scrivendo per periodici cinematografici. La sua autobiografia, Lulu in Hollywood del 1982, è notevole per acume e onestà. È morta nel 1985, povera e sola. Ma la solitudine era probabilmente il suo destino: «Sapevo di essere una di quelle persone che si sentono come smarrite da quando ero bambina; mia madre non poteva comprendere la ragione dei miei singhiozzi solitari (...). Quando nel 25 andai a Hollywood, nessuno poteva comprendere perché odiassi tanto quel luogo di distruzione - un vero e proprio paradiso per tutti. “Che c’è, Louise? Hai tutto quello che si può desiderare. Che vuoi ancora?”. Da parte mia, vivevo in una sorta di incubo. Mi ero perduta nel corridoio di un grande albergo, e non riuscivo più a ritrovare la mia camera. Ero sfiorata da altre persone, ma avevo l’impressione che non potessero né vedermi né udirmi. Così sono fuggita da Hollywood, e tuttora non ho ancora smesso di scappare.

VITTORIO MARTINELLI

Nella piazza grande di Bologna, qualche estate fa, è stato proiettato, restaurato e con accompagnamento orchestrale, il film tedesco Die Büchse der Pandora (1929); quando sullo schermo è apparsa Louise Brooks, l'interprete del film, dagli spettatori che gremivano il parterre s'è levato un brusio di approvazione che, moltiplicato per quattro o cinquemila - tanti erano i presenti - è diventato un boato. Omaggio a un'attrice che non è un personaggio contemporaneo, non è il mito creato artificialmente dal martellante star-system o dall'invadenza televisiva. I pochi film che vennero illeggiadriti dalla presenza di Louise Brooks sono stati girati alla fine degli anni Venti, quando la quasi totalità degli spettatori oggi trascinati da quell'ondata di entusiasmo non era nemmeno nata. Aveva ragione il conservatore della Cinémathèque Francaise, Henri Langlois, voce allora «clamans in deserto», quando affermava che la Garbo, la Dietrich e tutte le altre erano donne, Louise invece era un'apparizione arcana, una magia vivente, benedetta da una personalità eccezionale e da una bellezza senza tempo, provocante e ribelle, il più bel volto del mondo.

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