Essere black può diventare una colpa? Sì, se si vive in una delle zone più apertamente razziste e classiste degli Stati Uniti. Online su MYmovies ONE il film di Reinaldo Marcus Green con John David Washington, vincitore del Premio Speciale della Giuria al Sundance Film Festival. GUARDA ORA IL FILM »
di Luigi Coluccio
Reinaldo Marcus Green, sceneggiatore e regista di Monsters and Men, ha preso per il suo esordio nel lungometraggio quello che conosceva e l’ha solo spostato un po’ di lato: come Manny anche lui è nato e cresciuto oltre il fiume, non Bed-Stuy ma Staten Island; come Dennis anche lui ha avuto un amico poliziotto con cui si è trovato a discutere sulla violenza delle forze ordine, non era nero ma bianco; come Zyrick anche lui da ragazzo giocava a baseball e aspettava la chiamata della grande squadra, non scegliendo le proteste ma l’insegnamento.
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Pezzi di vita che ha smontato, rimontato e piazzato sul grande schermo, un po’ come ha fatto con il suo corto Stop, scelto al Sundance nel 2015 e di cui questo Monsters and Men ne è la sentita e parziale rielaborazione. Quel lavoro lì mostrava l’ansia soffocante di un giovane ragazzo afroamericano fermato dalla polizia mentre tornava a casa dagli allenamenti, ma, soprattutto, è stata la genesi quasi etica del successivo film: dopo la premiere al Sundance, Green e un suo amico di infanzia, bianco e poliziotto – presente anche nel corto –, si fermano a discutere fino alle 2 di notte dell’omicidio di Eric Garner, soffocato a morte nel 2014 durante il suo arresto. Green afferma che nessuno può morire in quel modo, l’amico che nessuno sa cosa vuol dire uscire in strada ogni giorno.
Sei mesi dopo Green si mette a scrivere, riecheggiando in lui i ricordi di quando veniva fermato da solo o con il fratello e ronzando in testa le parole dell’amico poliziotto. Si guarda e si riguarda Amores Perros e Come un tuono, imbarca come produttore esecutivo Oren Moverman, sceglie alcuni dei migliori attori in rampa di lancio per il suo affresco da borough (lui che è mezzo afroamericano e mezzo latinos).
E Monsters and Men funziona, viene presentato alla Festa del Cinema di Roma, vince il premio speciale della giuria per la miglior opera prima al Sundance e permette a Green negli anni successivi di continuare a lavorare sui temi del razzismo e della violenza sistemici negli Usa (Joe Bell, Una famiglia vincente – King Richard e la serie We Own This City).
Tutto succede a Brooklyn: Manny è un giovane disoccupato che vive con la madre, la compagna e la figlia, Dennis è un poliziotto di colore che di giorno pattuglia quelle strade e la sera torna a casa dalla famiglia, Zyrick è un liceale con il sogno americano del baseball e che abita da solo con il padre. Una sera Darius, afroamericano che vende manciate di sigarette illegali davanti a un negozio, viene ucciso dalla polizia durante un arresto mentre Manny filma il tutto con il suo telefono. Da lì si innesca la spirale di odio e dolore che inghiotte l’intera comunità, con Manny pressato dai poliziotti per non testimoniare, Dennis schiacciato tra l’uniforme e il colore della sua pelle e Zyrick attratto più dalle proteste di strada che dal diamante di baseball...
Citato come uno dei film che compongono il Black Lives Matter Cinematic Universe (qualunque cosa voglia dire, anche se sappiamo benissimo l’intenzione che ne sta dietro), Monsters and Men esce nel 2018 di Black Panther, Green Book, Spider-Man – Un nuovo universo, Sorry to Bother You, BlacKkKlansman e Monster (questi ultimi due con John David Washington e Kelvin Harrison Jr., guarda caso protagonisti anche del film di Green), annus mirabilis che ha portato al centro del dibattito la rappresentazione degli afroamericani, chi la detiene e come viene sviluppata.
Monsters and Men ne è perfettamente consapevole, traslando la triarchia di storie nel duopolio del titolo, cercando di vedere assieme il sistema e le vittime di quel sistema, chi soffre perché schiacciato e chi si tormenta perché vuole fare la cosa giusta, cosa si perde e cosa si vince in una società profondamente razzista e classista.
Grazie ad una direzione degli attori – e ad una centralità di questi – che ricorda le sfuriate di Sidney Lumet, l’esordio di Green è sì felpato ma sincero, integro, una sorta di amara lettera d’amore a quei luoghi e quelle genti, come a citare i Beastie Boys: “Brooklyn, Bronx, Queens and Staten / From the Battery to the top of Manhattan / Asian, Middle-Eastern and Latin / Black, White, New York you make it happen”.
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