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Storia 'poconormale' del cinema: il grande cinema del Nord (2^ parte)

Una rilettura non convenzionale della storia del cinema secondo Farinotti.
di Pino Farinotti

Lutero

venerdì 20 marzo 2009 - Focus

Lutero
Dies irae, il film di Carl Theodor Dreyer, è perfetto a rappresentare quasi tutte le estetiche, le poetiche e i codici di un cinema, quello del Nord, che si pone in una posizione di vertice che trascende lo stesso concetto di cinema per assestarsi su altri livelli. La comprensione di Dies irae è la comprensione di un movimento. Nella puntata precedente ero arrivato al paragrafo "espressionismo".
Col luteranesimo, così fisicamente, "famigliarmente" presente, persino oppressivo, Dreyer deve dunque confrontarsi. Una dottrina che separa con tanto rigore il potere spirituale da quello temporale, che indica il privilegio assoluto di coloro che appartengono alla chiesa e vivono nella fede autentica, viene intesa dal regista come una disperata discriminazione. Un sentimento che Dreyer trasferisce nelle opere, soprattutto in Dies irae, e che viene rappresentato come ribellione all'intolleranza di quella fede che si trasforma in chiesa e produce dogmi per delegare la felicità a un al di là misterioso e tenebroso, forse giusto ma certamente non solidale. Il regista rileva la volontà, magari disperata, dell'uomo, di riaffermare la propria individualità e anche la speranza, come mezzo per ottenere libertà ed emancipazione, seppure attraverso sofferenze anche estreme. Un testimone che successivamente passò a un altro grande nordico, Bergman, figlio di un pastore protestante, che rappresentò nelle sue opere la stessa angoscia e lo stesso mistero, non accettandoli ma cercando di esorcizzarli e di combatterli. Il cavaliere Antonius Block, nel Settimo sigillo, giocando a scacchi con la morte, sa che sarà destinato a perdere, ma ritardando, salverà le vite di una famiglia innocente.

Regia e produzione
Pittura è una parola chiave dello stile di Dreyer, intesa anche in senso stretto. La storia del cinema presenta una serie di film che hanno abbondantemente attinto all'arte figurativa che, ben metabolizzata, può rappresentare un valore aggiunto estetico molto prezioso. C'è anche una legittimazione forte, viene da Jean Luc Godard, secondo il quale Lumière potrebbe essere considerato non solo il primo cineasta ma anche l'ultimo pittore impressionista. Qualche citazione: il lavoro di Kubrick sui pittori inglesi, e non solo, per Barry Lyndon, richiami di colori e di luci precisi e capillari a seconda delle esigenze: Tristam Shandy, Gainsborough e Reynolds per la natura e i costumi, il tedesco Menzel per le luci delle candele; i modelli pittorici di Visconti in Senso, dove "riprese" Signorini per la borghesia elegante, Fattori per le battaglie e i soldati, Hayez per il bacio fra la contessa Serpieri e il tenente Mahler; lo "studio" sui maggiori impressionisti, da Manet a Monet, Renoir, Utrillo, cui si applicò lo svedese Bo Widerberg in Elvira Madigan: la pittura sacra rinascimentale che ha ispirato Stevens nel suo La più grande storia mai raccontata, su Gesù; il tributo di Jean Renoir al padre Auguste in Una gita in campagna, l'opera incompiuta (1934) che certamente Dreyer conosceva.

La fotografia pittorica Il regista diede un compito non semplice al suo direttore della fotografia Carl Andersson. Gli disse: "Voglio che il film abbia esattamente le immagini del suo tempo, nell'architettura, nelle facce e nei costumi. E voglio che le luci, e le ombre, non solo accompagnino i personaggi nel chiaro o nello scuro, ma esaltino i loro sentimenti, l'infelicità, il dolore, l'amore, l'infedeltà, la menzogna, la mistica, la paura e il terrore." Andersson era uno svedese di Stoccolma con un background singolare, raro. Dopo aver lavorato come operatore nel suo paese, trasferitosi in Danimarca, negli anni trenta si era specializzato in shorts pubblicitari. Nulla dunque di più diverso dall'estetica di un Dreyer, ma l'operatore aveva anche una profonda cultura pittorica, insomma era titolare di un mix che poteva produrre un risultato particolare. Alle indicazioni di Dreyer rispose con un nome: "Rembrandt". Dreyer ci aveva già pensato, ma aveva dei dubbi. Disse: "... è un olandese, un fiammingo". Andersson ribatté: "mi scusi maestro ma io conosco i suoi film, capolavori certo, ma mi permetta, un po' cupi. Se prendiamo un pittore della zona baltica il pubblico si deprime troppo. Rembrandt non è un meridionale, come olandese ci mette una luce solo un po' più forte della nostra, e poi molti dei suoi dipinti sono proprio vicini agli anni del nostro racconto, terzo e quarto decennio del milleseicento." Dreyer si convinse. Cominciarono a lavorare. Studiando l'opera del pittore prendevano appunti. Dopo molta dialettica selezionarono tre quadri: La lezione di anatomia del dottor Tulp, Ritratto di Cornelius Anslo e di sua moglie Altje Schouten e I sindaci dei drappieri. I quadri si trovavano rispettivamente in musei dell'Aja, di Berlino e di Amsterdam."Dovremmo vederli dal vivo" disse l'operatore. "Credi che non mi piacerebbe" rispose il maestro "ma il budget è ristretto, ci ho messo dieci anni a raccoglierlo, dovremo accontentarci delle riproduzioni. E poi c'è la guerra."

Scenografia e costumi
Scenografia e costumi, occorre una scelta appropriata, professionisti che abbiano quel tipo di cultura. Il direttore intende privilegiare confronto e dibattito, dunque assume artisti in coppia: Fribert e Aes per la scenografia, e Sandt Jensen e Thomsen per i costumi. Tutti sanno che quel segmento è decisivo. Sono consci di partecipare a qualcosa che farà storia. E l'impegno è assoluto. C'è da rappresentare il tribunale che giudicherà la strega. Lavorano sui volti: i modelli di Rembrandt hanno tutti, rigorosamente, la barba, indossano abiti neri, per fortuna portano gorgiere e colletti bianchi a contrastare. E molti hanno il cappello. Dreyer rinuncia a qualche barba e ai cappelli. Si studiano le luci, intensità e posizione, e si compone la giuria. Si preparano le inquadrature, con l'ascetico Absalon nel mezzo. Molti fotogrammi saranno semplicemente dei Rembrandt in bianco e nero.

La scelta pittorica degli attori
La scelta degli attori, in un certo senso è una scelta "pittorica". Modelli che si devono inserire nei vari contesti. Al pastore Absalon spetta un'immagine dura e ascetica, un disegno statico da giudice senza dubbi e al centro di tutto. Caratteri che vengono rinvenuti nel sessantottenne Anders Torkild Roose, un attore di teatro con alle spalle un bagaglio articolato e prestigioso. Nel 1901, a ventisette anni ebbe il suo primo piccolo ruolo, tre anni dopo era uno dei nomi di punta dell'Accademia d'arte drammatica del Teatro Reale di Copenhagen. Ed è lì che Roose concentrò gran parte della sua attività di attore e uomo di teatro in generale. Fu insegnante, direttore artistico e regista. Fra i lavori fondamentali della sua gestione va ricordata la rappresentazione de "La danza della morte", di Strindberg. Roose aveva un'impostazione accademica, "cerebrale", con una dizione classica, perfetta. Insomma era Absalon. In cinema, negli anni dieci e venti aveva interpretato ruoli da "antagonista cattivo", come in "Den sorte kansler", di August Blom. La parte del rigido pastore in Dies Irae sarebbe stato il più importante della sua vita. Quello che lo avrebbe consegnato alla storia del cinema.
Anche il ruolo di Anne non è semplice, non basta una bella figura giovane e un'espressione intensa. Ci vuole un volto dietro il quale poter leggere tutte le potenzialità di dolore e ribellione, qualcosa che ha sedimentato a lungo, qualcosa di estremo che può esplodere anche se non esploderà. Dopo una serie di audizioni si arriva a Lisbeth Movin. Il suggerimento viene da Roose, che ha conosciuto l'attrice proprio all'Accademia del Teatro Reale, del quale Lisbeth è già uno dei nomi emergenti. Ha scarsa esperienza di cinema, ma non c'è dubbio che imparerà. Quando comincia le riprese di Dies irae Lisbeth ha venticinque anni. Grazie alla regia di Dreyer, ma soprattutto al proprio talento naturale, fornisce un'interpretazione perfetta. Il registro che le viene imposto è complesso, si tratta di esprimere sentimenti profondissimi dichiarandoli solo in superficie, ma tenendoli dolorosamente compressi. La Movin passa dalla sofferenza immobilizzata per l'incomprensione (e l'inadeguatezza) del marito troppo vecchio, alla paura dettata dall'ostilità della suocera, alla passione "naturale" per il giovane che le squarcia una prospettiva nuova e pericolosa di vita. Nel 1945 sposerà il regista Lau Lauritzen e sarà protagonista in film meno memorabili di Dies irae.

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