•  
  •  
  •  
Apri le opzioni

Rassegna stampa di George Stevens (II)

George Stevens (II) è un attore, è nato nel 1860 ed è morto il 20 agosto 1940 (USA).

STEFANIA IANNUZZI
MYmovies.it

Regista solido e versatile degli anni d'oro di Hollywood. Dall'era del muto a quella del cinemascope, ligio alle regole dei generi e dei copioni "di ferro", ma anche capace di finezze stilistiche e di brillanti improvvisazioni sul set. Negli anni venti lavora come cameraman nella fabbrica di comiche di Hal Roach, contribuendo anche ad alcuni classici di Stan Laurel e Oliver Hardy, negli anni trenta comincia a dirigere; si conquista un posto in prima fila dal 1935, quando in Primo amore guida Katharine Hepburn nel suo primo ruolo importante. Conclude il decennio con due ottimi risultati nel campo del musical(Folle d'inverno con Fred Astaire e Ginger Rogers, 1936) e del cinema d'avventura(Gunga Din, 1939). I primi anni quaranta lo vedono sempre più efficace direttore di attrici in commedie tanto frizzanti quanto garbate (oltre a Jean Arthur, ancora la Hepburn in La donna del giorno, 1942) e poi in servizio attivo come documentarista di guerra (fu tra coloro che filmarono la "liberazione" del campo di sterminio di Dachau) Dopo il conflitto, Stevens elimina progressivamente gli elementi di commedia dal suo lavoro, scegliendo e affrontando con cura e meticolosità i pochi ma eccellenti progetti degli anni cinquanta. È la sua ultima vera stagione creativa, che annovera le "tragedie americane" di Montgomery Clift in Un posto al sole (1951, sei oscar tra cui quello alla regia) e dell'ultimo James Dean nel Gigante (1956, oscar alla regia). Nel 1953 firma un classicissimo del cinema western, vero e proprio cult movie, Il cavaliere della valle solitaria con un Alan Ladd, all'apice della sua interpretazione.

PIETRO BIANCHI

Il problema, a lungo dibattuto, circa l’autore dei film durerà probabilmente quanto l’arte cinematografica. In fondo esso si può dire risolto solo per i pochissimi registi-autori, da Chaplin a Stroheim, da Clair a Flaherty a Murnau. Già la cieca determinazione hollywoodiana di considerare il cinematografo come una qualsiasi attività industriale, complicata soltanto da esigenze para-artistiche, aveva raffreddato l’entusiasmo di molti: il fatale declino di King Vidor (vedi il recente Ruby, fiore selvaggio, pellicola nella quale una Jennifer Jones, sempre più sofisticata, cerca di ripetere il commerciale di Duello al sole...) ha rattristato parecchi, che non si sanno arrendere all’evidenza: mentre coloro che non hanno freddo agli occhi si sono da tempo messi d’accordo su pochi nomi: sui due europei Wilder e Wyler da mettere accanto agli autoctoni Ford, Hawks, Huston. Le esperienze europee hanno aggiunto nuove ombre al problema: che sarebbe De Sica privato di Zavattini? Esigenza legittima, domande tutt’altro che pettegole, quando si rifletta sulle delusorie esperienze di Carné dopo il divorzio da Prévert e dall’Autant-Lara del Diavolo in corpo, privato, per il mortificato e poco vitale Bon Dieu sans confession, della preziosa collaborazione di Bost e Aurenche. E proseguendo, che sarebbe del Breve incontro di David Lean senza il testo di Noel Coward? Curiosissimo «monstrum» questo cinematografo, che da una parte è tiranneggiato dagli speculatori che escogitano, per aumentarne l’impero, 3D, cinerama, schermo panoramico ecc., e dall’altro subisce la sterile aggressività di esteti sprovveduti di finezza e di senso critico. Ad ogni modo allo spettatore attento qualche consolazione è pur riservata, ogni tanto. Vogliamo di conseguenza consacrare queste pagine al regista americano George Stevens, messosi in primo piano, dopo una lunga vigilia (non scevra tuttavia di successi: Primo amore, Una donna vivace, Gunga Din), con Un posto al sole, confermatosi per gli intendenti con Perdonami se ho peccato e infine trionfante con il cavaliere della Valle Solitaria. Di un suo personaggio, in «Punto contro punto», Aldous Huxley dice che era così intelligente da essere quasi umano. Il sottile concetto di Huxley si può applicare all’arte di Stevens, la cui recentissima epifania è stata preceduta, come si è detto, da una lunga attesa di tecnico; come Wyler, infatti, che da buon europeo è però più problematico, il regista di Un posto al sole è arrivato all’arte attraverso «pizze» girate alla brava per produttori commerciali e di pessimo gusto. Registi di questo tipo ci fanno venire in mente il caso del padre gesuita Daniello Bartoli condotto ad esprimere in stile sbalorditivo le avventure, peripezie, sofferenze dei missionari del suo ordine sparsi a catechizzare gli infedeli. Stevens non ha ancora cinquant’anni, ma già dal 1935 con Alice Adams (in italiano Primo amore, interpreti Kathanine Hepburn e Fred Mac Murray) mostrava di essere un regista non dei soliti. Vi si narrava il caso di una fanciulla innamorata di un giovanotto appartenente a una condizione sociale superiore: il regista era riuscito a sfruttare sapientemente il contrasto che nasceva tra il sentimento, sincerissimo, della protagonista, e i modi, ingenui e scoperti, attraverso i quali essa tentava di conquistare l’oggetto amato. Ancona fresca, timida ma pungente, la Hepburn riusciva alla fine a irretire, malgrado «gaffes» a carrettate, quel bietolone di Fred Mac Murray. Film successivi non privi di meriti come Una donna vivace (Ginger Rogers) e Gunga Din (che pochi mesi or sono ha ripreso a circolare sugli schermi italiani) stavano a indicare che lo Stevens aveva conquistato la piena fiducia dei produttori. Si era insomma di fronte a un regista sicuro, padrone della tecnica d’espressione e degli attori, ma non ancora a un artista. Lo Stevens vero, quello che amiamo, è apparso solo nel dopoguerra: con Un posto al sole, con Perdonami se ho peccato e con Il cavaliere della Valle Solitaria. In Perdonami se ho peccato (nell’originale Something to Live for) George Stevens ci aveva dato frammenti bellissimi. Il dramma dell’ex-alcoolizzato, provvisto di una moglie intelligente, bella e fedele, e di un caro figlioletto, e che tuttavia sente una irresistibile attrazione per una giovane attrice avvinta dai paradisi dell’alcool, ci lasciava freddi perché il tema non era di sufficiente universalità per colpirci; non solo, ma si aveva l’impressione che, paradossalmente, le eccezionali qualità tecniche del regista avessero in un certo senso frenato e offuscato il sentimento dei protagonisti. La mirabile interpretazione di Ray Milland e di Joan Fontaine aveva in parte ovviato alla freddezza della ispirazione, specialmente nella scena viva e verace del ricevimento; ma pur ammirando la finezza delle situazioni psicologiche, la precisione degli «attacchi», l’uso sapiente del «panfocus», non si riusciva ad immedesimarci completamente con il dramma dei personaggi. Pienamente accettabile è invece Un posto al sole (A Place in the Sun) che è il vero, primo grande film di George Stevens. La cosa era particolarmente difficile dato il precedente, e molto riuscito, film di Joseph von Sternberg (An American Tragedy, 1931, interpretato da Sylvia Sidney). A Hollywood si considera il film come un semplice prodotto industriale: ne consegue che periodicamente si rifanno le pellicole che nel passato hanno riscosso il favore del pubblico. In parole povere, ciò che ha valore commerciale è il «soggetto», non la regia. Ecco perché non è più possibile vedere lo stupendo Alba tragica di Marcel Carné, il cui soggetto, venduto a Hollywood, ha dato laggiù origine a una pellicola priva di senso comune: ed ecco perché il suggestivo Ossessione di Luchino Visconti, ispirato al «Postino suona sempre due volte» di James Cain, non è più in circolazione. Nel suo bel film Sternberg aveva posto l’accento sul dramma della ragazza sedotta dal protagonista, restando più vicino alla tesi del romanzo (come si sa, Dreiser, narratore naturalista, aveva voluto denunziare i pericoli dell’invadente, spietata civiltà industriale); Clive si libera di Roberta, che è di ostacolo ai suoi sogni ambiziosi, e qui era pernio del racconto di Sternberg che raggiungeva con finissima arte il clima angoscioso del testo originale. Stevens, spostando il centro del dramma, insisteva invece sul rapporto del protagonista con la ragazza ricca, che lo ama teneramente e mai l’abbandona. Dreiser aveva studiato un caso patologico, Stevens ci mostra un patetico caso umano, il peso del destino su spalle troppo fragili per sopportarne il colpo senza vacillare.Shane (questo curioso nome è il titolo originale de Il cavaliere della Valle Solitaria) è un eroe sconosciuto. Non sapremo mai da dove è venuto, né dove andrà. Egli arriva a cavallo, inaspettato, in una comunità di pionieri insidiata da un grosso proprietario di mandrie. Il tutto nello Wyoming, verso il 1892. All’apparenza siamo dunque davanti a uno dei soliti conflitti tra contadini sedentari, abbarbicati al suolo, e ricchi proprietari di bestiame, nemici dei dissodatori che attentano ai loro privilegi. Non si sa bene perché Shane accetti di fermarsi nella fattoria di Starrett e di trasformarsi in villano. Forse è stato costretto ad uccidere qualcuno, ed è infastidito di sé e della vita, forse è sedotto dalla bella moglie o dal simpatico bambino del suo ospite. Intanto nella valle solitaria tutto va di male in peggio. Il ricco proprietario di bestiame, che ha i suoi quartieri nell’emporio-bar del villaggio, furibondo perché i suoi mandriani, venuti alle mani con Shane e Starrett, le hanno toccate, chiama di lontano un certo Wilson, un temibile e odioso « pistolero »; alla prima occasione, l’assassino uccide uno dei pionieri, un bravo giovane più imprudente dei suoi compagni. Costernati i contadini stanno per andarsene quando appare Shane. Va a un appuntamento al posto di Starrett, cui era stato teso un agguato: nella livida alba uccide il «pistolero»e i suoi mandanti. Il bimbo di Starrett, che lo ha seguito con il cane, e che lo adora, vede il suo eroe allontanarsi per sempre. Anche se per una causa giusta, Shane ha ucciso: il suo piccolo amico e l’adorabile moglie di Starrett lo ricorderanno per sempre. Il cavaliere della Valle Solitaria è il secondo capolavoro di Stevens. Si insinua in una tradizione ormai illustre, aperta dal Ford di Sfida infernale e continuata genialmente dallo Zinnemann di Mezzogiorno di fuoco. Il western non è più ottimista, ammazzasette, spavaldo. È un racconto autunnale, il racconto di un’epopea in declino. Shane lotta in difesa di coloro che stanno affossando il mondo di cui lui stesso è l’eroe, il mondo delle distese sconfinate senza leggi e senza confini. È amato dalle giovani donne e dai bambini, perché rappresenta la poesia, l’avventura, l’evasione. Ma non può star fermo in nessun luogo perché è costretto a infrangere la legge e ad uccidere. Siamo infatti nel momento critico in cui le leggi sono state scritte e promulgate ma mancano ancora gli incaricati di farle applicare. (Come un ritornello, cade sempre nel racconto la frase: «Il male è che il più vicino sceriffo è a tre giornate di cavallo da qui».) Stilista impeccabile, padrone assoluto, come forse non lo è nessun regista oggi a Hollywood, dei segreti del mestiere, Stevens ha osato girare Shane in technicolor, infrangendo la regola che afferma essere il colore il nemico del film psicologico. Le montagne dello Wyoming che dominano la silente pianura: le tre o quattro baracche di legno dove sono radunate le indispensabili attività civili; le albe e i tramonti; uomini, donne e bambini che danzano all’aperto (ricordo di Ford) nel giorno dell’indipendenza, hanno offerto straordinari esiti all’impiego intelligente del colore. A codeste qualità «luministiche» Stevens ha aggiunto una penetrazione psicologica rara. Testimonio delle imprese di Shane è il piccolo figlio di Starrett, il colono. È lui che segue il suo eroe, si nasconde nei momenti brutti negli angoli, e poi narra ciò che è accaduto. È lui l’uomo «nuovo», cresciuto tra gli ultimi colpi di pistola nel West e destinato a sentire la mitraglia tanto più micidiale delle guerre mondiali. Il «testimone» di Shane potrebbe essere un nostro contemporaneo, un anziano signore tra i sessanta e i settanta. Egli ha visto l’America dei «desperados» e ha visto quella di Hiroshima. Ecco perché abbiamo detto che Il cavaliere della Valle Solitaria è un capolavoro melanconico, un film del crepuscolo e del rimpianto, un western che non rimbomba di revolverate né sfolgora di crudi colori, ma che ha il tono elegiaco delle stagioni morenti e la quiete melanconica delle foglie morte.

Vai alla home di MYmovies.it »
Home | Cinema | Database | Film | Calendario Uscite | Serie TV | Dvd | Stasera in Tv | Box Office | Prossimamente | Trailer | TROVASTREAMING
Copyright© 2000 - 2024 MYmovies.it® - Mo-Net s.r.l. Tutti i diritti riservati. È vietata la riproduzione anche parziale. P.IVA: 05056400483
Licenza Siae n. 2792/I/2742 - Credits | Contatti | Normativa sulla privacy | Termini e condizioni d'uso | Accedi | Registrati