"Nel teatro e nel cinema dei nostri tempi, ci sono e ci sono stati parecchi John e Jack famosi, ma per più di cinquant’anni, se incontrando un amico attore gli dicevate "ho visto John l’altro giorno", non c’era il minimo dubbio di chi stavate parlando. Quando John Gielgud entrava in scena, a trenta o quarant’anni, il teatro s’infiammava; fin dalla sua prima battuta, capivate di essere davanti a qualcuno dal fascino speciale. Persino i vezzi vocali (che più tardi ha abbandonato) erano piacevoli e familiari, come vecchi amici fidati. E, al di là della teatralità, delle lacrime, dello "staccato", si coglieva sempre l’intelligenza e la sensibilità di un artista superbo. Il suo sguardo perspicace e attento non si è appannato con l’età. Secondo me, Gielgud ha fatto più di chiunque altro per il teatro inglese, per aprire la strada ai migliori talenti di oggi. Ha lanciato nuovi registi e scenografi, incoraggiato attori sconosciuti, e si è sempre circondato dei migliori attori sui quali riusciva a mettere le mani. La sua umiltà, come uomo e come attore, è forse la sua qualità più rilevante e il suo entusiasmo per il lavoro lascia a bocca aperta e pieni d’invidia tutti noi che abbiamo dieci e più anni meno di lui. Anche oggi che ha ottant’anni è maniaco del lavoro". Questa ammirazione e questo affetto verso John Gielgud venivano da Alec Guinness (nella sua autobiografia Blessing in Disquise), di dieci anni più giovane di lui (erano nati, rispettivamente, nel 1904 e nel 1914), che Gielgud aveva aiutato all’inizio degli anni Trenta, quando era già un astro della scena, a esordire in teatro. Due figure e due interpreti molto diversi, anche se in teatro entrambi hanno continuato a cimentarsi sui classici e, con il passar degli anni, sugli autori più moderni, morti a pochi mesi di distanza (il 22 maggio Gielgud e il 5 agosto Guinness), ultimi esponenti di quella fantastica generazione di attori-istrioni-manager inglesi che fecero grande il loro teatro tra gli anni Trenta e i Settanta e che continuarono ad alternarlo al cinema, a volte per caso a volte per più prosaiche esigenze "alimentari" ("for bread and butter", come dicono gli inglesi), con passione o con degnazione, con entusiasmo o con distacco.
Pare che solo gli inglesi siano capaci di farlo con tanta continuità (se si eccettua qualche clamoroso caso francese, come Depardieu, Vittorio Gassman in Italia, e la più recente tendenza americana, degli Actors’Studio di seconda generazione, come Al Pacino ed Ellen Burstyn). Forse tutto nasce dal peso oggettivo, talvolta soffocante, che il teatro ha avuto nella cultura generale di quel popolo. Un peso tale che ancora all’inizio degli anni Quaranta il cinema veniva considerato dal l’establishment culturale con un certo snobismo, "intrattenimento minore", marcatamente popolare, raramente arte. Un atteggiamento, anche critico, durato nei decenni, che spesso ha fatto, purtroppo, sopravvalutare tendenze cinematografiche di marcata tendenza teatrale o letteraria, a scapito degli ingegni visivi più brillanti del Paese, liquidati come scandalosi o dozzinali (da Powell e Pressburger a certi esemplari eccentrici del Free Cinema, al thriller, l’horror, la bizzarria gotica che hanno percorso la storia del cinema inglese). Negli anni Trenta, Gielgud, Laurence Oliver, Ralph Richardson, Michael Redgrave parevano facessero cinema tanto per tenersi occupati tra un allestimento teatrale e l’altro. Erano tutti, oltre che interpreti, capocomici, direttori di compagnie e di teatri, una tradizione incarnata oggi da Kenneth Branagh, passato con furibonda ostinazione da un Amleto a poco più di vent’anni all’allestimento della sua compagnia, poi della sua casa di produzione, da una sfida aperta al mito di Olivier a Hollywood, sempre alternando le scene a film-mostre a piccoli film. Solo Olivier, il più fascinoso, divenne una vera star cinematografica, anche perché credeva tanto nel cinema da decidere di trapiantarvi, in grande stile, Shakespeare. Ma Gielgud, per esempio, è sempre stato una presenza cinematografica "strisciante": in parti minori nei film shakespeariani (Clarence in Riccardo III di Olivier, Enrico IV in Falstaff di Welles, Cassio in Giulio Cesare di Mankiewicz, dove insegnò la giusta pronuncia allo spaesato Marlon Brando), padre, funzionario, politico negli altri. Da vecchio si è e ci ha divertito di più, con l’impeccabile maggiordomo dell’ubriacone Arturo (per il quale nel 1981 vinse l’Oscar) e soprattutto con quell’impressionante sintesi del suo carisma scenico e della sua irraggiungibile gamma vocale che è L’ultima tempesta di Greenaway.
Da Il Sole 24 Ore, 13 luglio 2000