James Dean (James Byron Dean) è un attore statunitense, è nato il 8 febbraio 1931 a Marion, Indiana (USA) ed è morto il 30 settembre 1955 all'età di 24 anni a Paso Robles, California (USA).
Quando, quel 30 settembre del 1955, la rimossero dalla statale 466 direzione Salinas (California), la Porsche 550 Spider su cui s’era appena ammazzato James Dean aveva l’aspetto di un grosso chewing gum masticato. Fa perciò uno strano effetto vedere JD ritratto in foto, solo pochi mesi prima dello schianto, mentre sulla moquette gioca col cuginetto Markie a smontare un modellino d’auto da corsa. I più devoti tra i fan ci leggeranno un presagio. Gli altri semplicemente la conferma che per Jimmy i motori erano una vera malattia. Più in generale la meccanica, dato che nel sontuoso album fotografico di Dennis Stock James Dean. Per sempre giovane (Contrasto pp. 128, euro 30) il ribelle dei Fifties armeggia con ingranaggi d’ogni sorta: biciclette, moto, trattori...
Tre soli film all’attivo (Gioventù bruciata, La valle dell’Eden, Il gigante): la carriera di James Dean si arrestò, in qualche modo, ai titoli di testa. A cinquant’anni dalla morte, nessuno può dire se sarebbe diventato un big del calibro d’un Brando o di un De Niro. La vita non gli diede il tempo per dimostrano e poi arrivò il mito ad allagare, divinizzare e confondere tutto.
Foto leggendarie e meno conosciute: come I migliori scatti della scuderia Magnum, anche quelli di Stock hanno il duplice talento di consacrare un’icona e, insieme, di perquisirla dietro le quinte del marketing. «Non ero interessato alle pose di Jimmy: erano artificiali» spiega il fotografo «così lo lasciavo fare finché si rilassava (...) Allora iniziavo a scattare fotografie rivelatrici, credo, del suo carattere più vero». Perché, prima che un attore James Byron Dean (nato l’8 febbraio 1931 a Marion, Indiana), divenne la faccia di un pezzo d’America.
Si vende ancora benone - quasi come quelli di Che Guevara - il poster con lui che, bavero alzato e cicca in bocca, passeggia intimidito tra le insegne di Times Square immensa, circonfusa di pioggia e nebbia, alienazione e poesia. Sotto il cappottone e l’abito scuro, i maglioni girocollo occhieggiano alle caves di Samt Germain des Prés e ad Albert Camus (fotografato, guarda caso, nel 1947, dal «Magnum» Henni Cartier Bresson, in posa alla Dean: stessa sigaretta pendula, stesso soprabito. Stessa morte in auto, si potrebbe aggiungere, ma questa è un’altra storia). Mentre le magliette a strisce marinare sono quelle degli hipster, i bohémiens americani che con bepop, nichilismo, amori fuggenti e benzedrina addormentavano i nervi della Guerra fredda, la grande paura della bomba. «L’unica morale hip è fare ciò che uno sente in ogni momento e in ogni luogo possibile» diceva Norman Mailer nel famoso saggio The White Negm (Il Negro bianco). Jimmy non poté leggere e ritrovarsi in quelle pagine perché uscirono nel ‘57. Non fece in tempo nemmeno per i beat. Per Sulla strada e I sotterranei di Jack Kerouac, che pure raccontavano di insofferenze molto vicine alle sue. Dean (almeno in foto) leggeva Kafka, Baudelaìre, Rimbaud e Verlaine, trattati hemingwayani sulle corride, cataloghi di mostre su Edvard Munch. Roba vitalistica e roba da spararsi. Ascoltando su spessi vinile Bach e Mozart ma anche dionisiaci percussionisti afro ai quali cercava di assomigliare quando, senza scarpe, sotto disegni matissiani, prendeva lezioni di bongos dal nero Cyril Jackson. Incarnazione, un po’ propagandistica e modaiola, di quell’America bianca (e nel suo caso anche quacchera) per la quale i blacks non rappresentano più folklore esotico ma cultura, arte, avanguardia, nuova frontiera del linguaggio.
Per non parlare degli scatti che lo colgono, sempre a piedi nudi nel parquet, mentre prova uno chassé o un pas glissé nelle scuole di danza di Broadway. Insonne, la leggenda vuole che gli bastasse assopirsi un quarto d’ora tra due birre al bar per estinguere ii prosaico debito quotidiano nei confronti di Morfeo. Un uomo, anzi, un giovane di quelli veri. Uno young american ipnotizzato dai tentacoli della metropoli, che però non dimentica le proprie origini provinciali e passa con nonchalance dagli spessi occhiali liberal alla Arthur Miller a berretti, casacche e scarponi working class, quando si tratta di tornare alle radici, tra i vecchi «cafoni» dell’indiana, in mezzo a mucche, cani, maiali, fango, neve sporca, ragazzini coi paraorecchie, officine e fattorie degli States profondi ed operosi.
Ma anche nel paesIno dl Falrmount, dov’era cresciuto e dove abitavano gli zii e Il cugino, Jimmy non si dimentica mai dl essere James Dean, l’hipster, vessillo d’una generazione che flirta con la morte con la stessa insolenza con cui tracanna la vita. Perciò, in barba alle superstizioni contadine, eccolo infilarsi in un negozio di pompe funebri e, sdraiato dentro una bara, gridare al fotografo: «Dai, scatta!». L’altro punta i piedi: «Ma no, esci di lì. È di cattivo gusto». Poi però l’obiettivo non resiste alla tentazione del sacrilegio. E ne viene fuori una sequenza con JD che nel sarcofago imbottito si esibisce in lazzi e smorfie. Dicono che non si fosse mai rimesso dal trauma della prematura morte di sua madre Mildred e che volesse raggiungerla. Avrebbe realizzato quella sua oscura aspirazione molto presto. Sette mesi dopo lo riportarono a casa dentro una bara. E Fairmount divenne qualcosa di più d’un borgo sperduto: seta di pellegrinaggi in omaggio a un ragazzino rimasto nella memoria di un mondo che, pure, l’aveva appena intravisto.
Da Il Venerdì di Repubblica, 13 maggio 2005
Erano le 18 del 30 settembre 1955 quando ta berlina di uno studente di San Luis Obispo si immise sulla route 46 che attraversa la California, tagliando la strada a una Porsche 550 spyder con a bordo due uomini. Nello scontro, la Porsche si frantumò. Lo studente rimase illeso; il passeggero della Spyder, il meccanico Rolf Wütherich, volò fuori, finì in un fosso e riportò numerose fratture; l’autista fu schiantato dalle lesioni interne e morì pochi minuti dopo. Si chiamava James Byron Dean, era nato l’8 febbraio 1931 Marion, in Indiana, era cresciuto tra Marion, Los Angeles (dove aveva frequentato i primi anni delle elementari) e Fairmount, ancora in Indiana, dove era ritornato dopo la morte (in età giovanissima) della madre, a vivere con gli zii Ortense e Marcus Winslow, e dove aveva frequentato le scuole superiori, giocato a fcotball e a basket, studiato musica e recitazione e avuto le prime esperienze sul palcoscenico. Quel 30 settembre del 1955 James Dean, appena terminato l’ultimo ciak del suo terzo film (Il gigante di George Stevens), stava andando a Salinas (poco a sud di San Francisco) per partecipare a una corsa. Con un solo film già apparso sugli schermi (La valle dell’Eden,di Elia Kazan), era già un divo; «I ragazzi che riempivano la galleria del cinema per l’anteprima a sorpresa della Valle dell’Eden» -~ ha ricordato Kazan - «non avevano mai visto James Dean. Ma nel momento in cui apparve sullo schermo, a centinaia cominciarono a urlare, l’intera galleria parve venir giù come una cascata... Ogni gesto di Dean provocava una specie di terremoto. Non ho mai visto niente di simile nella mia vita, in tutta la mia carriera di cineasta, nemmeno per Marion Brando». Con quei film, James Dean aveva raggrumato per un momento sullo schermo l’ansia, la frustrazione, la solitudine e la tenerezza dei giovani inquieti. Non ci si meravigliò che alla cerimonia funebre tenutasi a Fairmount l’8 ottobre del ‘55 fuori dalla chiesa ci fossero tremila persone, quasi il doppio della popolazione della città, e che più di cento corone inviate da sconosciuti accompagnassero la bara dell’attore. Ma fu con l’uscita postuma dei due film successivi, Gioventù bruciata di Nicholas Ray (alla fine di ottobre del ‘55) e Il gigante (il 10 ottobre del 1956) che la passione giovanile si trasformò in culto, che James Byron Dean divenne Jimmy Dean... Jimmy Dean, mai morto per molti fan, che non hanno smesso di inViargli lettere e chiedere autografi, icona per altri, che hanno continuato per decenni a indossare il giubbotto rosso e la T shirt bianca di Jimmy, ad appendere la sua sagoma sconsolata sul “Boulevard of Broken Dreams”, ad andare a caccia di reliquie a Fairmount, a Salinas (dove era ambientato La valle dell’Eden), al Santa Monica College che aveva frequentato e dove aveva girato Gioventù bruciata, a McCarthy, in Texas, dove sorgono le rovine del set del Gigante e dove s’immalinconiscono nei ricordi traumatici della giovinezza le ex ragazze del “Five & Dime“ di Jimmy Dean, Jinizny Dean di Altman.
James Dean, “vissuto in fretta e morto giovane“, come ripete con il suo sorrisino disarmante Jirn Stark, l’eroe per caso e per forza di Gioventù bruciata, si è trasformato in tutto il mondo nell’incarnazione più pura e perfetta dell’adolescenza dolorante e problematica, dilaniata tra timidezza e aggressività, bisogno di affetto e urgenza di fuga, sospesa sul baratro di una maturità che non vuole, non sente, non accetta. Jimmy Dean è l’orrore dei compromessi, il bisogno di assoluti, tutto quello che rimpiangiamo di noi si è segretamente ancora coltiviamo, il fervore e il dolore, l’esitazione e la gratuità, la possibilità di strattonare il proprio padre con violenza e per troppo amore e di guardare negli occhi la freddezza controllata e tragica della propria madre, il groppo allo stomaco per uno sguardo, una manciata di terra come un bacio, le mani a pugno in tasca per non toccare, non abbracciare. Incorporeo, privato della vecchiaia, immagine senza peso, nel momento esatto in cui il peso immaginario delle generazioni cominciava a invertirsi (all’esplosione di quella che crescerà e calcificherà sotto l’etichetta “cultura e disagi giovanile”), è diventato un assoluto, più d suoi antecedenti e idoli (Montgomery Clift e Marion Brando, più vecchio di lui di se anni e star di quell’Actors Studio che aveva per poco frequentato) e più di tutti quelli che ne hanno raccolto l’eredità, da Paul Newman (che interpretò al suo posto Lassù qualcuno mi ama) e Warren Beatty al Martin Sheen della Rabbia giovane, e a Matt Dillon, Sean Penn, Edward Norton. Recitava a nervi scoperti, indisciplinato, totalmente immerso nel personaggio: con le sue strida sottili da uccello ferito, le sue palme tese in avanti a rifiutare o a chiedere, rannicchiato su se stesso con le mani strette tra le gambe o sagoma scontrosa appoggiata al portico di Riata, James Dean era Cal Trask, Jim Stark, Jett Rink. Non era una questione di “Metodo”, e neppure di tradizione psicologica. Se ne accorse un grande critico che molto ne sapeva di racconti crudeli della giovinezza, François Truffaut, che scrisse nel 1956: «James Dean non è preoccupato di mostrare che capisce perfèttamente e meglio di voi quello che dice, lui recita qualcosa d’altro da quello che pronuncia, recita a lato della scena, il suo sguardo non segue la conversazione, provoca una sfasatura tra l’espressione ~ e la cosa espressa come un grande spirito che, per sublime pudore, pronunciasse grandi parole in tono dimesso per scusarsi di avere del genio. La sua recitazione è più animalesca che umana. In lui tutto è grazia, e in tutti i sensi della parola». La grazia dell’ora dello splendore nell’erba, della gloria in fiore, che nessuno può riportare indietro, e che in lui la morte fissò per sempre.
Da Film Tv, n. 23, 2005
Molti hanno accusato James Dean di non essere altro che un rincalzo o, al massimo, una variazione poco originale di Marlon Brando. Lasciando da parte una questione di fondo, poco interessante, è chiaro che Dean era un carattere e soprattutto qualcuno. È lecito sorridere alla notizia, data con serietà, del suo preteso amore per Anna Maria Pierangeli da cui lo doveva dividere tutto: cultura, ambizioni, preferenze; resta il fatto che questo figlio di agricoltori, che a poco più di vent’anni aveva conquistato le platee di Broadway e i «set» di Hollywood, aveva tutti i doni per affermarsi durevolmente in un mondo fluttuante e traditore come quello del cinema americano.
Di mediocre statura, miope, non bello, ma vivo e simpatico, James Dean tentava come alcuni attori e molti scrittori e registi di infondere un po’ di vita nella «macchina»degli «studios»; di rompere la crosta della routine, che è la nemica nascosta ma fatale dell’arte cinematografica. Amava i libri e i dischi di jazz; ancora un po’ ragazzo gli piaceva vestire alla carlona, e star comodo. Il suo rifugio era una piccola autorimessa da lui trasformata in un privato paradiso, nella quale riceveva gli amici, faceva qualche solitaria o collettiva bevutina, leggeva e ascoltava musica tra modellini di automobili.
Questo delle auto, che finì per procurargli la morte, era un altro residuo infantile. Recentemente un acuto osservatore francese notava che il «vitello di acciaio», cioè la macchina, lucida, veloce, e possibilmente fuoriserie, rappresenta, per molti adulti, un prolungamento dei sogni puerili. Ci si sente protetti quando diluvia o nevica, come nel fortino assalito dagli indiani immaginato da ragazzi; ci si isola dalla gente di fuori; la gioia del «sorpasso» somiglia molto a quella provata al tempo dei calzoni corti, quando si vinceva il compagno correndo nel vento della sera.
Con La valle dell’Eden, nella parte di Cal che tanto gli si addiceva, Dean aveva fatto un esordio sensazionale, tanto che si parlava di attribuirgli l’Oscar del 1955. Non sappiamo che effetto facesse doppiata perché non siamo più andati a rivedere il film, ma a Cannes, nell’edizione originale, la voce di Dean, sinuosa e vibrante, corrispondeva perfettamente al muoversi, al giuoco «saccagé» della fisionomia e delle mani. Un tipo di recitazione come questo, di trasparente derivazione teatrale, si adatta perfettamente ai nuovi mezzi tecnici, Cinemascope e Vistavision, perché lo schermo largo permette uno stile di recitazione barocco con la sua esigenza di riempire i «vuoti»della scena.
Si aggiunga la nevrastenia, il senso di insicurezza, la somma di inquietudini e di rivolta, di aspettazione di qualcosa che si intuisce e si spera migliore anche se non si sa precisamente cosa sia, e che va sotto il termine improprio ma efficace di esistenzialismo e si capirà agevolmente perché Dean apparisse dopo La valle dell’Eden ancora più nuovo di Brando e come attirasse subito le simpatie degli spettatori dell’ultima generazione. Ormai il successo era certo: pochi giorni prima della fine il ragazzo aveva ultimato un’altra pellicola, Il gigante, a fianco di Liz Taylor.
Aveva cominciato sulla scena con la riduzione dell’«Immoralista» di Gide per concludere vicino alla «cocca» di Hollywood; dall’avanguardia, dai testi difficili, ai film che rendono un sacco di dollari. Niente male per un tipo di ventiquattro anni.
Ma allora perché è morto? Può essere un facile segno che sia stato rapito ai suoi affetti, alle sue speranze, a bordo di un’automobile da corsa, fedele, almeno in questo, alla sua patria veloce. Ma anche se si rifiuta il desiderio espresso nella frase di Cesare, secondo il quale la migliore delle morti sarebbe quella «rapida e inopinata», resta il dubbio su una felicità troppo piena e improvvisa per poter essere vera. Mentre milioni di giovani vivono giorni grigi in oscure bisogne, tormentati da mille servitù, James era sfuggito al gregge e assaporava il miele della gloria e quello della libertà e di poetici lussi che soltanto il denaro può dare. Senza contare che, a differenza di coloro cui tante cose piacevoli vengono date dalla fortuna, Dean se le meritava. Adesso che il ventiquattrenne attore è morto, pare ancora più vera la frase dedicata da Renato Serra a un principe della gioventù: «È più che giusto che la sua felicità non pesi a quelli che vivono assieme a lui.»
Studiosi e sociologi ci stanno dicendo da tempo che gli Stati Uniti d’oggi sono profondamente diversi da quelli del 1939. Dev’essere vero perché uno dei dogmi di Hollywood era una volta che un attore morto non contava assolutamente più niente. Tanto è vero che nomi di interpreti di qualità eccezionali sparivano immediatamente dai repertori e che certi film nei quali figuravano attori passati «ad Patres» nel frattempo, venivano abbandonati «a priori»a un mediocre destino commerciale. Si ripete invece per James Dean il sorprendente caso di Rodolfo Valentino. Club di fanatici adepti si formano per parlare dello scomparso sino alla nausea. Riviste escono dedicate alla sua sola leggenda. Ragazze dalla testa un po’ squinternata giurano che non passerà l’anno senza che avvenga un gesto irreparabile che le rapirà al cielo dove vagola lo spirito dell’amato. C’è poi gente che ha fatto quattrini cinicamente, vendendo agli ingenui pezzi di metallo ricavati dalla carrozzeria della Porsche sulla quale l’intérprete di Gioventù bruciata trovò drammatica morte il 30 settembre 1955. Che cosa vorrà dire?
Lasciando da parte i vaniloqui e le insulsaggini della stampa per «midinettes», si può arrischiare una spiegazione che sembra plausibile. Chi rimpiange Dean in quel modo disastroso che s’è raccontato, appartiene a quella generazione di giovani che furono ragazzi durante la guerra, e che si son ritrovati addosso tutti i guai che sapete. Essi subito riconobbero in interpreti nevrotici, intellettuali, introversi come Marlon Brando e James Dean (ad essi si può aggiungere ora Rod Steiger...), i loro eroi. In tempi felici il processo di identificazione tra lo spettatore e l’attore preferito avviene nel senso di un arricchimento dell’uno a spese dell’altro: un giovanotto del decennio 1930-1940 si sentiva volta a volta Gary Cooper, Robert Taylor, Jean Gabin, sul filo delle ambizioni e preferenze più riposte. Smarriti, incerti del futuro, scontenti dei padri, di tutti e di tutto, molti giovani d’oggi si identificano strettamente ai personaggi del cinema. James Dean, ancor più di un modello, appariva a essi come la verità stessa, la rappresentazione di una nevrosi che il magistero dell’interprete favorito dagli accesi colori (il giubbotto rosso di Gioventù bruciata) e dal buio e dal silenzio delle sale di spettacolo rendeva di un’evidenza indicibile. In parole povere, i giovani rimpiangono in Dean una sorta di san Giorgio, cioè un sicuro e fraterno uccisore di mostri.
James Dean è morto
Il 30 settembre 1955 di sera, noncurante dei consigli di prudenza che gli prodigavano i capi della Warner Bros, James Dean si metteva al volante della sua auto da corsa e trovava una morte accidentale su una strada del nord della California.
La notizia, appresa a Parigi l’indomani, non suscitò una profonda emozione: un giovane attore di ventiquattro anni era morto, ecco tutto. Sono passati sei mesi, sono usciti due film e abbiamo capito la gravità della perdita.
James Dean era stato notato due anni fa a Broadway mentre interpretava il ruolo di un giovane arabo in un adattamento teatrale di L’immoraliste di Gide. In seguito, Elia Kazan lo fece debuttare nel cinema affidandogli subito il ruolo di protagonista in East of Eden (La valle dell’Eden, 1954). Poi Nicholas Ray lo scelse per essere l’eroe di Rebel without a cause (Gioventù bruciata, 1955) e, infine, George Stevens lo fece recitare in Giant (Il gigante, 1956) il ruolo principale quello di un uomo visto lungo l’arco della sua vita, dai venti ai sessant’anni. Il suo prossimo ruolo avrebbe dovuto essere quello del pugile Rocky Graziano in Somebody up there likes me (Lassù qualcuno mi ama, 1956).
Durante le riprese di Giant, James Dean si mostrò estremamente assiduo, non perdendo mai di vista George Stevens e la cinepresa. Quando il film fu terminato mise al corrente il suo agente, Dick Clayton, di un suo desiderio: “Credo che potrei far meglio come regista che come attore”. Desiderava fondare una società indipendente in modo da poter girare solo soggetti scelti da lui. Clayton promise di parlarne ai dirigenti della Warner Bros; dopo di che Dean, che per contratto non avrebbe dovuto pilotare la sua auto per tutta la durata delle riprese, se ne scappò a Salinas per partecipare a una corsa.
Incidente: “Penso che andrò a fare un giretto con la “Spyder””, disse James Dean a George Stevens, “Spyder” era il nome di serie della sua Porsche. Vicino a Paso Robles la sua “Spyder” si scontrò con un’altra vettura che proveniva lateralmente da una strada secondaria. James Dean morì mentre lo trasportavano all’ospedale, in seguito a fratture multiple alle braccia e a lesioni interne.
Il destino di James Dean lo faceva uscire prima dell’ora attraverso l’uscita degli artisti.
Il modo di recitare di James Dean va contro cinquant’anni di cinema, ogni gesto, ogni atteggiamento, la mimica sono un affronto alla tradizione psicologica. James Dean non “valorizza” il suo testo con sottintesi come Edwige Feuillère, non lo poetizza come Gérard Phihippe, non gioca d’astuzia con se stesso come Pierre Fresnay, non è preoccupato, contrariamente agli attori che ho appena citato, di mostrare che capisce perfettamente e meglio di voi quello che dice, lui recita qualcosa d’altro da quello che pronuncia, recita a lato della scena, il suo sguardo non segue la conversazione, provoca una sfasatura tra l’espressione e la cosa espressa come un grande spirito che, per sublime pudore, pronunciasse grandi parole in tono dimesso per scusarsi di avere del genio, per non importunare gli altri.
Nei suoi grandi momenti, Chaplin raggiunge la punta estrema del mimetismo; diventa albero, lampadario o scendiletto in carne e ossa. La recitazione di James Dean è più animalesca che umana; per questo è imprevedibile: quale sarà il gesto successivo? James Dean può, parlando, girare la schiena alla cinepresa e terminare in questo modo la scena, può spingere bruscamente la testa all’indietro o buttarsi in avanti, può alzare le braccia al cielo o lanciarle verso l’obiettivo, palme in alto per convincere, palme in basso per rinunciare. Può, nel corso di una stessa scena, sembrare un figlio di Frankenstein, un piccolo scoiattolo, un bambino accovacciato o uno piegato in due. Il suo sguardo di miope accresce questa sensazione di sfasatura tra recitazione e testo, di vaga fissità, di dormiveglia ipnotico.
Quando si ha la fortuna di scrivere una parte per un attore di questa natura, un attore che recita fisicamente, carnalmente invece di far passare tutto per il cervello, il mezzo migliore per fare un buon lavoro è di ragionare astrattamente. Esempio: James Dean è un gatto, cioè un felino, senza scordare lo scoiattolo. Cosa possono fare un gatto, un leone, uno scoiattolo che sono i più lontani dal comportamento ginnico dell’uomo? Il gatto può cadere dall’alto e si ritrova sulle zampe; può passare senza danno sotto un’auto in corsa; marca il dorso e sembra snodabile. Il leone leva una zampa e ruggisce, lo scoiattolo salta di ramo in ramo. Non resta quindi che scrivere per James Dean scene in cui lo vedremo rampante (in mezzo a fagioli), ruggire (in un commissariato), saltare di ramo in ramo, cadere da molto in alto senza farsi male in una piscina vuota. Mi piace pensare che sia così che hanno fatto Ella Kazan, poi Nick Ray e, spero, George Stevens.
Il potere di seduzione di James Dean è tale che potrebbe tutte le sere uccidere sullo schermo padre e madre con la benedizione del pubblico, di tutto il pubblico, dal più snob al più popolare. Bisogna aver visto l’indignazione della sala quando in East of Eden suo padre rifiuta di accettare il denaro che Cal ha guadagnato con i fagioli, il salario dell’amore.
Prima che un attore, James Dean con tre film era diventato un personaggio come Charlot: Jimmy e i fagioli, Jimmy e la fiera, Jimmy sulla scogliera, Jimmy nella casa abbandonata. Grazie alla sensibilità di Elia Kazan e Nicholas Ray, il loro senso degli attori, James Dean ha recitato al cinema un personaggio molto vicino a quello che era realmente: un eroe baudelairiano.
Le ragioni profonde del suo successo? Presso il pubblico femminile sono evidenti e non occorrono commenti. Presso i ragazzi invece si riassumono, penso, nel fenomeno dell’identificazione, che è alla base della redditività dei film in tutti i paesi del mondo. È più facile identificarsi in James Dean che in Bogart, Cary Grant o Marlon Brando perché il personaggio di Dean è più vero. All’uscita di un film di Bogart uno spettatore abbasserà il bordo del suo cappello e non sarà il caso di andargli tra i piedi. Un altro, lasciando un Cary Grant, farà il pagliaccio per la strada, quello che ha appena visto un Marlon Brando lancerà sguardi sottecchi e sarà tentato di strapazzare le ragazze del suo quartiere. Con James Dean l’identificazione è insieme più profonda e più totale, perché porta in sé nel suo personaggio, la nostra stessa ambiguità, il nostro dualismo, e tutte le debolezze umane.
E ancora bisognerà rifarsi a Chaplin, o meglio a Charlot. Charlot parte sempre dal più basso per arrivare al più alto. È debole, maltrattato, disprezzato, sempre fuori fase. Non gliene va dritta una e cerca di darsi un contegno disinvolto solo per trovarsi subito dopo a terra, ridicolo agli occhi della donna che corteggia o a quelli del malvagio che cerca di redimere. È qui che interviene l’astuzia che, per Dean, non è che grazia ricevuta: Chaplin sta per vendicarsi e trionferà. Improvvisamente, si mette a danzare, a pattinare, a fare capriole come nessun altro e, d’un so! colpo, eclissa tutti quanti, trionfa, fa un polverone, e mette tutti, divertiti, dalla sua parte.
Ciò che era disadattamento, diventa sovra-adattamento; il mondo intero, cose e gente, andavano contro di lui e si mettono ora al suo servizio, ciecamente. Tutto questo vale anche per James Dean, tenuto conto di questa differenza fondamentale: mai si sorprende nel suo sguardo la paura. James Dean è a lato di tutto, l’essenza della sua recitazione è tale che il coraggio o la viltà non hanno nessuna parte, e nemmeno l’eroismo o la paura. Si tratta di qualcosa d’altro, di un gioco poetico che autorizza tutte le libertà e persino le incoraggia. Recitare giusto o recitare sbagliato, queste due espressioni non hanno senso per James Dean perché ci si aspetta da lui una sorpresa a ogni istante; lui può ridere là dove un altro attore piangerebbe e viceversa, perché ha ucciso la psicologia il giorno stesso in cui è apparso su una scena.
In James Dean tutto è grazia e in tutti i sensi della parola. Il segreto è là. Dean non fa meglio degli altri, fa qualcosa d’altro che è il contrario e la scommessa di un prestigio che conserva dall’inizio fino alla fine del film. Nessuno ha mai visto James Dean camminare: gironzola oppure corre come il cane del fattore (pensate all’inizio di East of Eden). In James Dean i giovani d’oggi si ritrovano completamente, e più che per le ragioni che si citano di solito, violenza, sadismo, frenesia, malvagità, pessimismo e crudeltà, per altre infinitamente più semplici e quotidiane: pudore dei sentimenti, fantasia in ogni occasione, purezza morale senza rapporti con la morale corrente ma più rigorosa, gusto inestinguibile dell’adolescente per la competizione, ebbrezza, orgoglio e rimpianto di sentirsi “fuori” della società, rifiuto e desiderio di integrarsi e infine accettazione – o rifiuto – del mondo come è. Senza dubbio la recitazione di James Dean, per la sua modernità, inaugura un nuovo stile di interpretazione a Hollywood, ma irreparabile è la perdita di un giovane attore, forse il più genialmente inventivo del cinema e che, da buon cugino di Dargelos qual era, trovò sulla strada, in una fresca sera del settembre del 1955, la stessa morte del giovane americano descritta da Jean Cocteau, in Enfants terribles, nel 1929: “... l’auto sbandava, si fracassava, si impennava contro un albero e diventava una rovina di silenzio con una sola ruota che girava sempre meno velocemente in aria, come una ruota di lotteria”.
Da I film della mia vita, Milano, Edizioni CDE, 1975