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Rassegna stampa di Marilyn Monroe

Marilyn Monroe (Norma Jean Baker) è un'attrice statunitense, produttrice esecutiva, è nata il 1 giugno 1926 a Los Angeles, California (USA) ed è morta il 5 agosto 1962 all'età di 36 anni a Los Angeles, California (USA).

PINO FARINOTTI
MYmovies.it

Sua madre soffre di disturbi psichici, il padre "non è dichiarato" forse subisce violenza sessuale a dieci anni. Sono le premesse di una vita disordinata e difficile. Poi c'è la futura diva, che arriva alla Fox e viene usata in piccole parti. Fino al 1950 quando John Huston le attribuisce qualche posa in più in Giungla d'asfalto. Zanuck, gran capo della Fox, una sera la vede a un party circondata da tutti e domanda chi sia quella ragazza. Gli rispondono che è una sua dipendente. "Se è protagonista a una festa lo è certamente anche nei film". Marilyn esplode in Niagara. La camminata, di spalle, mentre si allontana dalla macchina, ha decretato il suo successo. Da quel momento interesserà i maggiori registi americani, soprattutto quelli della commedia: Wilder (Quando la moglie è in vacanza, A qualcuno piace caldo), Hawks (Gli uomini preferiscono le bionde), Cukor (Facciamo l'amore). Ma la Marilyn più vera è quella di Fermata d'autobus, pieno di citazioni autobiografiche, come il successo voluto ad ogni costo: oppure quella battuta storica "gli uomini si sono interessati a me da quando avevo dodici anni". Sposa un mito americano dello sport, Joe Di Maggio, dura poco. Sposa un mito americano della letteratura, Arthur Miller, unione molto difficile, come sempre. Forse è amica del presidente Kennedy, e anche di suo fratello Bob. Insomma il solito disastro privato. Miller le scrive "addosso" Gli spostati, un'opera affascinante ma troppo letteraria. Sarà il suo ultimo film. Marilyn era molto dotata, cantava e ballava e toglieva la scena a vere cantanti e ballerine. Formosa, forse volgare, stupidina e ingenua, (nella vita come sul set) fuori dal proprio tempo e da tutti i tempi, Marilyn Monroe ha rappresentato inconsapevolmente una figura buona per tutti i sogni e per tutti i marketing. Molti libri di cinema, o sulle donne, o sulle icone, sintetizzando per la copertina una sola immagine, hanno scelto Marilyn. Piaceva agli occidentali, come ai mediorientali o ai cinesi che non l'avevano mai vista. Ha creato un precedente per sempre, quello sessuale, che è molto importante. Naturalmente.

ROBERTO ESCOBAR
Il Sole-24 Ore

"Ti dà l'impressione di poterla accarezzare stendendo una mano": quest'effetto facevano le foto di Marilyn Monroe a Billy Wilder, al grande Billy Wilder che la diresse in Quando la moglie è in vacanza (1955) e in A qualcuno piace caldo (1959). Oggi, dopo trent'anni, ci accade ancora lo stesso con i suoi film: tra la sua immagine e lo spettatore sembra non esserci alcuna distanza, come se bastasse stendere una mano… Di certo per nessun'altro mito dell'immaginario cinematografico vale come per lei questa "contiguità " con il nostro desiderio, questa impressione di "contatto". Marilyn esce dallo schermo ed entra nei nostri occhi con una leggerezza naturale e immediata. Eppure, il suo personaggio e il suo corpo non sono affatto naturali e immediati. Al contrario, sono il punto d'arrivo di una costruzione durata anni, di una intelligenza d'attrice che solo lo stereotipo della dumb blonde, della bionda stupida o dell'oca bionda, ha potuto nascondere. Alla riscoperta di quell'intelligenza va ora un bel libro di Erica Arosio ("Marilyn Monroe", Multiplo Edizioni, Milano 1989, pagg. 176, L. 30.000; accompagnato da un'audiocassetta con 14 brani cantati da Marilyn). Marilyn Monroe è un'appassionata ricostruzione di un sogno contrastato e sfortunato: raggiungere il successo anche attraverso la bellezza, ma non solo; ottenere il rispetto che si merita un'ottima attrice; convincere che "bella e stupida" è un pregiudizio infondato e, esso sì, stupido. Quasi per risarcirsi della solitudine dell'infanzia e dell'adolescenza, Norma Jean Baker Mortenson - questo era il suo vero nome - per tutta la vita usa il corpo per piacere, per ricevere consenso. Così da castana si fa bionda, si fa modificare il naso ed evidenziare il mento. Sa di avere i fianchi troppo tondi, ma sa anche che, accentuandone la linea, questo difetto si trasformerà in un pregio. Insomma, Norma Jean crea Marilyn Monroe, la modella con tenacia. E la sua grandezza sta nel dar l'idea che questo complesso artificio sia invece solo spontaneità e naturalezza. La creazione non si ferma qui. Scandalizzando Hollywood, quando è già all'apice del successo decide di frequentare i corsi di recitazione di Lee Strasberg all'Actor's Studio. Si cimenta addirittura con il teatro. E a chi gliene chiede i motivi, risponde: "Ho visto i miei film". Una risposta che, da sola, confuta per sempre l'accoppiata "bella e stupida". Alla fine, quel che vien fuori è l'immagine di una donna capace di far sognare l'uomo comune degli anni 50 (e non solo), di attirarlo con una bellezza strepitosa e insieme di non spaventarlo, quasi che Marilyn fosse accessibile come una dattilografa, per quanto diva. Ma - suggerisce Arosio - la maggiore grandezza di Norma Jean Baker Mortenson sta nella capacità di aderire perfettamente allo stereotipo dell'oca bionda, e insieme però di farne una sublime, definitiva caricatura. Questa ambiguità - osserva molto giustamente Arosio - la rende non imitabile, non ripetibile: con lei, la dumb blonde giunge "al suo punto di non ritorno". Ecco perché non ci sarà una seconda Marilyn, come invece lei stessa all'inizio fu una seconda Jean Harlow. In questa ambiguità, però, sta anche il dolore di un sogno che non si realizzò. E forse proprio questo dolore ha suggerito a Pier Paolo Pasolini le parole più belle per la sua morte: "Del mondo antico e del mondo futuro era rimasta solo la bellezza e tu, povera sorellina minore (...) quella bellezza l'avevi addosso umilmente (...). Sparì come un pulviscolo d'oro". Da Il Sole 24 Ore, 26 Novembre 1989

GABRIELE ROMAGNOLI
Vanity Fair

Non ci sono canzoni per Zelda Zonk. Ce ne sono per Marilyn, ce n'è una anche per Nonna Jean, niente per Zelda. Era solo un nome su una carta d'imbarco, uno pseudonimo sul volo Los Angeles-New York, alla fine dei 1951. Lo portava una donna con vistosi occhiali scuri e una parrucca nera a coprire i troppo noti capelli biondi. Era nata Norma Jean Mortensen nel giugno del 1926. Sarebbe diventata legalmente Marilyn Monroe nel febbraio del 1956. Ma in quel limbo aveva scelto un altro nome, a metà tra letteratura e fumetto. Zonk come un suono onomatopeico, Zelda come la donna di Francis Scott Fitzgerald, deciso leggendo la dedica all'inizio del Grande Gatsby. Stava volando a New York perché aveva divorziato da tutto. Aveva lasciato la Fox e gli studios, stanca dei ruoli da svampita sexy che le proponevano. Nella circostanza le uscì una delle frasi più efficaci della sua vita: «Hollywood è quel posto dove pagano migliaia di dollari per un tuo bacio e cinquanta centesimi per la tua anima». Aveva lasciato Joe Di Maggio, il marito che l'aveva sognata troppo moglie. Ma soprattutto voleva divorziare da se stessa: non essere più Marilyn, ma Zelda, attrice di teatro, lettrice di Cechov padrona di New York e del suo destino. Non ci riuscì. Pochi mesi ed era di nuovo sul set, di nuovo sposata e poi divorziata, di nuovo Marilyn.

ALBERTO BEVILACQUA

Marilyn Monroe. Perché citarla? Tutto è stato detto e tutto - di scottante - è stato messo a tacere. Ma ecco una notizia all'americana. Un giudice donna di Los Angeles ha tolto agli eredi ogni diritto alla sua immagine. Roba grossa, verdoni a palate. L'eredità andò alta famiglia di Leo Strasborg, maestro dell'Actor s Studio, che ha incassato finora trenta milioni di dollari. Da aggiungersi la vendita di accessori: souvenir e via dicendo. Quelli delta "Mmllc",gestori dell'eredità, hanno le mani nei capelli. Ma cosi è. Il Tribunale di Los Angeles ha decretato che Marilyn, al tempo del decesso, risiedeva a New York, e a New York i diritti di una star si estinguono con la sua morte. La diva, insomma, è di assoluta proprietà della capitale, ..è.. la città capitale. Anche con i suoi nudi più ó meno clandestini, anche con le prove, decisamente azzardate. Se una legge simile esistesse in Italia, che potrebbe accadere? Con le dovute differenze sessuali, chi potrebbe essere Roma? Petrolini o Anna Magnani? E se fosse in Francia? Edith Piaf? Fatto è che, per la prima volta, una donna diventa, non solo simbolicamente, una metropoli. Grazie (si fa per dire) alla sua morte, non alla sua vita che fu, da ogni punto di vista, hollywoodiana. Nasce un sospetto. Non sarà che, sotto sotto, c'entrano in qualche modo gli sconcertanti segreti che Marilyn si portò nella tomba? O quel tanto di segreto che ancora resta sui rapporti con i fratelli Kennedy? Se saltasse fuori qualcosa. Chi potrebbe in qualche modo parare i colpi dell'avido delirio delta stampa non soltanto scandalistica?

GIUSEPPE MAROTTA

Non posso andarmene a vedere L'ultimo amante o Il grido del sangue, mentre Marilyn Monroe sposa il collega Arthur Miller. No, no, che diamine. C'entro come spettatore, c'entro come giudice di film, c'entro come scrittore e c'entro come uomo. La mia più calda e urgente opinione è che le Società degli Autori di ogni lingua dovrebbero innalzare sui loro tetti il gran pavese. Questo matrimonio favoloso è un diploma, una medaglia, un titolo d'onore per chiunque viva di penna. Badate, scherzo e non scherzo. Prima delle annunziate nozze letterarie di Marilyn, le Veneri dello schermo appartenevano, legalmente o no, di riffe o di raffe, all'alta finanza o all'aristocrazia. Veniva un principe o un banchiere, un rajah o un ,produttore (gente che non di rado ha un cece dove noi abbiamo i sentimenti più teneri e più difficili) e se le annetteva. Qualche volta era un compagno di lavoro ad aggiudicarsele (mamma mia bella, gli intelletti e la finezza di certi famosi attori!) o un suburbano, lucido Rubirosa, nutrito dai genitori e dagli amici in attesa di una moglie che sfacchinasse per lui. Diciamolo, coraggio: non soltanto con i loro torbidi e vacui film, pieni di maiuscoli globi nelle camicette e altrove, parecchie Veneri cinematografiche dimostravano la loro indigenza mentale; anche i loro gusti (o le loro pazienze) in fatto di vincoli amorosi, erano un grigio sintomo di invalidità spirituale. È una dura lezione, perciò, quella che oggi impartisce Marilyn alle sue tonde emule dei vari paesi; e lasciatemi dire viva Marilyn, viva.

GIUSEPPE MAROTTA

Scusate, debbo tornare sulle nozze di Arthur Miller con la belva dei canapè . Un recente elzeviro di Guglielmo Peirce mi obbliga a farlo. Ci guadagnate, d'altronde, se non vi parlo di film come L'agguato delle cento frecce e La vedova e Occhio di Linee. Dunque Peirce ha letto, nel numero 28 dell'Europeo, la nota che intitolai "Marilyn sposa Arthur per sapere quanto è bella", e l'ha bocciata; non sono d'accordo e debbo dire la mia, scrive. Perché no? Ci mancherebbe che avessimo tutti l'identica opinione dei matrimoni o dei conoscenti nostri. Ma don Guglielmo comincia dando per certo che io abbia gridato "Ti ringrazio, Marilyn; anzi gli scrittori italiani ti ringraziano". Egli altera, com'è purtroppo nostra abitudine in ogni discorso, gli argomenti dell'interlocutore; se li aggiusta in modo che gli riesca più facile abbatterli. Don Guglielmo, ciò (come si dice a Napoli) non è da voi. In verità io fui generico, dissi: “Viva Marilyn per la dura lezione che impartisce a certe sue rivali” e dissi: “Le Società degli Autori di ogni lingua dovrebbero innalzare sui loro tetti il gran pavese”. Era (e alquanto scherzoso) il parere mio, nel quale non ebbi intenzione di coinvolgere gli scrittori italiani. Posso augurare a me, si è ciechi sul proprio conto, una Marilyn Monroe; in braccio al collega Tizio o Caio (meglio non far nomi) la troverei spaesata.

GIUSEPPE MAROTTA

Il generale a riposo Amerigo B. mi disse: «Ho per Marilyn Monroe un vivo interesse, che molti miei colleghi, appartenenti anch'essi alla riserva, condividono pienamente. Conosciamo tutti i suoi film; la nostra memoria, squisitamente (non invano si è chi si è) topografica, ne ha ritenuto e ne rielabora ogni aspetto. Nel caffè dove ci raduniamo la sera, infatti, Marilyn è l'argomento principale dei nostri dibattiti. La politica ci ha stancati; qualsiasi ipotetica guerra, essendo le armi attuali segretissime, non offre appigli alla nostra scienza specifica. Nei futuri conflitti prevarrà la macchina, e l'uomo (del quale noi studiamo il più razionale impiego) non avrà peso. Invece per Marilyn Monroe l'uomo è tutto. E quindi essa appartiene di diritto e di fatto ai generali. Ma la osservi, prego. Non a caso il poeta biblico affermò che la Sullamita era un campo a bandiere spiegate. Marilyn evoca, dalla testa ai piedi, immagini epiche. Lo dicevo, ieri, al mio ex-comandante Gualtiero B. Noti, gli dicevo, l'ampiezza, la varietà, le modulazioni, la planimetria di questa ineguagliabile donna. Marilyn ha tutte le risorse di un terreno campale. Dove, se non qui, un tattico o uno stratega può vincere o perdere le sue fondamentali azioni? Quei capelli biondi, assolati, che lampeggiano come una stesa di grano inquadrata nel binocolo di un condottiero; quelle guance chiare, lisce come le aie; quella bocca rossa e umida come un fondovalle; quegli omeri larghi e quel petto ripido, maiuscolo, da truppa di montagna; quella stretta fulminea, sannitica, della cintola; quei successivi slarghi da invasione irreparabile, da bollettino di vittoria finale. Eh? Marilyn è la Venere degli Alti Comandi. Noi ci auguriamo che essa abbia trovato in Arthur Miller il suo Cesare. Vede, io non ho moglie. Non ebbi la fortuna di imbattermi in una donna che avesse le inaudite qualità di Marilyn Monroe, così vicine al mio spirito. Ebbi, nel '23, un breve idillio con una beneventana esigua, lieve, non più tanto giovane, la cui piatta configurazione in verità non suscitava che impulsi equivalenti a facili e scialbi movimenti di pattuglie. Nel '39 conobbi Enza, una pianista di Genova. M'illusi finché, nell'agosto, non ci capitò di recarci insieme al bagno, in uno stabilimento della Foce. Le detti qualche svogliata lezione di nuoto. Sulla spiaggia, mentre giacevo imbronciato al suo fianco, lei mi disse: Generale, sa che mi hanno paragonata a una porcellana di Sèvres? Io risposi: Lo, credo. Appunto, e mi alzai. Nelle mie parole scricchiolava, gemeva il presentimento di Marilyn Monroe. Lei è giornalista e ha magari occasione di vederla a quattr'occhi. La informi, sia gentile, che l'impressione dei miei colleghi e mia è che le donne abbiano cominciato ad esistere nei film che la ritraggono. Prima non c'erano che sommarie, vaghe premesse di Marilyn. Dia retta a me, signore: la bellezza femminile, come la guerra, o è armata fino ai denti, o non è. I pensieri attizzati da una Eleonora Rossi-Drago, o da una Lea Padovani, stanno ai pensieri dei quali Marilyn ci affolla, come una zuffa domenicale sta alla battaglia di Zama. Io ...».

GIUSEPPE MAROTTA

Follie della censura Illustre on. Scalfaro, mi auguro che sia l'ingegnosa calunnia di un suo avversario o di un suo fratello politico, ma ho letto che Lei non assiste mai alla proiezione di un film o alla recita di una commedia. Si lasci dire, Onorevole, che un ammiraglio, indipendentemente dalle sue idee sull'acqua, deve saper nuotare. E che diamine. Superi, La prego, di tanto in tanto, la Sua nativa e specifica ripugnanza: dia un'occhiata ai film che la Sua Commissione di Censura approva o boccia. La Monroe di Follie dell'anno, per esempio. Lei effettivamente ignora Marilyn? Permetta che, in dieci righe, io Gliela riferisca. Paragonata alla Monroe, Gina Lollobrigida è un fiore di siepe, una violetta di quietissima carne. Salomone pensava a Marilyn e non a Gina quando scrisse: «Bella e terribile come un campo a bandiere spiegate». Rifletta, on. Scalfaro. Quando è «terribile», una bellezza? Quando è organizzata, perfezionata, articolata, esattamente come un esercito. E caso, appunto, di Marilyn Monroe. Essa è una Venere nata dalle spume di un mare di dollari. È la femmina lavorata, sofisticata, espressa scientificamente da una civiltà le cui risorse e malizie non hanno più argini. Si conceda, on. Scalfaro, una visione di Follie dell'anno. C'è una Marilyn che balla verticalmente fra i tavoli di un ritrovo notturno, e c'è una Marilyn che balla orizzontalmente (dico balla e intendo balla, perché la scena fa parte di uno sketch danzato) sul velluto di un divano rosso. On. Scalfaro, io avevo la gola chiusa a cento chiavi. Un andirivieni fra le mense e un premere le vertebre di un canape, aderendovi come Leda al cigno: nient'altro, ma l'attrice risolveva in ogni gesto un ambiguo teorema di sopraffazione, di iniquità sessuale. On. Scalfaro: io, cinquantenne ormai, ansavo e garrivo come una vecchia stufa; che succedeva intanto agli spettatori giovani? Li avrà guariti o no, fuori, il vento d'aprile? Ritiene Lei che Le avventure di Casanova minacciasse quella salute pubblica oggi protetta, secondo i medesimi giudici, da Follie dell'anno e dal varietà passato o non passato nella pellicola?
On. Scalfaro, è necessario che Lei si rechi, presto o tardi, al «Barberini» o al «Quattro Fontane». Su un piatto di bilancia la Legge Merlin e sull'altro Marilyn e il divano rosso o i bikini di Tutte donne, meno io. All'anima dell'equità e del buonsenso. Mia madre, quando i fulmini spaccavano il cielo, mormorava: «Gesù è nato, Gesù è morto, Gesù è risorto, Gesù salvateci». Onorevole, non ho più spazio. La saluto rispettosamente, buongiorno a Lei.

La roulette delle forme
Un film interpretato da Marilyn Monroe è fatalmente un campionario dei vezzi di Marilyn Monroe. Scusate, e noi? Ogni inquadratura ci getta, ci immerge nello stato d'animo del collezionista davanti al pezzo raro, introvabile, che mai figurerà nella sua lenta, grama, faticata raccolta. Gesù, che donna. Ve ne fa fare, di ragionamenti, in un minuto. Possibile che la Natura, con un vago complotto di ghiandole e di umori, in qualche anno di cosiddetta pubertà, abbia compiuto un lavoretto simile? Puntano tutte gli stessi gettoni, le femminucce, alla «roulette» delle forme da assumere nell'età felice: ma chi se li vede crudelmente rastrellare, chi a mala pena raddoppia la posta, chi arraffa una sestina e chi (la Monroe, per esempio) imbrocca il pieno, i cavalli e i quadrati. Anime del Purgatorio, che vincita al giuoco dei giuochi realizzò crescendo Marilyn. È diafana e compatta, è di garza e di marmo. È breve e interminabile, ora vi sembra di tenerla fra il pollice e l'indice, come una farfalla, ora intraprendete su di lei, magari sulla sua nuca o su un suo avambraccio, niente di più, i viaggi di Caboto. A Napoli, inteneriti e spaventati da un'eccezionale bellezza, diciamo: «Ti possano uccidere». Come non augurare a Marilyn, abbiate pazienza, un trono e un rogo? A sua volta ella ci esalta e ci deprime, ci castiga e ci premia. È un albero della conoscenza al quale appoggiamo invano la nostra malferma scaletta. È l'Eva promessa che in ogni donna ci è mancata. Ogni lieta stagione del nostro sangue ce l'annunziò, ma i fatti puntualmente ce la sottrassero. Marilyn, e che diavolo. Se io dico: «Ti possano uccidere», è perché non esiste, in coscienza, un più virile ed umano saluto per te. Mi hai promosso e bocciato, nel film di Billy Wilder Quando la moglie è in vacanza: fui, contemplandoti per un'ora e mezza, insignito e privato di te. Un vero uomo ti osserva, ti valuta e poi guarda stizzito la propria donna, pensando: «È inutile, sono la vittima di un clamoroso bidone».

Viva Marilyn
Non posso andarmene a vedere L'ultimo amante o Il grido del sangue, mentre Marilyn Monroe sposa il collega Arthur Miller. No, no, che diamine. C'entro come spettatore, c'entro come giudice di film, c'entro come scrittore e c'entro come uomo. La mia più calda e urgente opinione è che le Società degli Autori di ogni lingua dovrebbero innalzare sui loro tetti il gran pavese. Questo matrimonio favoloso è un diploma, una medaglia, un titolo d'onore per chiunque viva di penna. Badate, scherzo e non scherzo. Prima delle annunziate nozze letterarie di Marilyn, le Veneri dello schermo appartenevano, legalmente o no, di riffe o di raffe, all'alta finanza o all'aristocrazia. Veniva un principe o un banchiere, un rajah o un produttore (gente che non di rado ha un cece dove noi abbiamo i sentimenti più teneri e più difficili) e se le annetteva. Qualche volta era un compagno di lavoro ad aggiudicarsele (mamma mia bella, gli intelletti e la finezza di certi famosi attori!) o un suburbano, lucido Rubirosa, nutrito dai genitori e dagli amici in attesa di una moglie che sfacchinasse per lui. Diciamolo, coraggio: non soltanto con i loro torbidi e vacui film, pieni di maiuscoli globi nelle camicette e altrove, parecchie Veneri cinematografiche dimostravano la loro indigenza mentale; anche i loro gusti (o le loro pazienze) in fatto di vincoli amorosi, erano un grigio sintomo di invalidità spirituale. È una dura lezione, perciò, quella che oggi impartisce Marilyn alle sue tonde emule dei vari paesi; e lasciatemi dire viva Marilyn, viva.

GIUSEPPE MAROTTA

La via dell'arte
Ecco la ribellione di Marisa Allasio a Ponti e di Gina Lollobrigida a Rizzoli. Non aspettatevi che io difenda i produttori. Ma qui abbiamo una rivolta, un ammutinamento provocato, si afferma, da nobili motivi. Il cervello di Marisa Allasio e di Gina Lollobrigida, tumulato nei film La donna più bella del mondo e Susanna, tutta panna, ha dato eccezionali segni di vita. Queste veneri cinematografiche in sostanza dicono: «Basta. Vogliamo recitare». Sì, brave, felicitazioni, auguri, evviva: ma recitare con che? Una effettiva grande attrice è un paesaggio interiore, al quale poco aggiungono o levano i costumi da bagno e le camicette a voragine. La crisi vostra, gentilissime dive, ha un precedente clamoroso: quello di Marilyn Monroe. Avvedutasi che il cinema la inchiodava alla fatuità di una rara bellezza, Marilyn cosa fece? Non litigò con i produttori, non volle rescissioni di contratti o favolosi indennizzi. S'iscrisse umilmente a una scuola di recitazione. Sposò un geniale uomo di penna, ossia l'equivalente di centinaia di maestri in casa. Frequentò concerti, esposizioni di quadri, musei. Barattò il suo fulgido sorriso con le più varie nozioni; magari gli interlocutori fissavano, com'è naturale, i suoi morbidi fianchi, ma le parlavano di Van Gogh o di Cechov, del Beato Angelico o di Eliot. Mi spiego? Non è la via delle beghe, gentilissime dive, che porta al meglio del cinema e di ogni arte. Supponete che io avventatamente dichiari, qui: «La signora Lollobrigida e la signorina Allasio non meritavano che i film che hanno avuti». Subito voi mi querelate (è di moda), con ampia facoltà di prova; ed io ottengo ché i giudici mi autorizzino a rivolgervi alcune domande. Per esempio: «Come dobbiamo scrivere la parola ubiquo?», o: «Che significato ha il termine pedissequo? », o: «Volete coniugarci il passato remoto dei verbi cuocere e svellere? ». Ah dive, dive: io scherzo, ma come il pagliaccio di «Ridi, pagliaccio». Che sommossa di attrici è quella che esige, in una forma o nell'altra, un pozzo di lire? Qualunque arte, così avvilita, reagisce... Ah, care dive, l'arte non paga il sabato: ma un bel giorno, che è, che non è, puntualmente si vendica.

News

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