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Il cinema al lavoro

Si chiude la 68. Mostra del cinema di Venezia.
di Marzia Gandolfi

In foto il regista russo Alexander Sokurov abbraccia Marco Müller durante la premiazione.
Aleksandr Sokurov Altri nomi: (Alexander Sokurov ) (72 anni) 14 giugno 1951, Podorvikha (Russia) - Gemelli. Regista del film Faust.

domenica 11 settembre 2011 - News

In tempi di blackout e di crisi della cultura della luce ci è piaciuto chiuderci dieci giorni nelle sale del Lido e aprire gli occhi davanti allo schermo bianco e abbagliante di un cinema finalmente al lavoro contro il "deserto del reale". Contro la tendenza radicalizzata del nostro Paese, dove ormai si producono film solo in funzione della tv, e contro l'esercito dei custodi del (cattivo) gusto, che non vogliono mai dispiacere nessuno e che non produrrebbero mai un film come Shame, storia di un giovane uomo dipendente dal sesso e da un abuso, come Himizu, educazione di un adolescente parricida nel Giappone collassato dallo tsunami, o Killer Joe, con la sua Cenerentola in short invaghita di un principe nero. Il festival di Marco Müller, giunto alla sua ultima edizione e direzione artistica, ha prodotto una messe di fotogrammi sovversivi che hanno scosso e sedotto, ritrovando alla Mostra il senso. Nel buio delle sale, che obliava le polemiche festivaliere, i fanatismi, l'ego cinefilo, la supponenza critica, le code interminabili, i posti esauriti, i gorilla e le 'maschere' veneziane, la sessantottesima edizione della Mostra d'Arte Cinematografica ha funzionato e il Leone ha ruggito. A partire da quello assegnato all'esemplare carriera di Marco Bellocchio, che al Lido ha presentato la versione 'accorciata' di Nel nome del padre, ardente requisitoria sul potere datata 1971, così splendidamente aggressiva, invasata e lirica da fare impallidire il cinema italiano fuori e dentro i concorsi ufficiali. Dopo otto anni, Müller si congeda e regala ai giornalisti, al pubblico e ai dreamers delle prime file un'edizione indimenticabile, che recupera la forza del racconto e quella del linguaggio. Un repertorio di immagini che traboccano esuberanza, rischio, urgenza, necessità, rabbia, ironia, conflittualità, dissenso. Un cinema che ci ha segnato, offeso, colpito, cambiato. Ci auguriamo adesso che questi film arrivino sul mercato e trovino un pubblico disponibile a lasciarsi ridefinire dal loro sguardo. Quello bianco di Abel Ferrara, che accecante apre e chiude il suo 'ultimo giorno sulla terra' (4:44 Last Days on Earth), la cui bianchezza (cor)risponde al nero mare di Blackout e lo coglie nel venir meno del mondo e nel mondo. Quello esibito sulla 'vergogna' di Steve McQueen, che riconferma Michael Fassbender e lo mette al servizio della sua riflessione sulle addiction. Un corpo, quello dell'attore, che si consuma e dispiega lungo un percorso disperante, in un procedere senza direzione e in cerca di qualcosa che non si dice, non si conosce, non si trova. Quello azzurro e salato di Emanuele Crialese, il più intenso e importante dei film italiani, che merita il Premio speciale della Giuria per il suo Terraferma, dove il mare non è più materia di sogno ma un groviglio di istinto di fuga e pulsione di resistenza. Quello alieno e mai allineato di Aleksandr Sokurov che vede cose invisibili, esibisce la tragicità del 'super-uomo' e incrocia lo sguardo solidale della giuria 'condotta' da Darren Aronofsky.
Giuria educata e sofisticata che consegna il Leone d'oro al suo Faust, superba riflessione sul potere, la sua vanità e la sua terribile leggerezza, già avviata con Moloch, Taurus e Il sole. E ancora lo sguardo 'a sorpresa' del cinese Cai Shang Jun, Leone d'argento per la sua 'gente di monte e di mare' (Ren Shan Ren Hai) che pratica la vendetta e prova a sopravvivere nella Cina in preda a uno sconvolgimento epocale, che l'ha condotta allo scioglimento traumatico dei legami familiari e sociali, al venir meno della solidarietà, allo smarrimento delle radici culturali della tradizione, all'alienazione della vita per abbracciare il rito del consenso e delle merci. Quello (ancora cinese) di Deanie Ip, superba e garbata interprete di A Simple Life, premiata con la Coppa Volpi per la sua vecchia e composta signora, che emana energia e sentimento da un corpo stanco e affondato nell'umanesimo cinematografico di Ann Hui. Infine lo sguardo in loop di Todd Solondz, quello fisico e visivo di David Cronenberg, quello esibizionista di William Friedkin che trasforma il film di genere in arte maggiore, quello sfumato di Tomas Alfredson, quello irrequieto di Andrea Arnold, quello incantato di Marjane Satrapi, quello cerebrale di Philippe Garrel, quello ingannevole e coercitivo di Roman Polanski. Sguardi di luce che si impiantano nel cuore a indicare da che parte (com)batte il cinema. Il cinema del 'tempo' compiuto e magnificamente concluso di Marco Müller.

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