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Baz Luhrman: australian wave

Arriva in sala l'onda australiana di Baz Luhrmann, che travolge i cuori e vagheggia gli echi del cinema che c'era una volta.
di Marzia Gandolfi

Sguardi australiani
Nicole Kidman (Nicole Mary Kidman) (56 anni) 20 giugno 1967, Honolulu (Hawaii - USA) - Gemelli. Interpreta Lady Sarah Ashley nel film di Baz Luhrmann Australia.

giovedì 15 gennaio 2009 - Approfondimenti

Sguardi australiani
C'era una volta l'emigrante cinematografico. Con un cappello e una valigia piena di cinema da girare bussava alle porte di Hollywood, dove veniva velocemente globalizzato, trasformando il proprio immaginario nell'immaginario di un popolo che non conosceva, o dove magari resisteva alla corte americana, proseguendo una personale ricerca sull'immagine. C'erano una volta auttori (e attori) australiani "esiliati" da una cinematografia "agli Antipodi" e di passaggio e addestrati alla cultura americana. Gli anni Ottanta fecero parlare di un Australian Wave, che laureò una serie di autori, come Peter Weir e Jane Campion, e di attori, come Mel Gibson e Paul Hogan. L'assenza di un mercato interno autonomo e la comunanza di linguaggio, quello inglese, hanno favorito (e favoriscono ancora) la fuga di attori e registi verso Hollywood. Un processo che ha spesso trasformato il cinema australiano in un'accessibile terra di conquista, minacciandone l'identità e arrivando a considerare i suoi attori e i suoi autori patrimonio a tutti gli effetti di altre cinematografie (Nicole Kidman, Russell Crowe). Se Alberto Sordi, "bello e onesto" emigrava in Australia per sposare una compaesana illibata e l'ammutinato Marlon Brando cercava avventure esotico-libertarie nell'Oceano Pacifico, un'ondata di divi e di sguardi australiani sono approdati in California, suturando l'emorragia dell'invenzione, a partire dal Mel Gibson, eroe superomistico (Mad Max – Oltre la sfera del tuono) convertito a una religiosità neocon (La passione di Cristo, Apocalypto), passando per lo stile cinematografico più calligrafico e di maniera di Jane Campion (Sweetie, Un angelo alla mia tavola, Lezioni di piano, Ritratto di signora), fino a quello "iniziatico" progressista e politicamente corretto di Peter Weir (Picnic ad Hanging Rock, L'attimo fuggente, Master and Commander). Ma il cinema australiano, troppo spesso contaminato o addirittura annullato, com'è accaduto tra il secondo dopo guerra e la New Wave dei Settanta, ha saputo sempre e comunque rinascere dalle proprie ceneri, comprendendo al suo interno sguardi ed approcci diversi e fortunatamente opposti e contrari. Sguardi che hanno di volta in volta raccontato storie di sradicamento, di viaggi lunghissimi ed estremi per raggiungere il paradiso degli aborigeni e la terra promessa dei forzati bianchi prima, dei coloni dopo.

Bazroom
C'era una volta Baz Luhrmann, cinéphile e cineasta dalla fervida immaginazione, cresciuto nel bush australiano, termine intraducibile che indica un luogo fisico, letterario e cinematografico che non assomiglia a nessun altro paesaggio nel mondo. In quello spazio ipertrofico e selvaggio e sotto il grande cielo di Australia, nata come colonia penale e divenuta colonia economica di lingua inglese (ancora) dipendente dalla corona britannica, il regista coltiva, sperimenta e divulga oltre i confini e al di là del mare la sua estetica abbagliante del superfluo e i suoi melodrammi postmoderni e nostalgici. Produttore, allestitore, regista e adattatore melomane e teatrale, Baz Luhrmann esordisce nel 1992 e scende in pista con Ballroom, una gara di ballo e una favola colorata in cui trionfano i sentimenti e le performance acrobatiche. Adattamento della (sua) omonima piéce teatrale del 1987, Ballroom, storia di un "paso doble" osteggiato, contiene già il tema dell'amore che si oppone alle regole possessive del potere (qui i maneggi e le ipocrisie della federazione di ballo), ripreso e ritornante nella sua filmografia esigua ma visionaria. Combinando e zippando tutto il cinema visto e amato, l'autore australiano "ripete" "Romeo e Giulietta", modello di un amore reso impossibile da una forza avversa, mette in scena il Novecento e il cuore spezzato di uno scrittore con Moulin Rouge e, pioniere, riscopre l'Australia e riscrive la sua storia: quella dei mandriani e degli ubriaconi, quella dei bianchi, degli aborigeni e "delle generazioni rubate", quella della solidarietà necessaria tra gli uomini per vincere la follia dell'isolamento.

Traviate, mulini e mandriani
"C'era una volta un ragazzo timido e saggio, si diceva che avesse viaggiato molto lontano, su terra e mare. Un magico giorno mi è passato accanto. Mentre parlavamo di molte cose, di pazzi e di re, mi disse: La cosa più importante che imparerai mai è semplicemente amare ed essere amato". La trama di Moulin Rouge è già tutta nella strofa di Nature Boy, cantata nel film dal Toulouse-Lautrec di John Leguizamo, e introduce nel mondo abbagliante di una traviata Satine e nel cinema fuori misura ma miracolosamente funzionante di Baz Luhrmann. Movimenti di macchina rapidi e avvolgenti invitano lo spettatore e il giovane scrittore bohémien di Ewan McGregor nella Parigi di inizio Novecento e nell'alcova della sensuale Satine, malata di tisi e di (troppo) amore. In una dimensione inattuale, in cui tutta la musica (rock-pop) del Novecento serve a raccontare un'ovvia storia d'amore, il regista installa un canovaccio da melodramma operistico. Dell'opera lirica Moulin Rouge condivide lo scandalo dell'amore estremo e del sentimentalismo esponenziale, le protagoniste femminili del repertorio lirico soprattutto ottocentesco (Tosca, Violetta, Mimì, Butterfly), ingannate e tradite, illuse e spazzate via dalla malattia e dalla spietata realtà dei fatti. Moulin Rouge è allora un pot-pourri luccicante di arte e industria, di sperimentazione e entertainment, vita e morte, parole e canzoni, opera e musical, Hollywood e Bollywood, America, Europa e naturalmente Australia. Il trovarobe teatrale, sette anni dopo lo spettacolare diorama rouge, ha (ri)messo la sua arte e la sua colta esperienza estetica al servizio del suo paese, la terra di Oz in fondo all'arcobaleno. Ha rovistato nel guazzabuglio del suo "cinenovecento" e ha trovato un'eroina e un mulino da rispolverare e mettere di nuovo in scena agli antipodi del mondo, dove gli uomini continuano a sognare sogni assoluti e immensi, dove il compromesso è bandito e la storia è riletta e trasformata alla luce della memoria, dove è quasi spontaneo che il musical (Il mago di Oz) lambisca i territori del melodramma (Via col vento). Ancora e per sempre nell'ignota combinazione del già noto.

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