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Le mille vite di Chantal Ughi, dalle passerelle al ring

Incontro con il regista Simone Manetti, al suo primo lungometraggio documentario con Ciao amore vado a combattere. Al cinema.
di Olivia Fanfani

Chantal Ughi . Interpreta Se stessa nel film di Simone Manetti Ciao Amore, Vado a Combattere.
martedì 2 maggio 2017 - Incontri

Un ritratto intimo e doloroso che ripercorre i trascorsi di un'ex modella e attrice passata dal debutto cinematografico con Peter Del Monte, Giuseppe Piccioni e Fulvio Ottaviano, alla New York underground della cultura musicale, per approdare ai ring thailandesi dei campionati di Muay Thai. Chantal parla all'occhio distaccato di Manetti mantenendo sempre alta la guardia, attraverso le immagini amatoriali dei suoi anni newyorkesi, i vecchi filmini di famiglia e lo sguardo schivo con cui confessa uno struggente senso di modesta inadeguatezza. Ciao amore, vado a combattere è uno squarcio intimo e insondabile che traduce in immagini un sentimento difficile da esternare se non attraverso la gestualità tesa del corpo. Emergono gli strascichi di un amore per l'uomo sbagliato, ossessionato dal vortice di alcol e droghe. I demoni antichi di un padre autoritario e una profonda volontà di riscatto che più volte ha rischiato di affogare Chantal nel desiderio capillare d'accettazione.

In linea di massima ho resistito. Accettare un ambiente [tradizionalmente riservato ai soli uomini, nda] come quello della Muay Thai è stato propedeutico nel mio percorso personale, in quanto sapevo di avere una missione da compiere.
Chantal Ughi

Un bagaglio ricco che serve ad imparare a gestire la sensibilità schiva di chi ha scelto di ripartire da sé per guadagnare in termini di stabilità emotiva. Negazione che diviene forza e motore pulsante per rimettersi in gioco, accettare sempre nuove e più difficili sfide. Un'evoluzione spirituale necessaria al superamento di aride relazioni affettive. Avvalendosi di precetti buddisti e tatuaggi cambogiani di origine khmer, Chantal ha alzato la guardia prima di tutto per proteggersi in ogni ambito dell'esistenza. Una tigre, anzi due, a simboleggiare "la donna che sono e quella che a mano a mano cerco di diventare".


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Un'immagine dal film
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Alla base del tuo documentario c'è la volontà di raccontare le mille vite di una donna, Chantal, che da ex modella e attrice, decide di reinventarsi andando a vivere in Thailandia per diventare lottatrice di Muay Thai. Come ti sei avvicinato all'idea per raccontare la sua storia?
 Nella storia di Chantal mi sono imbattuto per un caso fortuito. Stavo girando un cortometraggio in Cambogia [New Family, foto-documentario breve su due prostitute cambogiane] quando un'amica giornalista mi raccontò una storia molto curiosa su questa ex-modella milanese, diventata campionessa mondiale di Muay Tai in Thailandia. Decisi di contattarla immediatamente, sperando di varcare il confine tra i due paesi a bordo di un bus notturno per andarla a trovare. Erano un paio di mesi che ero in viaggio, stavo cercando delle storie, avevo trovato quella delle prostitute, però sentivo che era arrivato il momento di dar vita a un nuovo progetto. Purtroppo al tempo - per fortuna col senno di poi - Chantal era tornata in Italia a causa di un infortunio e fu impossibile raggiungerla. Tornato a Roma, continuava a ronzarmi in testa la sua storia, così ho cominciato a chiederle informazioni, se aveva qualche filmato o qualcosa a cui potessi aggrapparmi per cominciare il mio lavoro. Fu a quel punto che lei decise di inviarmi i suoi diari, scritti in quattro lingue - frasi in inglese alternate a parole in francese e italiano, qualcosa in tailandese. Ne ho parlato subito con il mio produttore, Alfredo Covelli, che ha dimostrato a sua volta un grande interesse per questa stramba storia. L'occasione si è poi presentata un giorno di maggio, quando Chantal mi ha chiamato e mi ha detto che quell'estate sarebbe tornata e combattere al compleanno della regina, per conquistare il quinto titolo mondiale. Un mese dopo, insieme a una troupe ridottissima, eravamo in tre - un po' armata brancaleone [ride nda] - mi trovavo nei campi di allenamento di Muay Tai alla periferia di Bangkok.

Un'impresa nata per caso testimonia la volontà di raccontare il percorso di Chantal dentro e fuori dal ring. Potresti definire il tuo un film di genere?
In realtà credo che il film non sia un vero e proprio film sportivo. Mi piace pensare il documentario come un film d'osservazione puro, dove ho tentato d'indagare la sofferenza per riflettere sulle reazioni alla base di decisioni drastiche, e non certo per dare adito a facili pietismi. Abbiamo preso a pretesto narrativo il presente di Chantal (che già di per sé aveva una struttura un po' da epopea in stile Rocky) per raccontare da dove nascevano i demoni contro i quali lei avrebbe voluto - e dovuto - lottare. La campionessa che dopo un anno di fermo torna in Thailandia per riconquistare il titolo si è dimostrata una linea narrativa utile per un continuo gioco di rimandi avanti e indietro nel tempo, per raccontare cosa si nascondeva dietro le sue scelte.

Un'indagine che va oltre la disciplina per indagare le ferite dell'animo: l'inadeguatezza con cui la protagonista vive la propria sensibilità. In che modo ti sei avvicinato a Chantal per riuscire a sondare senza morbosità un universo così intimo?
In maniera molto graduale, cercando di capire bene chi fosse, ho iniziato a intuire che dietro la seppur bella storia di facciata della modella che abbandona le passerelle e i locali newyorkesi per andare sul ring, c'era qualcosa di più intenso e soprattutto doloroso da raccontare. Totalmente rapito dal suo sguardo struggente e schivo, non riuscivo a carpirne gli stati d'animo. Abbiamo girato per due mesi, stando con lei più tempo possibile, fino a quindici ore al giorno. Forse in maniera un po' sadica ho preteso che né io né la troupe facessimo sentire a Chantal una sorta di vicinanza emotiva. Il documentario aveva bisogno di raccontare soprattutto quello che lei aveva passato o che avrebbe passato se noi non ci fossimo stati, e cioè la storia di una donna - occidentale all'estero - sola con se stessa e le sue fragilità. Un approccio duro, per cui mi sono autoimposto una certa distanza. Il rapporto con lei ne risentiva, però ero cosciente che, se fossimo diventati suoi amici, qualsiasi reazione sarebbe stata falsata da questa nuova amicizia.

Come siete riusciti a raggiungere un tale grado di profondità, qual è il processo creativo che vi ha guidati prima e durante le riprese?  D'accordo con Alfredo Covelli, ho cercato la modalità di narrazione migliore per sviluppare un prodotto che rispettasse la personalità della donna prima ancora di raccontare la campionessa. Niente canovaccio, tutto veniva improvvisato, tant'è che nessuno sapeva che direzione avrebbe preso il documentario. Io avevo ben chiaro cosa avrei voluto raccontare, che è quello che dissi a Chantal fin dai nostri primi contatti. In tutta onestà la informai che avrei voluto fare un film su di lei, non per celebrare la campionessa e i suoi risultati sportivi [all'epoca contava già 4 titoli mondiali, nda], ma piuttosto sulle sue debolezze, da cui è sempre riuscita a trarre la forza e la caparbietà per rinnovarsi. Capire perché o come ha cercato di curare le ferite del cuore attraverso il procurarsene di fisiche. Più visibili, ma non per forza più reali. 


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Il regista Simone Manetti
Un'immagine dal film
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Per inserirsi in un contesto così selettivo, per non dire sacrale, come quello della preparazione dei fighters tailandesi avete incontrato delle difficoltà a far accettare la vostra presenza? 
Quello dell'accettazione non è mai stato un problema. Gli atleti dovevano fare i conti con noi come fossimo stati delle mosche, altrimenti si sarebbero dovuti imporre per impedirci di girare. La diffidenza riguardava solo il primo e il secondo giorno che arrivavamo sul posto, per via della novità. Normalmente in questi primi giorni parlavamo molto con le persone che incontravamo, a macchine spente, così da abituarci gli uni agli altri. Una volta poi passato questo primo momento d'imbarazzo, i fighters erano molto concentrati sugli allenamenti e spesso si dimenticavano della nostra presenza.

Penso al momento in cui il suo allenatore la informa dell'esito delle selezioni per la competizione, la scena appare così strutturata da richiamare il meglio del cinema di finzione. Sia per quanto riguarda i suoi compagni che per quanto riguarda lei, a parlare è un'inquadratura che capta nel silenzio la frustrazione di uno sguardo che non conosce rassegnazione. È stata pura casualità o c'era qualcosa che facesse presagire la notizia?
C'è stato un momento in cui tutti abbiamo pensato che fosse finita.  Stavamo registrando il dialogo con un'altra atleta, non c'era assolutamente nessun sentore di quello che sarebbe successo di lì a breve. Era già un mese che stavamo girando, ma in quel momento non ho avuto la lucidità di dire e pensare che sarebbe potuta essere una svolta centrale per il film. il pensiero è andato al fatto che fossimo lì per l'incontro, il resto è stata una conseguenza. 

La tua è una carriera che alterna spesso la fotografia e il montaggio (ricordiamo la candidatura nel 2010 ai Nastri D'argento per La prima cosa bella di Virzì). Cosa ti ha spinto a cimentarti con la regia?
Sono sempre stato molto curioso. Ho incontrato questa storia, ho voluto raccontarla in una forma diversa dalla sola fotografia e lì è nato un po' un processo che mi ha poi portato a girare questo film. Non sono mai stato una persona che ama fare programmi o prendere decisioni impostate su schemi ben delineati, mi piace alternare. Quello della regia e del viaggio è un ambiente che mi da modo di staccare dai ritiri in sala montaggio. Allo stesso tempo non ho nessuna intenzione di lasciare l'attività di montatore perché anche quello è, a mio avviso, un processo creativo da cui è impossibile prescindere. Sento la necessità di viaggiare per rigenerarmi a livello creativo. Non posso pensarmi a fare solo una cosa perché credo che, influenzandosi a vicenda, poi tutte ne guadagnino. 

La decisione d'inserire la testimonianza dei genitori di Chantal è stata una scelta in itinere, o si è presentato fin dal principio come elemento imprescindibile del passato per capire la combattente del presente?
  La volontà era quella di astenersi da qualsiasi tipo di giudizio. L'idea era più semplicemente quella di tentare di dare tutti gli elementi perché ognuno potesse leggere la donna dietro la campionessa. Ci sembrava un atto dovuto per non fare un film di parte - o meglio - coscientemente di parte. Mi son basato più che altro sulle mie curiosità personali, i genitori di Chantal volevo incontrarli per capire. Siamo andati a Milano, informando anche loro in parte quello che indagava il documentario e le cose che erano state dette da Chantal durante le riprese. Un incontro in cui cambia completamente il contesto, si cambia mondo. Dalla Tailandia voliamo a Milano, dai Camp di Muay Tai a una casa alto-borghese per non dar una lettura a senso unico di quello che è l'esperire di una persona.  Sono rimasto affascinato da come una stessa realtà sia difficilmente inequivocabile. Da come possa essere vissuta in migliaia di modi diversi e di come anche a distanza di anni si possa mentire a noi stessi o autoassolversi. Con un impianto più classico, quasi da intervista, si chiude un cerchio di cui siamo sicuri dell'esistenza, che allo stesso tempo lascia spazio  a un vissuto di cui nessuno ha prove inconfutabili. Non ne esiste una lettura oggettiva. 


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