Orson Welles (George Orson Wells) è un attore statunitense, regista, produttore, scrittore, sceneggiatore, montatore, costumista, è nato il 6 maggio 1915 a Kenosha, Wisconsin (USA) ed è morto il 10 ottobre 1985 all'età di 70 anni a Los Angeles, California (USA).
George Orson Welles è nato a Kenosha, nel Wisconsin il 6 maggio 1915. Figlio di un inventore e di una pianista, già da piccolo mostra un notevole talento artistico (magia, musica e pittura). A otto anni, morta la madre, Welles inizia a girare il mondo con suo padre.
La sua prima produzione teatrale, Dottor Jeckyll and Mr. Hyde, è del 1925. Alla morte del padre, quando il piccolo Orson ha 12 anni, viene preso in custodia da Maurice Bernstein, un dottore di Chicago. Nel 1931 si diploma alla Todd School di Woodstock, nell'Illinois, ma non continua gli studi, preferendo una tournée in Irlanda col Gate Theatre.
Dopo aver tentato senza successo di lavorare sulle scene di Londra e Broadway, e viaggiato in Marocco e Spagna, dove con il soprannome di "El Americano" partecipa anche ad alcune corride, Welles, grazie alle raccomandazioni di Thornton Wilder e Alexander Woollcoott, entra nella compagnia di Katherine Cornell, debuttando così a 19 anni a Broadway in un Romeo e Giulietta nel ruolo di Tibaldo.
Sempre nel 1934 Welles si sposa con Virginia Nicholson (da cui divorzierà nel 1939), dirige il suo primo cortometraggio, Hearts of Age, e inizia a lavorare in radio. Inizia una collaborazione con il regista e produttore John Houseman con cui poi forma nel 1937 una compagnia, la Mercury Theatre. Grandi successi furono il Macbeth, interpretato da Welles, e il Giulio Cesare, ambientato nell'Italia fascista. Nel 1938 produce per la radio CBS la trasmissione The Mercury Theatre on the Air, che comprende anche la famosa trasmissione de La Guerra dei Mondi, di H.G. Wells, a tal punto realistica da far credere che l'attacco marziano stesse effettivamente avvenendo: migliaia di ascoltatori in preda al panico si riversarono nelle strade.
Ormai famoso, Welles viene scritturato dalla compagnia cinematografica RKO. Con questo contratto Welles potrà produrre, dirigere, scrivere e interpretare due film per 225 000 dollari, oltre ad avere una percentuale dei profitti e, soprattutto, totale libertà: nessun regista esordiente aveva mai avuto un contratto del genere. Scartati alcuni progetti, tra cui un film tratto da Cuore di Tenebra di Joseph Conrad, Welles inizia la produzione di Quarto Potere, il racconto dell'ascesa e della caduta di un magnate americano delle comunicazioni di massa, che lo vide impegnato, oltre che nel ruolo di regista anche in quelli di cosceneggiatore e protagonista. L'uso innovativo ed espressionistico che egli fa dei movimenti di macchina e delle ottiche ha influenzato intere generazioni di registi. Per questo è il film che più spesso viene citato dalla critica quale maggior capolavoro della storia del cinema.
All'uscita il film non ha grande successo, anche per problemi di distribuzione, facendo perdere alla RKO ben 150 000 dollari.
Nel 1942 esce L'Orgoglio degli Amberson, film che però viene pesantemente cambiato in fase di montaggio dalla RKO, approfittando dell'assenza di Welles. Il regista infatti è in Sud America per dirigere It's all True, un documentario commissionato dal governo americano, che uscirà solo negli anni '90. Prima di andare in Sud America, Welles è protagonista di Terrore sul Mar Nero, di cui non solo scrive la sceneggiatura, ma è anche regista di molte scene. Il fallimento commerciale de L'Orgoglio degli Amberson provoca la fine della collaborazione con la RKO.
Dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, Welles ritorna alla regia con Lo Straniero, prodotto dal produttore indipendente Sam Spiegel.
La Signora di Shangai riporta alla ribalta Welles con l'interpretazione di Rita Hayworth (all'epoca ancora sua moglie). Nel 1948 esce Macbeth, il primo film della trilogia dedicata a Shakespeare (gli altri due saranno Otello del 1952 e Falstaff del 1966).
L'ennesimo insuccesso commerciale, quello di Macbeth allontana quasi definitivamente Welles da Hollywood, dove ritornerà solo per L'Infernale Quinlan. Il primo periodo europeo porta a Otello, vincitore del Gran Premio della Giuria al Festival di Cannes, film girato in tre anni con disavventure di ogni genere, e a Rapporto Confidenziale.
Nel 1958 è la volta di un altro capolavoro, L'Infernale Quinlan, film che però viene rimontato contro i voleri del regista, solo negli anni '90 sarà possibile vedere il montaggio originale di Welles.
Nel 1963 Welles gira Il Processo, tratto dal romanzo di Kafka. Sono anni di progetti incompiuti, perlopiù per mancanza di fondi, tra questi un film su Don Chisciotte, nel 1992 uscirà un film con le scene girate da Welles, e l'autobiografico The Other Side of the Wind, in cui un famoso regista, interpretato da John Huston, ha difficoltà a reperire i fondi per dirigere i propri film.
Orson Welles muore il 10 ottobre 1985 per un attacco cardiaco. Aveva ordinato di venire cremato in una remota fattoria della Spagna nei pressi di Ronda, in Andalusia, dove egli stesso aveva vissuto quando aveva diciotto anni.
Welles dimostra fin dall'infanzia le caratteristiche del genio precoce: esordisce in teatro a soli sedici anni e a ventitrè sovverte le convenzioni portando in scena una versione del "Giulio Cesare" in abiti moderni. Sempre nel 1938 sconvolge gli Stati Uniti con una trasmissione radiofonica nel corso della quale fa credere alla nazione di trasmettere in diretta l'invasione della terra da parte dei marziani. Il fatto verrà in seguito amplificato, tanto che si parlò di psicosi collettiva e panico di massa, ma in ogni caso l'episodio dimostrò in maniera inequivocabile la sconcertante potenza dei mass media, in grado di imporre qualsiasi verità. La natura moderna del potere insieme al ruolo che in questo giocano i mezzi di comunicazione di massa, e il rapporto ambiguo che si stabilisce fra menzogna e verità, sono due temi destinati a percorrere trasversalmente quasi tutta l'opera di Welles. Lo dimostra già il suo esordio cinematografico, avvenuto nel 1941 dopo che gli è riuscito di firmare con una grande casa hollywoodiana un contratto che gli riconosceva la massima libertà su ogni momento della realizzazione del film. La pellicola in questione è Quarto potere, racconto esemplare dell'ascesa travolgente e del lento declino di un magnate della stampa, descritta seguendo i ricordi di cinque persone che lo conoscevano bene. Ne vengono fuori cinque quadri diversi, che tracciano differenti contorni di un uomo che appare al tempo stesso egoista e disinteressato, idealista e imbroglione, grande e mediocre. É solo al pubblico che viene rimesso il giudizio definitivo. Per la prima volta cioè il cinema americano si poneva davanti ad un personaggio dai contorni non definiti, né buono né cattivo, rispetto al quale non era possibile distinguere l'apparenza dalla realtà. Ed è proprio questo uno dei poteri più forti dell'informazione che il protagonista gestisce: quello di spingere le persone verso convinzioni non sostenute dai fatti bensì da suggestioni sapientemente trasmesse. Il potere cioè, come ripete sempre il protagonista, di "far pensare alla gente solo quello che io voglio che pensi".
Malgrado si tratti di un'opera destinata a rivoluzionare la grammatica cinematografica, subito dopo la sua realizzazione Welles viene licenziato e non può terminare due pellicole alle quali stava lavorando: É tutto vero e Terrore sul Mar Nero, che inaugurano la serie dei progetti travagliati che lo accompagneranno per tutta la carriera. Nel 1942 riesce a girare L'orgoglio degli Amberson, altro capolavoro sul trapasso della società dalla condizione agricola a quella industriale realizzato con uno stile completamente diverso dal precedente, caratterizzato da un impianto classico e un uso meno traumatico di inquadrature particolari. Il film, comunque, viene a tal punto manipolato dai produttori che Welles decide di disconoscerlo.
Inspiegabilmente, negli anni successivi, accetta di realizzare due pellicole modeste, quali Lo straniero (1946) e La signora di Shangai (1948). Le sue esigenze di autore tuttavia non gli consente di sottomettersi alle ragioni di Hollywood e così inizia a dedicarsi a progetti personali di propria produzione, il primo dei quali è una versione di Macbeth (1948) girata in interni e con pochissimi capitali, ma originale per la sua ambientazione barbarica che, seppur fedele alla tragedia, appare molto distante dalla convenzione teatrale. Nei quattro anni successivi Welles lavora molto come attore al fine di procurarsi i fondi per una straordinaria versione di Otello, che risulta omogenea nonostante venga girata nel corso di quattro anni, tra Italia e Marocco. Ma le difficoltà finanziarie non sono finite: anche per il successivo Rapporto confidenziale (1955), che realizza tra Spagna e Francia con capitali di fortuna, faticherà molto a trovare un produttore. La pellicola analizza ancora il potere, questa volta disegnato come un'entità perversa, sfuggente e affascinante, che si intravede nel corso di una tesissima investigazione, all'interno della quale Welles osserva il punto di vista di tutti i testimoni, con uno sguardo oggettivo che, ponendo gli attori su un piano paritario, contravviene ad una regola di Hollywood che vuole distinzioni narrative per facilitare l'identificazione dello spettatore. Successivamente il regista statunitense inizia a girare una versione del Don Chisciotte che non riuscirà mai a portare a termine.
Con le due pellicole seguenti torna di nuovo a descrivere i meccanismi del potere, prima con un noir di ambientazione sudista, L'infernale Quinlan (1958), nel quale il Male viene visto come il frutto di una scelta volontaria, una sorta di vendetta dell'uomo contro un mondo ingiusto e incapace di mantenere ordine e armonia, poi con Il processo (1962), inquietante versione del romanzo di Kafka, stravolto nella forma e nella sostanza. Le variazioni apportate da Welles al romanzo sono funzionali a descrivere l'esperienza di un uomo contemporaneo, al quale si svela l'orrore e il vuoto della rigida e coercitiva struttura sociale di cui egli stesso è parte integrante. É a partire da questo momento che si comincia a intravedere nell'opera di Welles il segno di una sconfitta, di una solitudine che corre parallela alle sue difficoltà nel girare film. Le peripezie produttive infatti continuano, testimoniate dal fatto che L'infernale Quinlan esce in una versione rimaneggiata per il circuito minore e Il processo vede la luce solo grazie ad una produzione yugoslava. E così, il senso di sconfitta prende maggior corpo in Campane a mezzanotte (1966), versione originalissima del "Falstaff" shakespeariano realizzata in Spagna. Il Falstaff di Welles, infatti, è il predicatore di un umanesimo destinato alla sconfitta, che diventa tanto più triste in quanto vissuto da un personaggio consapevole di andare contro un potere inattaccabile, di esser privo di eredi e quindi destinato a rimanere fuori dalla Storia.
In seguito, altri due progetti, L'oceano e L'altra faccia del vento, verranno abbandonati. Questo non gli impedisce di realizzare ancora due "manifesti" della propria ideologia d'artista. F come falso (1975), è un film di basso costo con cui Welles sostiene che il rapporto arte-vita è menzognero, che il cinema, come ogni arte, è una grande illusione che non serve a decifrare la realtà, ma semmai a complicarla con trucchi e specchi. Si tratta in fondo dell'accettazione, da parte di Welles, del proprio fallimento artistico che lo conduce a prendere le distanze dalla sua opera che considera ormai priva di una vera funzione sociale. Un'ammisione triste, anche se celata dietro uno schermo ironico, presente anche in Filmando Otello (1978), un documentario in cui l'ormai anziano regista ripercorre le tappe della propria carriera di attore shakespeariano dimostrando che tutta la sua opera poggiava su solide concezioni critico-programmatiche e su una raffinatissima cultura.
L'importanza di Welles non è solo legata alla sua figura di artista straordinario; egli è anche uno dei pochi autori che hanno dimostrato a Hollywood, che un regista è un artista capace di esprimersi liberamente a dispetto dell'industria e del pubblico.
Wèlles a aussi fait de la télé. R a même fait plus de télévision que de cinéma. En 1955, dans une tournée des grandes capitales européennes (un programme intitulé “Orson Wèlles around the world”), il s'arrête à Vienne et file directement avec son équipe dans les cuisines de l'Hôtel Sacher, le pâtissier. Là, il séduit le personnel, roule des yeux d'enfant gourmand, exige de goûter à tous les gâteaux, glousse déplaisir, oublie de filmer la ville et se marre. Cet appétit ne lui fit jamais défaut. Il a donc été, dans tous les sens du terme, un géant. Avant de digérer, tel un boa défait, sa drôle de “carrière”, il a commencé par vouloir tout bouffer. Le boa était d'abord un ogre.
Rien du monde du spectacle ne lui fut indifférent. Homme de théâtre, de radio, de télévision et de cinéma. Acteur masqué de ses propres films, invité dans ceux des autres, puis figurant, silhouette ou support publicitaire, il reste Orson Welles. Il a produit, outre des films géniaux, son propre personnage. Il n'est peut-être pas exagéré de dire que, passé un court flirt, l'Amérique étonnée s'est cotisée pour l'entretenir. Ses frais de représentation (luxe et cigares) étaient énormes mais bien peu de choses pour un système prêt à payer le droit de ne plus être bousculé par lui. L'ogre était aussi un gigolo.
Welles ne fut pas seulement trop grand pour l'Amérique, il fut trop “américain” pour elle. Trop projeté dans le futur. Comme tous les grands inventeurs déformes du cinéma (il n'y en a pas tellement), Welles n'a rencontré “son” public que par miracle ou inadvertance. Ce n'est pas très surprenant. Les inventeurs (qui deviennent immanquablement des héros-apprentis sorciers) n'ont de réelle influence que sur ceux qui viennent après eux ou sur ceux qui étaient leurs contemporains, sans le savoir. L'effet-Welles fait partie de l'histoire du cinéma, de la radio, de la télévision, de tout ce qu'on veut, de tout ce qu'on appelle aujourd'hui (aujourd'hui seulement) les média. Le gigolo fut aussi, à sa manière, un défricheur. Rien d'étonnant donc si Welles fut toujours “entre”. Entre théâtre et cinéma, héros et traître, Amérique et Europe, vérités et mensonges, prince et pitre, légende dorée et réalité triviale. C'était dans sa nature, c'était “his character” et on peut supposer qu'il en sut quelque chose, même s'il en souffrit. Un homme-orchestre obligé déjouer seul toutes les partitions use sa santé, une figure publique qui doit sans cesse brouiller sa vie privée se fatigue.
Alors, Welles “précurseur” des techniques modernes de communication (et de manipulation)? Satellite envoyant jusqu'au bout à la planète l'inusable message des média: «Je suis vivant, je suis parmi vous”? Welles remis - dialectique oblige - dans une grande histoire des images et des corps en cette seconde moitié du siècle? Oui, si l'on veut. Mais attention: nous ne pouvons hasarder une telle hypothèse qu'aujourd'hui, au moment où nous aussi, nous avons digéré ce qu'il apporta. Sinon, il reste, plus “modestement” l'un des très grands cinéastes. Et c'est très bien comme ça, car ce défricheur d'espaces nouveaux fut aussi un homme ancien. On ne passe pas “comme ça” (et, si j'ose dire, sans payer le prix) de l'univers passionnel du cinéma, de ses stars qui ne meurent jamais, de sa lumière qui ne s'éteint pas et de ses mémoires tissées de nostalgie à l'univers encore froid des média, avec ses stars d'un jour et la petitesse conquérante de ses écrans blafards. Ceux qui pensent que de la “mort du cinéma”, on saute à pieds joints dans un monde de la communication heureuse et obligatoire vont un peu vite en besogne. Pour négocier un tel passage, il faut du temps, il faut une vie, il faut (au moins) un Welles. Et encore, il faut accepter de le voir négocier ce virage en héros à l'antique, shakespearien, en Othello aveugle. Il a fallu qu'Orson Welles ranime à l'intérieur de lui-même tout un amour fou du cinéma, il a fallu qu'il entretienne cet amour chez les autres pour que - grâce à lui - nous puissions entrevoir les nouvelles aventures de l'image (et du son). Il faut avoir été au cœur pour pouvoir s'éloigner du centre.
Da Libération,13 octobre 1985
D’ora innanzi, a quanto pare, nelle filmografie del regista più ammirato della storia del cinema (Quarto potere continua a essere in testa a quasi tutti i sondaggi tra critici e cinefili), oltre ai film da lui girati, appunto da Quarto potere a F for Fake, accanto ai film da lui interpretati per altri, da Il terzo uomo ai film «alimentari», con i quali ha nutrito il suo cinema, accanto ai film da lui diretti e montati da altri (si veda alla voce Jesus Franco e Don Chisciotte), accanto a quelli mai finiti (per tutti The Other Side of the Wind, dove l'alter ego di Orson Welles era interpretato da John Huston), d'ora innanzi bisognerà anche lasciare uno spazio per i film in cui Orson Welles compare come personaggio. Era già successo,
per esempio, con un film diretto nel 1999 da Tim Robbins, The Cradle will Rock (La culla dondolerà), in cui si raccontava la faticosa messa in scena del musical dallo stesso titolo, scritto da Welles e dedicato a Brecht. Lì, il grande Orson era interpretato, in un ritratto non particolarmente lusinghiero, da Angus Macfadyen. Ora si annuncia un'altra rievocazione wellesiana. Oliver Parker sta completando Fade to Black, un thriller ambientato nell'Italia degli anni Quaranta, in cui Welles, al centro di un'inchiesta sulla morte di una delle sue comparse, sarà interpretato da Danny Huston - curiosamente, come Huston padre interpretava Welles nel film incompiuto di cui sopra. Paul Schrader progetta di completare Adam Resurrected, un progetto mai realizzato di Welles. E Richard Linklater annuncia che girerà un film dal titolo Orson Welles and Me, ambientato ai tempi del glorioso debutto teatrale di Welles con il Mercury Theatre.
C'è di che essere preoccupati. Non che Welles non abbia fatto delle brutali incursioni nelle biografie altrui, su «vittime» vive e vegete - dallo Hearst Citizen Kane di Quarto potere al finto-vero episodio della seduzione di Picasso da parte di Oja Kodar in F for Fake. Ma la qualità era sempre garantita dal suo genio. Ora, come in una classica gag del cinema, «l'arroseur» sarà «arrosé», il biografo sarà biografato: curiosamente la biografia, la vita, una delle cose più personali che ci siano date, non è protetta dal copyright, a disposizione di chi prende luce dalla sua «vittima».
Da Il Venerdì di Repubblica, 22 Febbraio 2008
Anche i personaggi celebri sono stati piccoli. E ricordo, dunque, molto bene la prima volta che ho incontrato Paolo Mereghetti, allora, nei gloriosi anni Settanta, giovane critico e giornalista vicino a Ombre rosse e «allievo» di Goffredo Fofi. Erano bei tempi di allegro cameratismo e di disinvolte ospitalità al buio, e Paolo, che non avevo mai visto prima, arrivò sorridente e poco più che ventenne a casa mia, a Roma, speditomi da un mio cugino milanese, perché gli offrissi un tetto durante la sua breve permanenza romana. Arrivò e portò in dono alla sua ospite due testi: un suo piccolo libro dedicato a Orson Welles, credo una elaborazione della sua tesi di laurea in Filosofia, tanto interessante quanto dall'impossibile formato (era lungo e stretto, non stava in nessuno scaffale, ma era ed è ancora sempre sdraiato sugli altri libri). E, cosa ancora più rara, il testo in inglese, dattiloscritto, di F for Fake, che era uscito da poco in Paesi più cinefili. Passano gli anni, ma le passioni giovanili restano. E Paolo Mereghetti, critico del Corriere della Sera, per anni totalmente dedicato all'o pus magnum del «Mereghetti», inteso come il primo e il più cicciuto dei dizionari di cinema, ha dato alle stampe per Rizzoli un piccolo (di nuovo) libro sul regista di Quarto Potere (Orson Welles. Introduzione a un maestro, pp. 190, euro 17,) e ripercorre, in un tono sommesso e personale, enciclopedico ma confidenziale, preciso ma discorsivo, un po' alla maniera del suo celebre e celebrato dizionario, l'intreccio tra vita e opere del grande Orson, eterno mattatore, con Quarto potere, delle classifiche mondiali, maestro insuperato del cinema americano, autore contro, e non solo.
Le dimensioni e il tono sono quelli giusti - rispetto ai ponderosi tomi citati nella bibliografia - per indurre anche il lettore non cinefilo ad avvicinarsi alla figura di Welles. E, da bravo cultore della memoria filmica, Mereghetti fa un semplice gesto utile: l'elenco dei film di Welles disponibili in Italia in forma di dvd. Un'indicazione preziosa, che corrobora il discorso critico con la possibilità di confrontarsi con i testi cinematografici. Chi l'avrebbe detto, trent'anni fa.
Da Il Venerdì di Repubblica, 9 gennaio 2009
«Ragazzo prodigio» si disse di lui quando arrivò a Hollywood e la RKO gli propose una riduzione di Cuore di tenebra di Conrad. Era preceduto dalla fama della trasmissione radiofonica della domenica di Halloween 30 ottobre 1938 (il panico scatenato da La guerra dei mondi), dall'eco delle sue avventure in giro per il mondo insieme a un padre ricco inventore e a una madre pianista. Tramontato Conrad, il venticinquenne regista spara in faccia ai benpensanti la provocazione di Quarto potere (1941). Così comincia il calvario di un intellettuale strafottente che ama Shakespeare sopra tutto, che non accetta imposizioni, che scardina le strutture narrative e innova l'apparato figurativo, ma questo all'industria non interessa. Inoltre, alludendo Charles Foster Kane al magnate Randolph Hearst, tutta la stampa è contro. Dopo il fallimento di L'orgoglio degli Amberson (1942), cerca di «riabilitarsi» con il piccolo thriller Lo straniero (1946), che qualche dollaro lo incassa. Sposa, in seconde nozze, Rita Hayworth, e con lei tenta il grande colpo, ma dalle mani gli esce un film scardinato e sublime insieme, con la formidabile trovata finale della sparatoria nella sala degli specchi: La signora di Shanghai (1948) è un disastro.
Il destino del «ragazzo prodigio» è segnato. In Europa fa l'attore, penetrante (e luciferino in certe apparizioni), con Gregory Ratoff, Carol Reed, Henry King. Gli han lasciato girare, in 20 giorni e con pochi soldi, un Macbeth (1948) corrusco e tetro, di grande suggestione culturale ma di esito deludentissimo. Con i compensi per le interpretazioni, avvia uno splendido Otello, che sarà completato fra Italia e Marocco nel 1952. Altri due film riesce a girarli in maniera quasi regolare - Rapporto confidenziale, 1955, e l'incalzante thriller L'infernale Quinlan, 1958 - ma dovrà attendere sino al 1962 per avere la possibilità di realizzare in Francia un geniale Il processo, elaborazione del romanzo kafkiano con lo stesso Welles e tre acuti attori (Anthony Perkins, Jeanne Moreau, Romy Schneider). Con Pasolini rifà il verso a se stesso nell'episodio La ricotta di RoGoPoG (1966). Nel 1968 interpreta e dirige per la televisione francese Storia immortale, un'ora densa dei maggiori temi wellesiani. Nel '75, pasticciando materiali suoi e di altri, narra la storia di un falsario, in un capolavoro di confusione e di arguzia, F for Fake.
Torna in patria dopo 30 anni, lo coprono di onori e di premi, ma non gli propongono film da girare: il «ragazzo prodigio» fa ancora paura.
Fernaldo di Giammatteo, Dizionario del cinema. Cento grandi registi,
Roma, Newton Compton, 1995
Al recente festival di Cannes è passato un film con Robert De Niro dal titolo inquietante: Guilty by suspicion. Si potrebbe tradurre, colpevole per (illegittima) «suspicione». Cioè il semplice sospetto - per esempio che uno sia o sia stato comunista - è già la colpa. Era la tesi del senatore McCarthy, donde il termine maccartismo. In Italia il film si chiamerà La lista nera, quella su cui furono iscritti i «sospettati». Attorno al 1950 (ma la condanna si protrasse nel tempo) fu una vergogna della storia americana.
Regista esordiente il sessantenne Irwin Winkler, già produttore di Toro scatenato e di Quei bravi ragazzi di Scorsese. Molti personaggi sono facilmente riconoscibili. Come Dorothy, l'amica di De Niro accusata di comunismo e perseguitata al punto che le tolgono i figli, la quale finisce suicida. Il suo cognome vero era Comingore ed era stata un'attrice di Orson Welles. In Quarto potere ricopriva il ruolo di Susan Alexander Kane, la seconda moglie del protagonista che la costringeva a affrontare l'insuccesso quale cantante d'opera, in un teatro costruito appositamente per lei. Un'altra forma di persecuzione, stavolta dettata dall'amore. Dorothy Comingore fu una vittima nella finzione e nella realtà.
Si cita l'episodio anche perché il maggio scorso scadeva mezzo secolo da quando Quarto potere, universalmente noto come Citizen Kane, giunse per la prima volta al pubblico. Era esattamente il maggio del 1941 quando il film di Orson Welles, girato a Hollywood negli studios Rko tra il 29 giugno e il 23 ottobre del 1940, venne presentato al Palace Theatre di New York. Si era già avuta l'anteprima per la stampa, a New York e a Los Angeles, il 9 aprile del 1941, con un'accoglienza ben più calorosa di quella, piuttosto reticente e contrastata, che al film attribuì il pubblico normale. Succede. Anche il pubblico russo non aveva capito il Potëmkin. Oggi entrambi risultano tra i preferiti nelle rituali classifiche dei classici.
Nel 1941 gli spettatori della «prima» rimasero sconcertati dalla novità formale e sostanziale dell'opera. Ci vollero anni per abituarvisi. Un giorno si sarebbero accorti che il cinema americano migliore discendeva da Citizen Kane.
Alla base di un film eccezionale, un contratto produttivo altrettanto memorabile, il primo e l'ultimo nella storia di Hollywood. Pieni poteri al nuovo venuto, libertà artistica assoluta. Digiuno di cinema (anche se non totalmente, perché aveva girato due cortometraggi e sceneggiato Cuore di tenebra di Conrad, il romanzo da cui nascerà trent'anni dopo Apocalypse now di Coppola), ma già famoso in teatro e alla radio, il giovane prodigio esordiva come Chaplin e come Stroheim, da autore, da regista e da protagonista anzi, anche da produttore. Un'occasione unica e irripetibile, che un genio esibizionista e provocatorio come lui non si lasciò sfuggire e che, fin dalla lavorazione, tramutò in una bomba. Chi era Charles Foster Kane se non William Randolph Hearst, il magnate della stampa e uno degli uomini più potenti d'America? Welles smentì ma Hearst aveva ragione di non credergli e fece di tutto per distruggere il film (magari dopo averlo comprato) e poi per boicottarlo. Riuscì soltanto a far estromettere Welles da Hollywood.
Welles ha anche smentito che il film fosse autobiografico, cioè che lui e Kane fossero simili. «La storia di Rosebud è proprio quella che mi piace di meno», disse. È la chiave del mistero che circonda il personaggio ma anche un'idea del cosceneggiatore Herman J. Mankiewicz, cui Pauline Kael, nel librone su Citizen Kane del 1971, tenterà di attribuire l'intera paternità della sceneggiatura (e non era vero). Comunque in Welles verità e menzogna coincidono. Non lo ha forse teorizzato lui stesso nel film F. for Fake (F come Falso)? Egli odia il realismo con la stessa intensità con cui lo ama. In effetti, il suo realismo è trasfigurato come quello dei grandi, a partire da Erich von Stroheim che aveva preceduto l'allievo nel destino di bandito da Hollywood, e che in un articolo del giugno 1941, dopo avergli rivolto anche qualche critica «tecnica», fu il primo a profetizzare che «Citizen Kane è un grande film e tale resterà nella storia del cinema».
Il seguente aneddoto ci è stato raccontato in questi giorni dal regista Glauco Pellegrini. Nel 1946 si svolse il primo festival cinematografico a Cannes. Stroheim ne era ospite, ma Citizen Kane non era in programma. Veniva proiettato fuori festival in un locale della rue d'Antibes. Fu Stroheim a raccomandarlo a tre giornalisti italiani - Guido Aristarco, Francesco Callari e, appunto, Pellegrini - che erano andati a fargli visita. Lo consigliò con queste parole: «Il cinema è stato fatto in America da quattro persone: Griffith, Chaplin, moi, e Orson Welles».
Per metà il personaggio, dunque, per metà l'autore-attore. Ma staccarli è impossibile. Kane è un titano e una canaglia, e Welles impersona soltanto i re. Bene e male, quale fragile confine. Amoreodio, attrazione-repulsione, come negli eroi del suo Shakespeare. Da ardente democratico Welles detesta i tiranni, ma solo essi lo affascinano come artista. I caratteri forti, gli uomini rinascimentali, non gli svizzeri che inventano gli orologi a cucù. E la battuta di Harry Lime, il Terzo uomo.
In un mondo, come quello di allora, di certezze ideologiche contrapposte, il film invadeva la coscienza della gente con il metodo critico e il dubbio. Non esprimeva un giudizio univoco, metteva semplicemente in tavola le carte del gioco. Non risolveva il problema, lo prospettava nelle sue sfaccettature. Si voleva anzitutto risvegliare il «terzo uomo» inteso come spettatore.
Quando Citizen Kane apparve in Europa a guerra finita, divenne di colpo oggetto di culto, fu il responsabile maggiore di tante vocazioni cinematografiche, e il ragazzino Truffaut ne sottraeva di notte i cartelloni dal cinema di quartiere: un'ossessione che sarebbe ritornata in lui anche da regista. Invece nell'America che doveva ancora fare la guerra, il pubblico non rimase sconvolto dal film, come lo era stato anni prima quando il ragazzo prodigio, attraverso una trasmissione radiofonica, vi aveva fatto sbarcare i marziani.
Citizen Kane-Quarto potere. Un uomo (anzi, un «cittadino») e la stampa. Insieme i due titoli, quello originale e quello italiano, compendiano bene il contenuto. E quale ironia nell'accostamento. L'uomo è stato il padrone della stampa. Ora che è morto, la stampa vuol sapere chi era come uomo. E non ci riesce. La stampa è solo il quarto potere. Il cinema - che è il quinto - riesce a gettare una sia pur fievole luce (Rosebud, Bocciolo di rosa, il nome dello slittino infantile). Ma Welles non ha torto: è poco. È solo il prologo e l'epilogo. Il film sta in mezzo e dice immensamente di più. E proprio quando sostiene che la verità non si può mai sapere. Come scriveva Borges da critico cinematografico, è un labirinto senza centro.
Per penetrare in questo labirinto di contraddizioni, il giovane Welles crea l'unico stile possibile: la frantumazione della storia. All'inizio e alla fine, il teatro dell'azione è Xanadu, la faraonica dimora dove l'eroe «negativo» ha consumato la propria ricchezza, il proprio cattivo gusto e la propria miseria di uomo solo. Un inferno da ventesimo secolo, con l'avvertimento «non entrate» (No tresspassing). Nel prologo la macchina da presa si fa avanti, per carpire la verità; nell'epilogo fa marcia indietro, a inquadrare nuovamente il minaccioso cartello, mentre sullo sfondo bruciano i tesori inutili del collezionista maniaco, eccessivo e malsano, e brucia con essi anche il solo cimelio prezioso, lo slittino dell'infanzia o, per dirla con Nietzsche «la serietà del gioco infantile» l'unica dignità che rimane all'uomo maturo che muore. Ma la soluzione, tutto sommato, è solo sentimentale. Ed è solo la cornice.
Il film si struttura invece in un gigantesco flash-back, dove però il ritorno all'indietro non è un blocco unitario, bensì una narrazione spezzettata in una selva di frammenti, che trasformano la vicenda in un giallo (ma non sarà un «giallo» la maggior parte dell'opera di Welles?), anzi in un «puzzle nel puzzle». Si penserebbe dunque a un montaggio a rapidi stacchi, mentre il linguaggio scelto si articola al contrario in lunghi piani-sequenza, in cui protagonisti, ambienti, sfondi e perfino soffitti fanno corpo unico e consentono un robusto scavo psicologico. La «profondità di campo» ottenuta dagli obbiettivi grandangolari di Gregg Toland, l'incombere delle scenografie che sembrano schiacciare i personaggi dato che la ripresa è spesso dal basso, il commento musicale dell'esordiente Bernard Herrmann (poi prediletto da Hitchcock) che s'inserisce nel ricco tessuto sonoro, tutto concorre a un risultato che non è dovuto a un solo artista, sia pure geniale, quanto a un armonico piano corale che Welles favorì totalmente, partecipando ai suoi collaboratori il tempo, la libertà e lo spirito d'iniziativa da lui conquistati per tutti. Perciò quest'opera che passa giustamente sotto il suo nome ribadisce ancora una volta che il cinema è una costruzione collettiva.
Duplice è l'indagine per sciogliere il mistero che ha circondato il miliardario scomparso, l'imperatore dei mass-media, l'uomo pubblico del cui privato non si sapeva niente o quasi niente. Il primo tentativo di darne un ritratto è il cinegiornale in morte del cittadino Kane. Nella sua presunta oggettività, esso è già un avvertimento importante. L'«attualità» è costruita sul modello di un'informazione avanzata e dinamica: i newreels degli anni Trenta e del New Deal. Ma Welles la manipola esattamente nel modo che avveniva nella realtà. Il bombardamento di immagini e di parole è un trucco, una finzione: è il mezzo migliore per celare la verità dietro l'illusione di riprodurla per intero. Il mito americano della libera informazione viene demistificato dall'interno. E ironicamente chi ha commissionato il programma non ne è soddisfatto, dice che non ci si capisce granché.
Allora si sguinzaglia un reporter - un anonimo reporter visto quasi sempre di spalle - il quale va a interrogare coloro che hanno vissuto con il personaggio-enigma e dovrebbero conoscerlo. Sono la seconda moglie, l'amico giornalista, il manager, il maggiordomo del favoloso e mostruoso castello denominato Xanadu. Un quinto testimone è morto, il banchiere-tutore, e se ne consultano le memorie. Quel che esce da questa inchiesta sul campo e un coacervo di dati parziali e contraddittori. Tante verità, quindi, ma anche tante menzogne degne di un personaggio complesso, difficile, troppo chiacchierato e, in fondo, segreto. Questo titano che ha dominato la vita pubblica americana per quarant'anni, muore pronunciando una parola che lo riporta alla purezza dell'infanzia.
L'ambivalenza (a dir poco) dell'eroe deriva dal fatto ch'egli è insieme negativo e positivo, è per metà Kane e per metà Welles, è un despota ma anche un idealista, è un esibizionista ma anche un infelice, è il padrone del giornale ma anche il suo direttore. Come padrone alimenta lo scandalismo per aumentare la tiratura e i profitti, come direttore conosce il suo mestiere e perfino lo serve con lealtà. Quando l'amico critico teatrale lascia a mezzo la stroncatura dello spettacolo d'opera imposto da Kane alla moglie cantante (ma di Vudeville) Kane completa l'articolo ma, tra la sorpresa generale, nel senso voluto dal redattore e dalla verità. Eppure, quando la moglie che ama lo abbandona, egli non sopravvive.
Per riuscire nell'impresa di fare i conti con un gigante del danaro, del successo e del potere, il cinema non poteva più essere quello ch'era stato prima di Welles. Doveva rivoluzionare se stesso, la propria tecnica, il proprio linguaggio, la propria morale. Doveva coniugare (e Welles fu il primo a farlo) la visionarietà del grande cinema muto e la potenzialità ancora inesplorata del sonoro. Qui è l'eccezionalità di un'opera prima (un'opera prima!) che nacque modernissima e rimane attuale mezzo secolo dopo.
Un pamphlet problematico, che agitava i problemi senza la pretesa di risolverli sullo schermo, che sospendeva il giudizio lineare ma ne offriva le possibili chiavi in un convulso laboratorio di analisi, un film che sul capitalismo diceva quel che appariva a un occhio borghese, ma lucidissimo, era un evento nato per sconcertare i contemporanei e affidarsi al futuro. D'altra parte un film altrettanto straordinario, prodotto nella stessa epoca e che sulla stessa America esprimeva la visione del proletariato, è rimasto praticamente sconosciuto fino a oggi. Diciamo Native Land di Paul Strand e Leo Hurwitz, che «Panorama» ha già presentato ai suoi lettori. Il primo titolo di Citizen Kane doveva essere American. Poi fu ritenuto, giustamente, troppo presuntuoso. Soltanto i due film insieme, infatti, darebbero un ritratto attendibile e più completo dell'America di cinquant'anni fa.
Da Alfabetiere del cinema, a cura di L. Pellizzari, Falsopiano, Alessandria, 2006