martedì 16 febbraio 2021 - mymovieslive
Dalle 20:00 di venerdì 19 febbraio, fino alla fine del mese, sarà possibile accomodarsi virtualmente in un palco del Teatro San Carlo per ascoltare una delle sinfonie più celebri di Franz Schubert, la sinfonia n.9 in Do maggiore D944, detta La Grande. Con l’orchestra del Teatro San Carlo, diretta da Maurizio Agostini.
È, questo, il terzo appuntamento della stagione in streaming del San Carlo, dopo due eventi dedicati alla lirica e al balletto, ancora disponibili fino alla fine del mese: Il pirata di Bellini con il soprano Sondra Radvanovsky e il balletto da Le quattro stagioni di Vivaldi, con coreografia di Giuseppe Picone e costumi di Giusi Giustino.
Siamo a Vienna, nel 1825. Franz Schubert, il figlio del maestro di scuola del villaggio di Lichtental, alle porte di Vienna, aveva già scritto un’infinità di pagine di musica. Quartetti per archi, sonate per pianoforte, Lieder – oltre seicento – e sinfonie. Enfant prodige, precocissimo nell’imparare a suonare il violino e il pianoforte, Schubert aveva già lasciato di stucco il suo maestro Antonio Salieri – sì, proprio quello del film Amadeus: ma forse non era come il film lo dipinge. Schubert sembrava avere una frenesia, una fretta di comporre: come se sentisse di dover morire presto, destino toccato peraltro a nove dei suoi fratelli.
A ventotto anni, nel 1825, compose la sua ultima sinfonia, la Nona. Della quale, come vedremo, non potrà ascoltare una sola nota. Schubert la scrisse in estate, quando fu ospite in montagna, fra Gmunden e Gastein, dall’amico drammaturgo Eduard von Bauernfeld. La tonalità principale era in Do maggiore, così come la sua Sesta sinfonia: perciò, la Sesta – che durava appena mezz’ora – fu chiamata La Piccola, e la Nona diventò, per sempre, La Grande.
Erano “piccole”, le altre sinfonie, ed era piccolo lui, Schubert. Le prime sei sinfonie le aveva scritte fra i sedici e i ventun anni: più che altro, stava esercitandosi, nella difficile tecnica della scrittura orchestrale. Era già adulto nel creare musica da camera, e nel comporre i suoi Lieder: ma nel genere sinfonico, è La Grande la sua opera della maturità. Insieme alla Sinfonia in Si minore, chiamata “L’incompiuta”, del 1822, l’altro capolavoro sinfonico di Schubert, riscoperta solo nel 1867.
Colpisce, nella “Grande”, la forza del tema iniziale, affidato alla sonorità remota, misteriosa, boscosa dei corni. Un tema continuamente riproposto, variato, sviluppato. Colpisce la dolente intensità del secondo movimento, l’Andante con moto in La minore. E colpisce lo slancio del finale, in forma di sonata.
Non tutto fu semplice, nella genesi di quest’opera. Schubert la compose nel 1825, ma il manoscritto finale della partitura reca la data 1828. Ed è in quell’anno che Schubert la propose all’orchestra della Gesellschaft der Musikfreude, la società degli “amici della musica”, nata tredici anni prima a Vienna. La stessa società che aveva rifiutato di accoglierlo fra i suoi membri, come musicista professionista, nel 1818, rifiuto che certamente frenò la sua vita professionale. Sarebbe stata, quella, la prima delle sinfonie di Schubert ad avere un’esecuzione pubblica e ufficiale. Furono effettuate delle prove, ma l’orchestra, alla fine, rifiutò l’incarico, trovando quel lavoro troppo complesso.
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Sarebbero scomparse per sempre, quelle pagine di musica, se non le avesse ritrovate dieci anni dopo, nel 1838, Robert Schumann, in una montagna di carte accatastate in casa di Ferdinand, uno dei fratelli di Franz Schubert, presso cui il compositore alloggiò negli ultimi mesi di vita. Il 19 novembre 1828, Franz Schubert moriva, a trentun anni soltanto.
Grazie a Schumann, la partitura della “Grande” riemerge. La sua prima esecuzione fu un evento memorabile nella storia della musica: avvenne l’anno dopo, il 21 marzo 1839, a Lipsia, con l’orchestra del Gewandhaus, sotto la direzione di Felix Mendelssohn Bartholdy. Il pubblico era ammirato, entusiasta.
Fu Schumann, più di tutti, ad infiammare gli entusiasmi per la sinfonia, dedicandole nel 1840 un articolo entusiastico sulla “Neue Zeitschrift fur Musik”, nel quale parlava di “completa indipendenza da Beethoven” e di “divina misura”. Schumann mise in rilievo, nella sua recensione, la novità del mondo poetico di Schubert, la connessione e l’organicità dell’insieme, l’importanza della pulsione ritmica. In una parola: il fatto di costituire, per lo spettatore, un’esperienza totale. “Qui c’è la vita in tutte le sue fibre”, scrive Schumann. “C’è significato dappertutto. Questa Sinfonia ha agito su di noi come nessuna ancora, dopo quella di Beethoven”.
E in effetti, La Grande era – da una parte – il desiderio di costruire un monumento musicale come quelli di Beethoven – fra l’altro, nel finale della sinfonia di Schubert compare un’esplicita citazione dell’ “Inno alla gioia”. Ma in qualche modo, andava oltre Beethoven.
Beethoven costruisce delle enormi architetture musicali dove tutto è logico, razionale, conseguente; Schubert costruisce digressioni, percorre strade secondarie, è come se si fermasse a guardare, ad ascoltare altre voci, altri misteri imprevisti, come se scoprisse spazi nuovi man mano che va avanti. Come uno che cammina aspettandosi, ad ogni passo, la meraviglia. Ogni microtema si espande, si ripete, si trasforma, si allontana dal centro come onde in uno stagno. La sinfonia di Schubert non è l’espressione di una ferrea volontà: è l’espressione di uno sguardo aperto all’ignoto, all’imprevisto.
Ed è ancora piena di imprevisti la strada della sinfonia. Nonostante gli entusiasmi di Schumann, a Londra nel 1842 e a Parigi nel 1844, le orchestre si rifiutano di eseguirla, per l’eccessiva lunghezza e difficoltà. Nonostante che fosse proprio Mendelssohn a proporle, con tutta la forza del suo carisma. Non andò meglio neanche a Vienna, dove i Filarmonici eseguirono nel 1839 i primi due movimenti, infilandoci in mezzo un’aria della “Lucia di Lammermoor”. In una delle recensioni viennesi si legge “Questa sinfonia è una schermaglia di strumenti da cui non emerge un disegno efficace”.
Nel Novecento La Grande è stata invece eseguita più volte, sotto la direzione dei più grandi: da Arturo Toscanini a Herbert von Karakjan, da Riccardo Muti a Wolfgang Sawallisch, da Claudio Abbado a Lorin Maazel.
Il direttore d’orchestra dell’esecuzione del San Carlo, Maurizio Agostini, è nato a Firenze nel 1978. Si è diplomato in pianoforte, col massimo dei voti, presso il conservatorio Luigi Cherubini di Firenze. Ha studiato direzione d’orchestra con il maestro Carlo Maria Giulini presso l’Accademia Chigiana di Siena. È stato pianista accompagnatore per Andrea Bocelli e per Katia Ricciarelli.
Da vent’anni, Agostini collabora con il Teatro San Carlo di Napoli, per il quale ha diretto numerose opere di Puccini, Rossini, Mascagni, Verdi, e un concerto lirico-sinfonico in occasione della visita a Napoli del presidente della Repubblica Sergio Mattarella. È autore di una “Messa di requiem in memoria di Giovanni Paolo II”.
La durata della sinfonia è di circa un’ora. In gran parte delle esecuzioni, i direttori d’orchestra “tagliano” alcuni dei sei ritornelli indicati in partitura, portando la durata dell’esecuzione intorno ai 45 minuti. Quattro sono i movimenti: Andante in Do maggiore, Andante con moto in La minore, Scherzo in Do maggiore con modulazione in Mi maggiore per il Trio, infine Allegro vivace in Do maggiore.