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Il solitario: Spaghetti-Gangster

Sotto l'egida dei fratelli Manetti, prosegue il tour nelle sale di un noir che recupera le regole del genere all'italiana.
di Edoardo Becattini

Un poliziottesco senza poliziotti

mercoledì 13 maggio 2009 - Incontri

Un poliziottesco senza poliziotti
Dopo lo spaghetti-western e prima del "decamerotico", il grande (sotto)genere popolare all'italiana degli anni Settanta è stato il poliziottesco. Del primo ha senza dubbio ereditato la propensione all'enfasi e la caratterizzazione di personaggi fuori dalla legge ma dentro all'etica manichea buono/cattivo; del secondo ha invece in qualche modo prefigurato l'aspetto grottesco e l'estetica trash. Il recupero critico avviato dal cinema di Tarantino e da una componenti di studiosi più attenti all'apparato sociologico hanno col tempo rivalutato questi vari filoni, sdoganando nomi di registi che per lungo tempo erano stati considerati solo indegni emulatori di Damiano Damiani e Elio Petri, come quelli di Fernando Di Leo, Umberto Lenzi e Enzo G. Castellari.
La riabilitazione critica non ha tuttavia finora trovato un'eguale spinta dal punto di vista produttivo, ad eccezione di qualche indiretta filiazione rintracciabile nei serial televisivi sui vari "distretti", oppure della meticolosa operazione di recupero ad opera dei Manetti Bros. Oggi proprio i due padri putativi de L'ispettore Coliandro si impegnano a fare promozione ad un film orgogliosamente di genere come Il solitario. Girato in digitale a basso costo fra le città di Parma, Bologna e Roma, Il solitario è un poliziottesco senza poliziotti ma con molti criminali, e che proprio in questo senso, guarda anche ai noir di Melville o al western urbano di Walter Hill e William Friedkin. È più la sua estetica basata sullo zoom violento e il fermo immagine ad inserirlo nel particolare filone del genere all'italiana. Quello è il nome del suo protagonista, il criminale braccato dalla malavita Leo Piazza, sintesi dei cognomi di uno dei registi più amati del genere (Di Leo) e di quello di Gastone Moschin in Milano Calibro 9 (Ugo Piazza).
Come è nata l'idea del film?
Francesco Campanini: Il film nasce da una passione viscerale per i noir alla Melville e il poliziottesco di genere alla Fernando Di Leo, quindi dal tema ricorrente del personaggio solo contro il mondo. È un'idea che il film condivide anche nella sua natura di produzione indipendente, lontana dall'estetica delle major e del mainstream, e che ci vede protagonisti di questa distribuzione "in tour" che dopo aver accompagnato il film nelle sale di Parma e poi in quelle di Bologna, si sta adesso progressivamente muovendo verso tutto il territorio, prima della uscita del dvd prevista per novembre.
Luca Magri: Oltre ad essere il protagonista sono anche sceneggiatore del film, che ho scritto assieme a Lucrezia Le Moli. L'intesa con Francesco Campanini è nata diversi anni fa proprio da una passione condivisa per il cinema di genere soprattutto degli anni Settanta. Nel progetto iniziale, c'era infatti l'idea di ambientare il film negli anni Ottanta e dargli un look simile a film come Vivere e morire a Los Angeles. Poi però, ci siamo resi conto che fra costumi e ambientazioni ci sarebbe venuto a costare troppo, perciò abbiamo deciso di collocare il tempo del film in un passato non troppo in là con gli anni, come il 1999.
Francesco Siciliano: Fare un film è sempre e comunque un'avventura, ma realizzare un film indipendente lo è ancora di più. È un'avventura produttiva e organizzativa che richiede dei veri e propri salti mortali e la capacità di affrontare difficoltà di ogni tipo. D'altronde anche organizzare un incontro fra amici sa essere molto problematico a volte...
Massimo Vanni: Da parte mia sono molto contento di aver partecipato alla realizzazione di un film come questo. Inizialmente ero stato coinvolto solo nel ruolo di maestro d'armi, poi invece mi è stato affidato un ruolo più complesso e sfaccettato come quello di Moriero, l'unico vero amico del protagonista. È stata davvero una magnifica esperienza per me che non recitavo ormai da molto tempo in produzioni di questo tipo.
Come si è sviluppata la produzione del film?
F. Campanini: Ci abbiamo messo un anno e mezzo a realizzare il film, scegliendo il Noir In Festival di Courmayer come punto di partenza. Il budget è stato piuttosto ingente per una produzione di questo tipo: circa 200.000 euro, il che ha richiesto un grosso contributo da parte di tutti e la necessità di girare anche nelle case di amici, come l'appartamento al quartiere Pigneto dove si rifugia il protagonista Leo Piazza. Per me poi si può considerare un'avventura nell'avventura, in quanto mi sono infortunato poco prima dell'inizio delle riprese e ciò ha causato dei notevoli ritardi dei giorni di produzione che sono riuscito a sopperire soprattutto grazie all'intervento di Luca Magri.

Perché le grandi produzioni non investono nelle pellicole di genere?
F. Siciliano: Perché ci vuole molto coraggio a realizzare un film di genere ai giorni nostri, e purtroppo il coraggio manca. E' vero che è diventato un genere molto popolare negli ultimi anni anche in Italia grazie alla riscoperta di certi vecchi film del passato, ma riguarda ancora un mercato di nicchia, un po' come i dischi in vinile per l'appassionato di musica. Altra cosa poi è il prodotto televisivo, che molto spesso tende a riprendere temi del cinema di genere ma ad annacquarne o a edulcorarne l'essenza stessa, lo spirito con cui erano nate.
Da attori, come avete lavorato sui vostri personaggi?
L. Magri: Per affrontare la mia parte mi sono rivisto tutti i film con protagonista Alain Delon. Nei suoi film basta uno sguardo, un'espressione particolare del viso a esprimere tutte le possibile sensazioni. E' un tipo di recitazione se vogliamo antitetica rispetto al cinema italiano di oggi, dove tutti i personaggi tendono piuttosto a riempire di parole lo schermo.
F. Siciliano: Io mi sono invece rifatto ad un semplice maschera del film di genere, che è quella dei "cattivoni" dei film noir, che sono spesso personaggi senza alcuna psicologia. Alla totale assenza di psicologia del personaggio ho reagito con una psicologia "citata", fatta di archetipi e di citazioni dai vari cattivi dei film, quelli che agiscono sempre in maniera caricata, sopra le righe.
M. Vanni: Il mio è più semplicemente il classico personaggio crepuscolare. Già dalla camminata lo si può riconoscere come il perdente che conosce già il suo destino e che non ha paura di andarvi incontro.
Cosa significa fare un film indipendente e di genere al giorno d'oggi?
Marco Manetti: Io e mio fratello abbiamo deciso di contribuire alla promozione del film perché crediamo molto al tipo di percorso che film come Il solitario tentano di tracciare. Prima di tutto perché oggi l'autoproduzione che tenta in qualche modo di affrancarsi dal sistema vigente a Roma è fondamentale per una sopravvivenza del cinema, in quanto la logica delle grosse produzioni risponde a dei costi troppo elevati per quello che il cinema può oggi permettersi.
Secondo, e questo ci riguarda più da vicino, perché noi stessi promuoviamo una rinascita o comunque un rinnovato sviluppo del cinema di genere in Italia, e soprattutto per quel cinema di genere senza compromessi, che crede molto nella sua matrice popolare lontana da ogni facile realismo. Il cinema di genere non va pensato come l'antitesi del film d'autore, è piuttosto una filosofia produttiva che crede molto nell'idea di artigianalità del prodotto e nella solidarietà fra le persone che vi sono coinvolte, lontano dalle piccole invidie e schermaglie che minano il cinema italiano di oggi. E' un qualcosa che è molto vicino come idea al concetto di "factory" realizzato da Roger Corman, solo che preferisco pensarlo come un gruppo di amici più che come ad una fabbrica.

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