Le enciclopedie scriverebbero “Simone Signoret, attrice francese di origine tedesca”, e quasi tutti si stupirebbero dl saperla nata in Germania, con il cognome Kaminker. Lei, Simone, il simbolo al femminile del cinema d’Oltralpe, la più brava e a modo suo la più bella. Diva per carisma e spessore artistico, per magnetismo e talento, non per l’appar(isc)enza. Di religione ebraica, e questo spiega il trasferimento della sua famiglia, rischia di finire dalla padella alla brace durante l’occupazione, che però la coglie già matura, già attrice dal sicuro avvenire. Mentre il padre non più giovane combatte con De Gaulle, lei esordisce con Marcel Carné in L’amore e il diavolo e diventa famosa lavorando con Yves Allégret, che sposa e che le dedica un monumento: Dedée d’Anvers (1947). Storia di una prostituta che adesca marinai perduti sullo sfondo del sordo e cupissimo porto di Anversa. Si innamora di un italiano, lotta con il protettore che non vuole perderla, viene trascinata in una spirale di inaudita violenza, di melodrammatica ferocia. Poi si vendica e torna alla vita di sempre. Dedée-Simone si staglia nella notte come una figura tragica. Fuma, sorride (poco), si atteggia. L’attrice mangia il personaggio e viceversa. È già mitologia. Come per Gabin dieci anni prima: Pépéle-Moko e Dedée d’Anvers, dalla penna dello stesso scrittore, un ex sbirro che si firma Ashelbé.
Donna della mala, della nebbia, come la nostra “belé dei quarto raggio”, la Mimì dei bassifondi di Milano. Simone diventa Dedée è finalmente Maria, altra prostituta, detta Casco d’oro (1952). Maria si innamora di Manda (Serge Reggiani), falegname anarchico, uno non si piega davanti a nessuno, poliziotto o ras del milieu che sia. Travolgente, il loro amore. Ma la sua prova d’amore è un omicida a sangue freddo. E a Casco d’oro non resta che attendere il levarsi tragico dell’alba, e ~ discendere implacabile della ghigliottina sul collo dell’amato. Il film è un trionfo, a
tutt’oggi il più celebre successo dell’attrice, che negli anni ‘5o, in Francia e non solo, diventa star di assoluta grandezza. Nel frattempo, però, ancora prostituta nella Ronde di Max Ophuls, sempre con Reggiani, e popolana parigina che si scopre essere meretrice in Intrighi di donne, del marito Allégret. Nei cinque anni successivi alla Seconda guerra mondiale, mentre il cinema francese pensa in termini di commedia, gioca a fare l’ottimista, spaccia un’idea positiva di società, Simone si dedica caparbia alle figure più notturne, alle donne da opera lirica, tormentate ma sempre fierissime. Nel 1953 veste i panni dell’antieroina di Zola, Teresa Raquin, nell’adattamento di Marcel Carné. È l’epitome della mitologia del fallimento. L’essere umano che pur se determinatissimo nelle proprie emozioni (in questo caso, l’amore fedifrago per il camionista Raf Vallone) non riesce e non può opporsi a un destino che è inevitabilmente tragico. L’anno successivo Simone è l’assassina di I diabolici di Clouzot, campione d’incasso ai botteghini, e un nuovo amore, con Yves Montand, stella internazionale, le permette di cominciare a lavorare anche all’estero. Risultato: l’Oscar. Vinto nel 1959 per La strada dei quartieri alti di Jack Clayton. Hollywood, la fama. Lontano dalla Francia. Simone perde l’occasione per interpretare il personaggio di Manouche che Jean-Pierre Melville aveva scritto per lei nel film Tutte le ore feriscono.., l’ultima uccide.
È l’unico rammarico di una carriera esemplare, perché l’attrice non conosce il declino. Anzi, è a cavallo tra gli anni ‘60 e ‘70 che disegna altre figure memorabili come la vedova Couderc in L’evaso di Granier-Deferre da Simenon, dove è un’attempata signora che salva, e poi ama, l’anarchico Delon perseguitato dai fascisti. E resta indimenticabile il suo duetto con Gabin in Le chat sempre di Oranier-Deferre. La vita, il cinema. gli odi e gli amori di Simone Signoret nella sua biografia dal titolo bellissimo: La nostalgia non è più quella di un tempo.
Da Film Tv, n. 38 settembre 2005