Mosca, 1935. Il primo Festival cinematografico sovietico, il «Kinofestivalia», raduna ogni sera i massimi registi russi, i maestri del periodo eroico. Eisenstein è il più tormentato. Sotto l'altissima fronte, sormontata da un ciuffo arruffato, il suo sguardo s'infossa, sembra a ogni istante adirarsi; e se parla ha qualche scatto di precipitose parole, seguite da un corrucciato silenzio. Dovcenko, invece, il più giovane, è assorto, quasi trasognato; il suo volto roseo, poco più che trentenne, rischiarato da uno sguardo dolce, s'incornicia di una chioma ad aureola, soffice e candida, quasi da albino. Mentre Pudovkin è la certezza fatta persona, tutto in lui esprime una sicurezza un po' altera e un po' lieta, che non ammette il minimo dubbio.
Alto, ossuto, due occhietti nerissimi e lucenti sotto una fronte sbozzata da un duro legno, il naso vorrebbe puntare all'insù, ma è ricondotto verso le labbra sottili, guardate dagli zigomi un po' mongoli. Parla martellando le sillabe, in un francese un po' lento, metallico. Quando il suo pensiero ancora non gli pare evidente, china il capo, preme la palma di una mano contro la palma dell'altra, come due esatti strumenti che debbano coincidere; fin quando, con un, secco «C'est ça», si raddrizza di scatto, e stabilisce, enuncia. È stato anzitutto un uomo di tecnica, un ingegnere; e dalla fabbricazione della pellicola è giunto a infervorarsi di cinema, al quale ha dato alcuni film che resteranno, e fra questi un capolavoro, La madre. Soggettista, sceneggiatore, tecnico, regista, attore, teorico, il suo nome è giustamente celebre in tutto il mondo; e se ne sta in quest'angolo con le mani dietro la schiena, il capo eretto, lo sguardo fisso dinanzi a sé, come un ingegnere può stare per qualche minuto all'ingresso del suo stabilimento, mentre entrano i suoi operai.
I suoi principi sul montaggio sono ormai fondamentali, da due mesi è uscito il suo volume sull'interpretazione, per l'anno venturo sarà tradotto in inglese e in giapponese: Assurdo studiare un film - mi dice - e poi prendere attori, anche bravissimi, e cominciare senz'altro. Gli attori sono strumenti nelle mani del regista; ma devo no prima essere, come dire, c'est ça, perfettamente accordati. Se il regista non è un ottimo accordatore ben difficilmente sarà un regista. Lei sa che mi piace dire: tradurre un film. Tradurlo dal soggetto, in pellicola. Ebbene, prima di tradurre un film, faccio subire ai miei attori due, tre mesi di prove. Ma non con frammenti, episodi del film. Con i personaggi. Sono due strade molto diverse. Il film, di quei personaggi, sarà una sintesi in una determinata vicenda e in determinati ambienti; ma come quegli stessi personaggi reagirebbero in altre circostanze, in altre vicende? L'attore non deve ciecamente ubbidire a un regista-padrone più o meno nevrastenico; deve invece esattamente sapere «chi» ha da vivere. Il personaggio deve ossessionarlo, non è possibile creare sullo schermo un personaggio vitale senza, c'est ça, aver appreso a odiarlo e ad amarlo, con ogni energia. È soltanto allora, che si può cominciare. Io facevo già così, per conto mio, quando ero attore. E poi, in fretta. Il film è maturo. Bisogna coglierlo. Non è più il tempo di scrivere la sinfonia; siamo in orchestra, bisogna farla eseguire.
Così lo ricordo, così mi pare ancora di ascoltarlo. Aveva allora quarantadue anni, era nel massimo suo vigore. In quei giorni era assai fiero, l'illustre tovarisc-maestro era stato appena insignito dell'ordine di Lenin, la rossa stella gli sbocciava all'occhiello. E ora è morto, a sessant'anni, dopo aver vissuto, lui sempre così sicuro, qualche ora di dubbio, forse di sconforto. (Non molto tempo fa, in seguito a una spietata autocritica, si era indotto a rinnegare alcune delle sue predilette teorie). Ma probabilmente, in questi ultimi mesi, aveva potuto sentire attorno a sé come una nuova atmosfera, quasi una diversa comprensione. Con lui scompare una delle massime figure che il cinema abbia avuto, una delle pochissime alle quali debba di essere un'arte.
(1953)
Da Film visti. Dai Lumière al Cinerama, Edizioni di Bianco e Nero, Roma, 1957