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Rassegna stampa di Charles Chaplin

Charles Chaplin (Charles Spencer Chaplin) è un attore inglese, regista, produttore, scrittore, sceneggiatore, montatore, musicista, è nato il 16 aprile 1889 a Londra (Gran Bretagna) ed è morto il 25 dicembre 1977 all'età di 88 anni a Vevey (Svizzera).

A CURA DELLA REDAZIONE
MYmovies.it

Regista e attore cinematografico, fra i più grandi creatori del cinema come arte. Nato da povera famiglia nel più malfamato sobborgo londinese, Whitechapel, cominciò a esibirsi come mimo nel 1902, comparendo in alcuni sketches messi in scena dalla compagnia dei London Comedians diretta da Fred Karno. Durante una tournée americana, nel 1912, fu scritturato dalla Keystone Productions, diretta dal comico Mack Sennett, e per essa interpretò una quarantina di brevi farse, girate a una o due bobine, nel gusto del primo cinema comico, basato sugli inseguimenti più spericolati e su nutriti lanci di torte in faccia. Chaplin, che aveva assunto allora lo pseudonimo di Chapman, definì in una delle ultime comiche girate per Sennett - Tillie's Punctured Romance - il personaggio che lo avrebbe reso celebre e amato in tutto il mondo: quello del vagabondo Charlot, con i baffetti, il tubino, i pantaloni larghissimi, le enormi scarpe e il sibilante bastoncino di canna d'India. Era il 1914. L'anno dopo, Chaplin siglò un contratto con la Essenay (16 comiche) sui seguì nello stesso anno quello con la Lone Star Mutua! Corporation (12 comiche, quasi tutte con Edna Purviance). Dal 1918 al 1922 lavorò per la First National (8 brevi film). Nello stesso 1918 fondò con Douglas Fairbanks Sr., David Wark Griffith e Mary Pickford la United Artists, per la quale cominciò a lavorare nel 1922, scaduti gli altri contratti. Nel 1923 diresse l'unico film in cui non appare come interprete, La donna di Parigi (mai proiettato in Italia fino al 1966, anno in cui apparve in visioni di cineteca). Chaplin accettò dapprima il sonoro soltanto come possibilità di inserire motivi musicali nel film (Le luci della città, 1931, Tempi moderni, 1936). Si valse anche del parlato soltanto con Il grande dittatore, 1939, e allora lo utilizzò pienamente: il film infatti si concludeva con un discorso democratico e antifascista dello stesso Chaplin, lungo quasi dieci minuti, a macchina ferma. Il personaggio Charlot si mantiene intatto fino a Le luci della città, 1931. In Tempi moderni le sue caratteristiche esterne erano ancora le stesse, ma egli non rappresentava più soltanto se stesso, bensì anche un operaio. Nel successivo Il grande dittatore, 1939, il personaggio si sdoppiò in quello di un barbiere ebreo da una parte, e della caricatura di Hitler dall'altra. Con Monsieur Verdoux, 1946, la maschera di Charlot fu definitivamente abbandonata. Chaplin compì un lungo viaggio intorno al mondo dopo Le luci della città. Lasciò definitivamente gli Stati Uniti dopo Le luci della ribalta, 1952. I suoi rapporti con gli americani non erano mai stati particolarmente cordiali ed egli satireggiò spietatamente l'amencan way of lif e in Un re a New York, 1956, realizzato a Londra come il film, La contessa di Hong-Kong, nel quale egli sostiene soltanto una parte di sfondo. In Europa, Chaplin prese dimora a Vevey, in Svizzera, dove scrisse, fra il 1958 e il 1962, le sue memorie (ediz. ital. Milano, 1964, col titolo La mia autobiografia).

J. HOBERMAN
The New York Times

ONE spell was broken and another cast: the world’s most beloved clown became his adopted land’s most reviled figure. As the cold war coalesced in 1947, Charlie Chaplin’s Little Tramp mutated into the monstrous Monsieur Verdoux, a professional bigamist and serial killer supporting his family by marrying and dispatching a succession of wealthy widows.
“Monsieur Verdoux,” opening Friday for a weeklong run at Film Forum, is subtitled “A Comedy of Murders,” and, as the French critic André Bazin observed, it turns the Chaplin universe upside down. The erstwhile tramp is here an honest bank clerk driven to homicide by the 1929 stock market crash. Condemned to death at the movie’s end, he declares his crimes paltry compared with those of Western civilization: “As a mass killer, I’m an amateur by comparison.”
Chaplin considered this, his first post-World War II movie, a topical one. As he had satirized Adolf Hitler in “The Great Dictator” (1940), he would now comment on the carnage Hitler provoked and the mass destruction he feared would follow. “Von Clausewitz said that war is the logical extension of diplomacy,” Chaplin told an interviewer. “Verdoux feels that murder is the logical extension of business.” But “Monsieur Verdoux” was also the logical result of Chaplin’s feelings of victimhood, as a celebrity and a man.

ROBERTO ESCOBAR
Il Sole-24 Ore

Un martedì di cento anni fa, il 16 aprile 1889, nasce a Londra Charles Spencer Chaplin, in East Lane, all’angolo di Brandon Street. I genitori sono due cantanti - comincia ora l’età d’oro del music hall inglese -, Chaplin senior e Hannah Hill. Nel passato delle due famiglie, peraltro, si contano senza fine birrai, calzolai, macellai, osti, muratori. Niente dunque che in qualche modo anticipi il genio futuro del piccolo Charlie, a parte forse una bisnonna zingara alla quale "in via ipotetica" si fanno risalire i suoi "lucenti capelli neri e gli splendidi occhi" (David Robinson, Chaplin, Marsilio). Venticinque anni dopo, nel febbraio del 1914, a Edendale - Los Angeles, California - nasce invece Charlot. In un pomeriggio di pioggia, nello spogliatoio maschile della casa di produzione Keystone, Chaplin prende in prestito i pantaloni larghi di Fatty Arbuckle, la minuscola giacchetta di Charles Avery, le scarpe sconfinate di Ford Sterling ("che doveva portare nel piede sbagliato per non perderle"), la bombetta del suocero di Fatty e i baffi destinati a Mack Swain, "ridotti alla dimensione di uno spazzolino da denti". Così vuole la leggenda, anche se Chaplin non l’ha mai confermata (Robinson). Tra le due date, in fondo, a noi oggi pare più importante la seconda: il centenario, dunque, può ben essere l’occasione per celebrare la nascita della maschera del più grande piccolo uomo del cinema, e per festeggiare il non-compleanno del più straordinario dei vagabondi (ricordate il non-compleanno del Cappellaio Matto, nel mondo fantastico di Alice?). Chi era, anzi chi è Charlot? L’"uomo più povero e anche più oscuro del mondo", risponde Francois Truffaut (Il piacere degli occhi, Marsilio). "Per poter mangiare gli capita di essere costretto a rubare a un neonato o a un cane". Poi, quando Chaplin diventa "milionario in dollari", il vagabondo miserabile un po’ alla volta scompare. A morte - suggerisce Bertolt Brecht - lo ha condannato anche il cinema sonoro. E, in sovrappiù, il sottoproletario che era in lui "é caduto vittima del new deal" (Diario di lavoro, Einaudi). Che la sua maschera sia davvero sottoproletaria o non invece piccolo borghese, è una questione tutta opinabile (lo stesso Brecht ha le idee confuse: si vedano gli Scritti sulla letteratura e sull’arte, Einaudi). E in fondo, anche di poco interesse, nonostante gli sforzi pedanti di "sistematizzatori" alla Gyorgy Lukà cs (Charlot avrebbe reso "simbolicamente concreto [...! un atteggiamento tipico [...! dell’uomo della folla, di fronte al capitalismo odierno": Estetica, Einaudi). Suggestiva invece è l’osservazione di Truffaut: Charlot non esita a rubare a un neonato. Ricordate la scena (Il circo, 1925-1927)? Un uomo ha in braccio un bimbo, che guarda alle sue spalle tenendo in mano un dolce. Charlot gli si avvicina in silenzio, affamato, e con un morso gliene divora una metà. Il bimbo sorride: sta al gioco, gli offre il resto. Così, con questo escamotage "commovente", Chaplin chiude un gag iniziato con una cattiveria che sembra non avere il coraggio di sostenere, e che vuole in qualche modo far dimenticare. O non vi pare una mostruosa malvagità derubare un bimbo? Charlot è cattivo: ecco la verità, tanto evidente quanto taciuta, e da lui stesso occultata. è cattivo fin dall’inizio, fin dai primi film. Ce lo conferma anche un grande innamorato del cinema di Chaplin, André Bazin (Che cosa è il cinema?, Garzanti). Charlot è un simulatore astuto e malizioso. Non ha alcun istinto paterno. Prende a calci i suoi avversari non appena è sicuro che questi non glieli possono restituire. "Credere Charlot fondamentalmente buono sarebbe un errore". Anche se a questo errore è Chaplin stesso che spinge il pubblico: il suo personaggio, film dopo film, diventa sempre più "morale", più "simpatico", fino a sembrare la quintessenza della bontà. Tutto ciò, naturalmente, non comporta alcun giudizio negativo sul vagabondo. Al contrario, è proprio la cattiveria che se ne sta acquattata sotto i buoni sentimenti a fondare la sua grandezza come maschera. In qualche modo - forzando un po’ un’intuizione appena accennata da Pier Paolo Pasolini (Descrizioni di descrizioni, Einaudi) -, Charlot è l’opposto della maschera cattiva di Alberto Sordi. In questa, l’uomo "piccolo" manifesta una miseria psicologica che ci appare comica o perché la riteniamo a noi estranea o perché possiamo compatirla. E invece in Charlot l’uomo "piccolo" ci manifesta la sua cattiveria dalla parte opposta. Cioé: ci si mostra con un volto più familiare. La sua miseria psicologica somiglia tanto alla nostra che noi non ne avvertiamo più il peso. E così, mentre ridiamo, ci commuoviamo anche: per la sua, e nostra, apparente bontà. Ne volete una conferma? Pensate a Monsieur Verdoux (1946-1947). Landru-Verdoux - suggerisce ancora Bazin - è l’immagine speculare di Charlot, che in lui vede capovolti tutti i suoi tratti: il vestito approssimativo del vagabondo diventa l’abito inappuntabile del borghese perfetto, il suo disadattamento diventa "iperadattamento", la sua bontà di copertura diventa cattiveria aperta, senza limiti. Naturale, dunque, che ora non ci sia più posto per lui, nella nostra commozione. Verdoux, dunque, viene giustiziato. Ma, ad avviarsi alla ghigliottina, è un piccolo uomo in maniche di camicia, che cammina ondeggiando, proprio come il vagabondo d’un tempo. Chaplin è tanto grande, che ci rivolta contro tutto il nostro moralismo ipocrita. Anche per questo gli diciamo: buon non-compleanno, carissimo Charlot!

GIACOMO DEBENEDETTI

Non è un caso che il cosiddetto «complesso di inferiorità» sia stato scoperto e descritto dal prof. Sigmund Freud, israelita di Vienna. Tutti i moti, tutte le reazioni dell’anima possono diventare materia di poesia: la volontà di potenza come il complesso di inferiorità. Di quest’ultimo Charlot è l’eroe, Chaplin il poeta. Le labbra fini e sottili di Charlot hanno quella dolcezza umana, che è come un raggio sul pianto. Gli occhi riscattano in una luce umida e amica il volto di «quello che prende gli schiaffi». Egli cammina, sì, eretto; ma su piedi divaricati, strascicanti come portassero il peso rinunciatario d’un corpo stanco da secoli. Con quelle labbra si sorride ai sogno, con quegli occhi si accarezza il sogno, con quell’andatura dolente e miserabile si cammina per le trite strade del mondo, quando il sogno s’è spento. È Charlot l’ultimo figlio dei sognatori del ghetto? È, come dicono, un israelita?
In ogni caso, egli porta nella battaglia di sassi una paura – atavica, infusa nel sangue – d’aver la testa di vetro. Da quali avi, per quali vie è giunto fino a lui questo senso d’incubo millenario, questa angoscia della persecuzione radicatasi come terrore degli uomini, dal mondo, della natura medesima? Si direbbe che anche la fortuna, quando lo coglie, sia una manovra del caso e gli crolli addosso come una beffa. Non gli vale la trepida e tenace fede nella giustizia e nella bontà: a scorgerne in concreto i segni, barcolla quasi ricevesse un pugno in pieno petto. Finale del Pellegrino. L’evaso dal carcere che, attraverso tante peripezie, ha cercato li libertà e la redenzione, giunge al palo di confine, oltre il quale gli si schiuderebbero finalmente gli orizzonti sospirati. Ma il suo primo impulso, il più istintivo, è di tornare indietro, di rimettersi nelle mani della giustizia. E lo sceriffo che l’ha portato fino a quella soglia, offrendogli tacitamente l’occasione dello scampo, deve buttano a forza di là dalla frontiera, dove il vento della prateria Io investe in fronte come la grande, vivifica aria della libertà.

PIETRO BIANCHI

Il cinema europeo sarebbe restato per chissà quanto tempo impigliato nei soggetti teatrali, insidiato dagli «esteti scassati», considerato terreno privo di rappresentanti ufficiali di possesso, se la guerra, scoppiata nel fatale luglio del 1914, non avesse, da un lato, chiuso quasi tutti gli «studi» della vecchia Europa e dall'altro incoraggiato gli industriali americani a buttarsi a corpo morto nella produzione cinematografica, restata ormai senza seri concorrenti.
Non è, naturalmente, che gli Stati Uniti fossero fuori dalla produzione, tutt'altro. Gli studiosi della storia del cinema sono riusciti a scovare certe vecchie pellicole dei primi anni del secolo che rivelano già le naturali tendenze della produzione americana: movimento e azione rivolti a contenuti che variano dai banditi delle metropoli ai «desperados» dei film western, senza dimenticare il pezzo d'obbligo, cioè la comica finale. È proprio l'esigenza di accogliere il desiderio appassionato del pubblico delle «comiche finali» che determinò la partenza per gli Stati Uniti di colui che doveva diventare non solo il più grande comico della storia del cinema ma uno dei registi più ispirati e geniali: Charles Spencer Chaplin. Di nascita inglese (1889), di stirpe ebraica, di professione pagliaccio di circo equestre, Carletto Chaplin, che in Europa sarà universalmente apprezzato con il nomignolo di Charlot, venne assunto a Hollywood come comico e dapprima non fu più apprezzato di tutti coloro che erano stati ingaggiati per far ridere la gente con i trucchi più grossolani, le torte in faccia, i capitomboli più grotteschi, gli inseguimenti da perdere il fiato. Vicino ad artisti come Buster Keaton, ad artisti cioè che avevano un loro stile e che possedevano un estro ed una fantasia originali, Charlot si impose con la potenza ineffabile del genio.
Sino al 1921, come si è detto, Carletto Chaplin è un comico come gli altri e che si distingue dagli altri soltanto per una «divisa» diversa: le scarpe enormi, sfondate e divaricate, il bastoncino pieghevole e di un'eleganza grottesca, il tubino e i baffetti minuscoli. Soltanto più tardi i conoscitori avrebbero apprezzato anche nelle primissime pellicole del grande regista uno stile, una facoltà inventiva, un «tempo» comico d'eccezione. Ma tutto questo doveva essere rivelato soltanto quando Chaplin s'arrischiò in un film a lungo metraggio, nel quale le qualità più straordinarie del regista si mostreranno in piena luce e dove apparirà per la prima volta, accanto alle vicende, alle trovate, alle invenzioni nate per far ridere la gente, l'altro lato della complessa personalità chapliniana, il lato patetico, sorretto da una espressione casta, ricca di un'osservazione elegiaca della vita. In The Kid (Il monello) Charlot racconta l'avventura a lieto fine di un vagabondo che raccoglie un lattante abbandonato. Lo tira su con grande amore, sacrificandosi come una vera mamma e ricorrendo alle astuzie più disperate per sfuggire alla polizia, che non ammette che un vagabondo possa allevare come si deve un bambino, e alle signore delle varie leghe di beneficenza. Il monello diventa grande e aiuta il babbo che la fortuna gli ha dato a tirare avanti nella difficile lotta per l'esistenza di ogni giorno; poi si scopre che il bimbo è il figlio di una ricca signora e il vagabondo trova, ricompensa per il suo buon cuore, rifugio nella casa del bimbo che non ha cessato di amarlo. Con l'eccezione della fine, «rosa», imposta evidentemente dalle condizioni esterne, si tratta di un bellissimo film ricco di trovate, di poesia, di intuizioni straordinarie: uno dei pezzi più famosi di Chaplin, il sogno di felicità del vagabondo, con i poliziotti travestiti da angeli che si librano nel cielo malinconico dei sobborghi, è citato come un esempio classico nelle storie del cinema.

FRANçOIS TRUFFAUT

Charlie Chaplin è il più grande cineasta del mondo, ma la sua opera ha rischiato di diventare la più misteriosa della storia del cinema. Di mano in mano che scadevano i diritti di sfruttamento dei suoi film, Chaplin ne proibiva la diffusione essendo già stato scottato, dobbiamo precisarlo, da innumerevoli edizioni pirata e questo fin dagli inizi della sua carriera. Le nuove generazioni di spettatori si trovavano così a conoscere solo per fama film come The kid (Il monello, 1921), The circus (Il circo, 1928), City lights (Luci della città, 1931), The great dictator (Il grande dittatore, 1940), Monsieur Verdoux (id., 1947), Limelight (Luci della ribalta, 1952).
Negli anni che hanno preceduto l’invenzione del sonoro, furono in molti, particolarmente artisti e intellettuali, a guardare con aria di sufficienza e a disprezzare il cinema considerandolo un’attrazione da baraccone o un’arte minore. Non era ammessa che un’eccezione, Charlie Chaplin, e mi rendo conto che ciò non andasse a genio a tutti quelli che conoscevano bene i film di Griffith, di Stroheim, di Keaton. Imperversò il dibattito attorno ai tema: il cinema è un’arte? Ma questa controversia tra due gruppi di intellettuali non interessava il pubblico, che da parte sua non si poneva minimamente il problema. Con il suo entusiasmo, le cui proporzioni sono difficilmente immaginabili oggi – immaginate di estendere al mondo intero il culto di cui è stata oggetto Eva Peron in Argentina –, il pubblico alla fine della prima guerra mondiale faceva di Chaplin l’uomo più popolare del mondo.
Se mi meraviglio di ciò, sessant’anni dopo la prima apparizione di Chaplin sullo schermo, è perché vedo in tutto questo una logica precisa e in questa logica una grande bellezza. Fin dagli inizi il cinema è stato fatto da privilegiati, anche se fino al 1920 non si trattava certo di praticare un’arte. Senza ricorrere allo slogan del maggio 1968 “cinema arte borghese”, vorrei far notare che esiste sempre una grande differenza non solo culturale ma anche biografica tra quelli che i film li fanno e quelli che li guardano.

FERNALDO DI GIAMMATTEO

G.B. Shaw disse: «Charlie Chaplin è l'unico genio che il cinema abbia prodotto». Di fatto, il suo contributo allo sviluppo artistico e culturale del cinema dev'essere ancora valutato sino in fondo. Figlio di un comico alcolizzato e di una madre cantante di varietà, il piccolo Charlie si arrangia sui palcoscenici accanto al fratello Sydney, che gli procura un ingaggio con la compagnia di Fred Karno; con la quale compirà due tournées negli USA. Qui lo nota, in una macchietta di ubriaco, Mack Sennett, che gli apre le porte della Keystone. Così, a poco a poco, si forma il personaggio del «tramp», prima nei 35 short della Keystone, poi nelle prove più complesse presso la Essanay (soprattutto The Tramp, o Charlot vagabondo, 1915) e la Mutual (qui nascono i primi capolavori, di lunghezza e ricchezza maggiori: Charlot usuraio, Charlot al pattinaggio, La cura, Charlot emigrante). Nel 1918, con la First National, offre due esempi di acrobatica precisione comica e di penetrante analisi sociale: Vita da cani e Charlot soldato. Nel 1921- dopo aver fondato nel '19 (con Douglas Fairbanks, Mary Pickford e David W. Griffith) la United Artists - affronta il lungometraggio con Il monello, disavventure di un bambino abbandonato (Jackie Coogan) e di un vetraio generoso: un quadro di vita urbana, di squallore e di buoni sentimenti che i ritmi perfetti della comicità chapliniana fondono in un blocco compatto.

ANDRé BAZIN

un personaggio mitico
Charlot è un personaggio mitico che domina ciascuna delle avventure nelle quali è coinvolto. Charlot esiste per il pubblico prima e dopo La strada della paura o Il pellegrino. Per centinaia di milioni di uomini su questo pianeta, Charlot è un eroe come lo erano per altre civiltà Ulisse o il prode Orlando, con questa differenza, che oggi conosciamo gli eroi antichi attraverso opere letterarie concluse che ne hanno definitivamente fissato le avventure e le trasformazioni, mentre Charlot è sempre libero di entrare in un nuovo film. Chaplin vivo rimane il creatore e il garante del personaggio di Charlot.

Ma cos'è che fa correre Charlot? Ma la continuità é la coerenza dell'esistenza estetica di Charlot non può evidentemente essere colta che attraverso i film che egli abita. Il pubblico lo riconosce dal viso e soprattutto dai baffetti a trapezio e dalla camminata da anatra piuttosto che dall'abito che, neppure qui, fa il monaco. Nel Pellegrino Charlot appare vestito solo da forzato e da clergyman, e in numerose comiche Charlot porta lo smoking o il frac elegante da miliardario. Ma questi contrassegni fisici sarebbero di ben scarsa importanza se non si ritrovassero dapprima e soprattutto le costanti interne e realmente costitutive del personaggio. Queste ultime sono meno facili da definire o da descrivere. Lo si può tentare per esempio partendo dalla sua maniera di reagire a un dato tipo di avvenimento. Così la completa mancanza di testardaggine quando il mondo gli oppone una resistenza troppo grande. Cerca allora di aggirare la .difficoltà invece di risolverla, una soluzione provvisoria gli basta come se l'avvenire non esistesse per lui. Nel Pellegrino, per esempio, blocca un mattarello su una scansia con una bottiglia di latte di cui dovrà servirsi qualche istante più tardi: il mattarello gli cascherà naturalmente in testa. Ma se il provvisorio gli basta sempre, dà prova nell'immediato di un'ingegnosità prodigiosa. Nessuna situazione lo lascia mai disarmato. C'è per lui soluzione a tutto, benché il mondo, più ancora quello degli oggetti che quello degli uomini, non sia fatto per lui.

Charlot e gli oggetti
La funzione utilitaria degli oggetti si riferisce a un ordine umano esso stesso utilitario e previdente per l'avvenire. In questo mondo, il nostro, gli oggetti sono degli utensili più o meno efficienti e diretti verso uno scopo preciso. Ma gli oggetti non servono Charlot come servono noi. Come la società non lo integra mai provvisoriamente che per una sorta di malinteso, così ogni volta che Charlot vuole servirsi di un oggetto secondo il suo modo utilitaristico, cioè sociale, o lo fa con una goffaggine ridicola (in particolare a tavola) o sono gli oggetti stessi a rifiutarsi, al limite, volontariamente. In Giorno di festa la vecchia Ford si ferma ogni volta che apre lo sportello. Nel Nottambulo il letto meccanico fa delle finte per impedirgli di andare a dormire. Nell'Usuraio gli ingranaggi della sveglia che ha appena smontato si mettono ad agitarsi come dei vermiciattoli. Ma, inversamente, gli oggetti che gli si rifiutano proprio lì dove ci si offrono, lo servono anche con molta più facilità, perché ne fa un uso multiforme e domanda loro ogni volta il servizio di cui ha immediatamente bisogno. Il lampione a gas della Strada della paura serve da cappa per asfissiare il terrore del quartiere. Un po' più tardi la padella di ghisa servirà a stordirlo (mentre il manganello, oggetto «funzionale», non era riuscito a dargli che un lieve ronzio alle orecchie). Nell'Evaso un abat-jour trasforma Charlot in lampadario invisibile ai poliziotti. In Un idillio in campagna una camicia serve da tovaglia e le maniche da tovaglioli ecc. Sembra che gli oggetti accettino di aiutare Charlot solo al margine del senso che la società aveva loro assegnato. Il più bell'esempio di questi sfasamenti è la famosa danza dei panini dove la complicità dell'oggetto esplode in una coreografia gratuita.

MARIO SOLDATI

La notte di Natale ho fatto un poker con i miei figli e con i loro amici di Tellaro. Verso le quattro, vinto non nel gioco ma dal sonno, me ne sono andato. Eravamo anche troppi, loro potevano continuare benissimo senza di me. Ho attraversato il giardino per salire in camera mia. La pioggerella che insisteva da tre giorni era cessata. Il mare aveva rinforzato e nel ciclo improvvisamente limpido la luna piena risplendeva altissima. Sveglia tardi, caffè abbondante e, quando ci ritroviamo a tavola verso le 13 e 30, confusione, disordine, un ciondolare ancora sonnolento. Il televisore è acceso con l'audio spento come se così i miei figli, che hanno smesso il poker verso le sei, volessero un po' continuare a dormire. Distrattamente, mia moglie apre l'audio. Un attimo, una frase, sentiamo che lo speaker parla di Chaplin. È morto? Sembra di sì, o forse è solo in fin di vita… Non facciamo in tempo a capire, già lo speaker parla d'altro.
Un altro pasto esagerato, pomeriggio di nuovo a dormire. Quando mi sveglio, riprendo un libro che sto leggendo in questi giorni, Il lungo addio, il penultimo romanzo di Raymond Chandler.
Scendo verso le 20 e 30, giusto in tempo per vedere sul teleschermo Fellini: solo adesso ho davvero la notizia definitiva. Fellini, proprio in quel momento, dice che Il circo è la sua gemma, il suo capolavoro: giudizio che sottoscrivo totalmente. Subito la tv passa ad altro, e noi chiudiamo.

UGO CASIRAGHI

Dieci anni fa, esattamente la notte di Natale del 1977, il cinema si oscurava per la scomparsa di Charlie Chaplin. Si aveva un bel dire che l'uomo era vecchio, assai vecchio, e che la notizia non poteva essere differita ancora per molto. Si aveva un bel ricordare che questo re in esilio e cittadino del mondo, alla fine della sua Autobiografia scritta nella pace del rifugio- svizzero e dedicata a Oona O'Neill, riconosceva di aver goduto venti e più anni di felicità piena al fianco della moglie meravigliosa e contornato da una nidiata di figli, visti crescere in letizia quasi sempre perfetta. Ma l'immagine del cinema in lutto, di una grande luce che si spegneva con la perdita del maggiore dei suoi protagonisti, ci colse egualmente con dolore e con sorpresa. All'eternità di Charlot eravamo, in fondo, troppo abituati.
Con la morte di Charles Spencer Chaplin non soltanto ci lasciava la figura più luminosa della storia del cinema, ma forse l'artista più eccelso, certo il più popolare di questo secolo. Ci lasciava un poeta che era conosciuto in ogni angolo della terra, e dovunque era capito e amato. Magari anche odiato, ma giustizia vuole che lo fosse per le identiche - solo, esattamente opposte - per cui gli voleva tanto bene la stragrande maggioranza degli altri. E quel che lo stesso autore-attore ha definito in quel suo libro, senza la minima presunzione, l'essere stato «al centro dell'affetto del mondo».
Il segreto dell'affetto profondo di cui hanno gratificato Chaplin e, per conseguenza, dell'avversione spasmodica da lui suscitata in una minoranza niente affatto silenziosa, è in sostanza il segreto medesimo della sua comicità e della sua arte. Lo spiegò lui stesso benissimo e una volta per tutte nel 1918, quando la sua lunga e straordinaria carriera era ancora agli inizi ed egli fu intervistato sul perché e sul come riuscisse a far ridere tanta gente. Sarà semplicistico, rispose, ma dato che i nove decimi dell'umanità none poveri, costoro si sentono in qualche modo risarciti se, identificandosi nel mio personaggio, vedono che costui cerca di metter sotto l'altro decimo, i ricchi e potenti.
Vedete? Spiegava amabilmente il giovane Chaplin al giornalista. lo non potrei far cadere un gelato nella schiena d'una massaia. Il pubblico non riderebbe, ma sentirebbe pena e simpatia per lei. E poi, la povera donna non avrebbe nessuna «dignità» da perdere. Ma se il gelato cade nella schiena d'una signora ricca, allora sì che le platee scattano a ridere contente: perché pensano che l'atto è quello giusto, che a quella donna succede quel che si merita.
E così al poliziotto che difende quella ricchezza e quel potere. Si ride quando cade in un mastello di calce o precipita in un tombino d fogna. E al suo posto, si direbbe. Il meccanismo della comicità non è soltanto una questione di ritmo, di psicologia, o dì psicoanalisi. È anche e soprattutto una questione sociale.
Eppure c'è sempre stato, e non manca nemmeno oggi, chi ha tentato e tenta di smentire una verità coli palese. Può darsi, anzi è sicuro, che la polemica sociale non sia in grado di spiegar tutto di Chaplin, ma certo senza di essa non è in grado di spiegare niente. E non si capirà mai perché la comicità di Charlot sia durata e duri più a lungo di quella d'ogni altro personaggio comico del cinema, perché sia sopravvissuta, muta, per oltre un decennio al di là dell'invenzione del parlato: non sì capirà - come in effetti non si è capito - perché, una volta consumato il ciclo storico charlottiano, Chaplin, inesauribile clown invecchiato ma non finito, abbia potuto e saputo trarre dalla manica altre creature vitali, i «doppi» di Charlot che si chiamano Hitler e Monsieur Verdoux, il filosofo Calvero e il graffiante Re-Ombra.

UGO CASIRAGHI

Potrà sembrare strano che rimanga ancora qualcosa da esplorare, e qualche piccolo segreto da scoprire, nei riguardi di una personalità su cui l'opinione comune è convinta che si sia detto tutto. Infatti su Chaplin è stato scritto più che su qualunque altro autore e attore di cinema, e non soltanto saggi critici, biografie e memorie, ma anche poesia. Negli anni Cinquanta, in Italia, una famosa antologia a cura di Glauco Viazzi ordinò per la prima volta quella sterminata letteratura, ma Chaplin stesso, con la sua ultima autobiografia uscita nel 1964, non ha contribuito a diradare certi misteri, più di quanto non avesse fatto con le sue più antiche confessioni. Questioni di dettaglio, d'accordo, che possono trovare spiegazioni sia nelle condizioni d'indigenza dell'infanzia e della fanciullezza, e in quelle di persecuzione della gioventù e della maturità, sia nelle origini di «figlio d'arte» e in un suo orgoglioso riserbo, in un sentimento quasi di rivalsa per un complesso d'inferiorità o di frustrazione patito da bambino.
Perfino la data di nascita è ufficiale ma non sicurissima, almeno per quanto concerne il giorno e forse il mese, e anche sul quartiere esatto di Londra in cui avvenne permangono dubbi, dato che mancano le relative registrazioni, almeno là dove sono state ricercate. Senza venirne a capo si è pure discusso sulle sue ascendenza che per taluni e per l'interessato medesimo sarebbero latine, ma non si sa se francesi o spagnole, senza contare che non si è mai appurato donde venisse quella sua nonna «mezza zingara», la pecora nera, l'«onta» della famiglia Chaplin, che potrebbe essere anche Kaplan. E sulla sua totale o parziale appartenenza alla razza ebraica? Come per gioco, è stata più volte da lui accettata o smentita; ma non fu un gioco quando la affermò di fronte alla stampa a proposito dì un film che stava iniziando, Il grande dittatore.
Scritturato a ventitré anni dalla compagnia di Mack Sennett per interpretare dal 1° gennaio 1914 una serie di 35 «comiche» settimanali, attraverso un duro tirocinio Chaplin riuscì a imporre il costume e il personaggio di Charlot e, a poco a poco, i suoi soggetti, le sue sceneggiature e le sue regia delle comiche sono dagli storici abitualmente divise in quattro periodi, secondo il nome delle case produttrici: Keystone (1914), Essanay (1915), Mutual (1916-17), First National (1917-23). Ma già nel secondo periodo, e più sensibilmente nel terzo, egli seppe organizzare una propria «cittadella» estranea ai traffici, alla politica e alla morale dei trust. Non si accontentava più di girare in serie, come salsicce, avventure buffe nelle quali non poteva immedesimarsi: lavorava con sempre maggiore accuratezza, introducendo nel suo personaggio la caratteristica nota patetica (il primo classico finale di Charlot che s'allontana solo all'orizzonte risale all'aprile del 1915). Insomma, non voleva essere schiavo del pubblico, ma preferiva che il pubblico fosse conquistato dalla sua abilità comica e, insieme, dalle sue convinzioni, dalla sua amarezza, dal suo credo morale e civile. Il suo ideale era di essere completamente indipendente nella giungla di Hollywood. Fedelissimo alla propria troupe e ai propri collaboratori, ci riuscì nel 1919 fondando con altri «grandi» una società, la United Artists (Artisti Associati), mediante la quale potrà negli anni successivi - pur onorando gli ultimi impegni di film brevi con la First Natonal - passare al lungometraggio e, provando e riprovando, con intervalli sempre più lunghi tra film e film, creare in tutta calma i suoi capolavori.

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