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Tullio Pinelli: La voce delle immagini

Il grande autore ci parla dei suoi 20 anni con Fellini e dei suoi tanti film, da La Dolce Vita a Amici Miei.
di Giovanni Menicocci

Tullio Pinelli 24 giugno 1908, Torino (Italia) - 7 Marzo 2009, Roma (Italia).
venerdì 10 dicembre 2004 - Incontri

Arrivo in un viale fuori Roma, in una mattina fredda ma di sole. Dopo vari tentativi tra i palazzi, su un campanello leggo: "Avv. Tullio Pinelli". Sara lui?
Mi fa entrare, con occhio vispo e passo celere mi accompagna in una stanza superiore foderata di libri. Su un angolo c'è una scrivania con dietro un'alta poltrona. In mezzo alla stanza c'è un piccolo scrittoio, che prende tutta la scena, più basso. Sopra è posata una macchina da scrivere, con lo spazio libero intorno. Dà proprio l'impressione che sia importante, il centro di un lavoro, come fosse una vera signora.
Ci sediamo uno di fronte all'altro, Pinelli ansioso di ricevere domande e io un po' impreparato di fronte ad una persona che ha scritto così tanti film, da quelli di Fellini a Germi, da Lattuada a Monicelli; alcuni di essi hanno vinto l'Oscar come "La strada", "Le notti di Cabiria", "8 e ½" e "Il giardino dei Finzi Contini".
Eppure avevo preparato una scaletta...


Ho preso da internet l'elenco di tutti i suoi film. Ne ho contati sessantaquattro, è possibile?
Credo che siano di più. Ma ci sono anche gli sceneggiati televisivi?

Sì, forse qualcuno non è stato inserito. Qui riporta che l'ultimo è stato "L'inganno", del 2003. Si tratta di un film per la tv.
"L'inganno"... sì. Però avevo scritto tutta un'altra sceneggiatura. Non ne parliamo perché lì hanno fatto un macello.

Il primo risulta "In cerca di felicità", del 1944. È possibile?
Sì, è possibilissimo. Nel 1944 ero a Roma, sono venuto giù subito dopo la guerra.

Lei è di Torino.
Sì. Ci sono anche altri film che ho scritto in quegli anni. Nel '45 ho sceneggiato anche per Mario Soldati, "Le miserie del signor Travet".

Ah, questo non è inserito.
Poi c'è il film tratto da Puskin, di Mario Camerini, "La figlia del capitano" del 1947. Invece "Le miserie del signor Travet" è tratto dalla commedia piemontese di Vittorio Bersezio (del 1863, N.d.R.), l'ho scritto insieme ad Aldo de Benedetti e Carlo Musso. Tra gli attori c'era Carlo Campanini e un Alberto Sordi giovane, esordiente. Poi dopo la guerra scrissi "Come persi la guerra" per la regia di Carlo Borghesio, con Macario come protagonista, nel '44.

Questi film li ha scritti a Torino o a Roma?
"Le miserie del signor Travet" qui a Roma, anche quello per Camerini. Il film di Borghesio invece l'ho scritto a Torino.

Quindi ha cominciato lì come sceneggiatore?
No, io ho cominciato qui a Roma, nel '41. A quell'epoca la Lux film mi ha fatto il primo contratto, subito dopo che c'era stato il grosso successo di quella mia commedia, "I padri etruschi" che ha avuto un'enorme risonanza. È per il teatro, quando io ho cominciato a scrivere per il cinema aveva già rappresentato cinque o sei commedie (tra cui "'L Sofà d'la Marchesa 'd Mômbarôn", "La pulce d'oro", "I padri etruschi", "Lotta con l'angelo", N.d.R.).

Quindi da Torino è venuto a Roma nel '41.
Sì, anche se dopo siamo tornati in Piemonte, per la guerra. Poi appena finita, il produttore Coletti mi ha richiamato qui per sceneggiare "I padri etruschi" con il titolo "L'adultera", nel '46 con Clara Calamai che ha avuto il primo Nastro d'Argento della sua carriera, e anche l'unico.

Quindi il primo film con Fellini...
Adesso cominciamo, ho tanta roba da raccontare.

"Il miracolo", episodio de "L'amore" del '48?
Sì, ma il film l'ha fatto Rossellini.

Fellini era attore?
Attore e co-sceneggiatore. Io e lui nei primi anni abbiamo fatto coppia di sceneggiatori.

Con Fellini come vi siete conosciuti?
È una storia lunga, se lei ha tempo.
Quando ho cominciato come sceneggiatore avevo alle spalle tutta una vita, venivo da una famiglia borghese, a Torino, con studi classici di legge, alla facoltà di giurisprudenza, ho praticato per dieci anni l'avvocatura militate, da civilista. Intanto scrivevo per il teatro, ho steso quattro o cinque testi prima rappresentati dal Teatro Sperimentale di Firenze poi da Sergio Tofano e Salvo Randone. Avevo riscosso grande successo con "I padri etruschi" qui al Quirino di Roma. Avevo anche ricevuto nel '40-'41 il premio teatrale dell'Accademia d'Italia. Quindi ero già un autore, giovane e promettente... questo lo dico non per raccontare di me ma per rimarcare la stranezza del mio rapporto con Fellini. Cioè quando io ho conosciuto Fellini avevo già alle spalle una grande esperienza di vita, con la frequenza di una scuola di cavalleria, ero ufficiale di cavalleria, avevo ricevuto due richiami di guerra, riportato una ferita che mi aveva condotto in punto di morte ed avevo anche una famiglia con quattro figli. Ero un padre di famiglia. Quindi se io fossi morto allora - per modo di dire - si poteva affermare che avevo avuto una vita piena e anche abbastanza insolita.
A quel punto ho incontrato Fellini. Ebbi una prima richiesta nel '40-'41 dalla Lux Film, sono venuto a Roma con la famiglia, siamo tornati in Piemonte con la guerra e nel '46 Coletti mi ha richiamato; stavo lavorando con lui per "L'adultera" e per altri film quando ho incontrato Fellini. Lui in quel periodo era un ragazzo che aveva alle spalle poche cose, aveva fatto qualcosa con Aldo Fabrizi, per la radio, come bozzettista. Lui aveva tutta la vita davanti, io l'avevo alle spalle. Ciò che è strano è che malgrado esistesse questa differenza per cui a me dicevano: "Cosa ci fai tu con Fellini?" e a lui: "Cosa ci fai tu con Pinelli?", qualcosa ci univa. A parte il fatto esteriore che entrambi lavoravamo per il cinema, era proprio un'affinità elettiva nel vedere la vita ciò che ci accomunava.


Perché?
Il fatto è che lui tendeva, come si vede nel film, più a soluzioni pittoriche, esteriori, fantasiose che a me non andavano più bene. Io cercavo più...

... la storia...
... la sostanza. Anche con Flaiano era già in rottura su quel punto. Così senza nessuna spiegazione ha ripreso un progetto su cui avevamo già lavorato insieme, "Il Casanova". Senza dirmi niente l'ha scritto con Bernardino Zapponi, ha realizzato un buon film comunque discutibile. Poi per venti anni non abbiamo più lavorato insieme; siamo sempre rimasti amici, ci si vedeva, io ho lavorato per Giulietta, ho scritto due serial televisivi che hanno avuto un enorme successo, "Eleonora" su mio soggetto e "Camilla" che era una riduzione di un romanzo della Cialente, "Un inverno freddissimo".
Dopo venti anni, proprio in maniera esatta un mattino io lavoravo nel mio studio, in viale Carso e all'improvviso suonano al campanello. Chi è? È Federico con un copioncino sotto il braccio: "Ciao Tullio", "Ciao Federico" ci siamo detti, come se venti anni non fossero mai passati. Il fatto è dovevamo fare un film in tre episodi per Giulietta; uno degli episodi sapevo che doveva realizzarlo lui sceneggiandolo con Tonino Guerra, il secondo lo avevo quasi concluso di scrivere io per la regia di Luigi Magni e il terzo penso che non l'abbia fatto nessuno. Comunque si era deciso poi - io non ne ero ancora al corrente - di girare un film unico, di trasformare questo primo episodio che lui aveva scritto con Guerra in un unico lungometraggio; quindi il mio episodio cadeva e però Fellini aveva questo copioncino che valeva per una durata di venti minuti di film. "Io non so come fare", disse. "Devo ridurlo, trasformarlo, portarlo ad essere la sceneggiatura di un film di un'ora e un quarto, un'ora e venti". Così mi ha lasciato questo copione, ho visto subito cosa si doveva cambiare, perché la versione di Guerra era una satira della televisione però ciò che mancava era la parte centrale del film, la storia di Ginger e Fred, i due personaggi, la loro vicenda, i loro precedenti, il perché si erano lasciati, come mai si erano ritrovati, che cosa facevano ora. Il giorno dopo Fellini è venuto da me, io gli detto questi particolari, lui ha risposto: "Va benissimo" e ha subito telefonato alla produzione dicendo: "Fategli il contratto" e siamo partiti con questa sceneggiatura di Ginger e Fred alla quale abbiamo lavorato in pieno accordo come se non ci fossimo mai lasciati. Dopo di che...

Siamo nel 1986.
Sì. Dopo "Ginger e Fred " abbiamo continuato a lavorare assieme come prima, come venti anni prima. Abbiamo scritto "Viaggio a Tulun" (il cui soggetto è stato pubblicato nel "Corriere della Sera" nel maggio '86, in cinque puntate, N.d.R.) che poi non è stato realizzato e "La voce della Luna", del '90. Lui si sedeva lì (indica la poltrona) io ero alla macchina da scrivere e abbiamo lavorato così. Già da lì, però non siamo più andati troppo d'accordo.

Perché lui indugiava di più sulla figuratività, sull'immagine piuttosto che la storia?
Sì, sull'immagine. Così lui praticamente ha iniziato la sua strada di regista con me e l'ha conclusa con me. Quindi la nostra è una vicenda molto strana, questo rapporto di due personaggi così diversi anche di età. Lui aveva dodici anni meno di me. Come ho già detto io avevo già realizzato molte cose invece lui cominciava appena. Poi diciotto anni di lavoro in comune sono tanti, poi questa lunga pausa di venti anni per tornare di nuovo a lavorare insieme. Questo particolare mi colpisce sempre perché lo trovo molto strano, importante.


Sembra essere un segno...
... di un'affinità abbastanza curiosa. A parte il fatto che eravamo entrambi nel cinema, ci siamo ritrovati subito perché avevamo lo steso modo di vedere la vita, cioè in funzione di una super vita, del mistero. Non posso parlare di magia perché è una brutta parola ma in sostanza si trattava di quello. Poi c'era un gran divertimento nel vivere, una grande gioia e il grande entusiasmo della scoperta, dell'Italia del dopoguerra. Chi non ha vissuto in quel periodo non se lo immagina, perché si cominciava dal fatto che l'Italia era completamente distrutta, proprio materialmente: le città ridotte in rovine, i ponti crollati, le ferrovie dissestate quindi tutto era da rifare. Poi c'era una forma sociale che nasceva allora perché con il fascismo l'idea sociale era coincidente con il partito nazionale fascista: tutte le iniziative quindi che si creavano nelle regioni erano appassionanti, come fosse un pentolone in ebollizione. Noi correvamo da un posto all'altro a vedere, interrogare, scoprire; siamo andati a Trieste quando era sotto l'amministrazione alleata, quindi ci voleva il passaporto per entrare lì: noi non l'avevamo e siamo entrati in città in un camion tra i sacchi di caffè, nascosti. Siamo andati al Tombolo di Livorno dove c'era quell'enorme campo di rifornimenti dell'esercito americano e dove si trovava di tutto, dalle scarpe ai cappotti alle jeep alla penicillina che allora non esisteva. Quindi lì c'erano continue bande di ladri che la notte d'accordo con le sentinelle americane entravano, portavano via della roba. Anche noi siamo andati con loro. Era tutto molto avventuroso.
Siamo arrivati a Napoli che in quel momento era proprio nelle mani della camorra.... In quel momento! Tanto per cambiare. Però era una camorra apparentemente bonaria. C'era un uomo che si chiamava il re di Poggioreale, che sarebbe il quartiere popolare di Napoli e lui lì comandava, noi l'abbiamo intervistato ed è stato gentilissimo. Allora non c'erano i taxi e addirittura lui ci ha fatto accompagnare all'albergo da un tram, cioè ha fermato un tram e gli ha detto: "Vai là". Il conducente ha deviato e ci ha accompagnato all'albergo. Siamo andati in Germania, a Bonn.

Tutto questo all'inizio della vostra carriera?
Quando facevamo gli sceneggiatori, e tutto ciò ci ha molto uniti perché spesso ci trovavamo in un pericolo e comunque eravamo sempre arrischiati, molto avventurosi. Poi a lui è stata offerta la regia de "Lo sceicco bianco", nel '52, che avrebbe dovuto girare Antonioni: era un soggetto originale di Michelangelo però fu dato a noi da sceneggiare. Ci era piaciuta subito l'ambientazione nel mondo dei fumetti però il soggetto non ci convinceva: allora ci siamo messi a trovare qualcosa, andavamo a lavorare alla casina delle rose a Porta Pinciana, lei forse non sa dov'è. È al principio di Villa Borghese, adesso penso che l'abbiano messa a posto: quello era un posto per la sera però al mattino c'erano tutti i tavolini vuoti. Noi andavamo lì, ci conoscevano e quindi ci sedevamo all'ombra e si lavorava così. Per "Lo sceicco banco" eravamo andati lì, avevamo passato tutto il mattino a guardarci in faccia senza trovare un'idea poi uno dei due ha detto così, all'improvviso: "È una sposa che viene in viaggio di nozze a Roma e scappa per andare a vedere lo sceicco". L'altro, proprio di rimbalzo, non ricordo chi fosse: "Sì, benissimo e tutto si svolge nello stesso giorno, dal mattino alla sera in lotta con la famiglia perbene". Il soggetto era finito; quindi ci siamo alzati, abbiamo bevuto qualcosa e siamo andati a spasso.
Poi da lì ci furono "I vitelloni" nel '53, "La strada" del '54 e poi tutti gli altri ("La voce della Luna", "Ginger e Fred", "Giulietta degli spiriti", "8 e ½", 1963, "Boccaccio '70" episodio "Le tentazioni del dottor Antonio", 1962, "La dolce vita", 1960, "Le notti di Cabiria", 1957, "Il bidone", 1955, "La strada", "Amore in città" episodio "Agenzia matrimoniale", 1953, "I vitelloni", "Lo sceicco bianco" e "Luci del varietà", 1950, N.d.R.). Per "La strada" c'era Flaiano che non voleva occuparsi della sceneggiatura, perché non gli piaceva. La storia del film è tipicamente di Fellini e mia; infatti lì traspare proprio quel senso del soprannaturale che dava molto fastidio invece a Flaiano. Difatti lui lì risulta solo come collaboratore, non come co-autore.

De "La strada" parliamo fra un pochino. Le volevo fare una domanda su "8 e ½": questo film quando lo si vede la prima volta, a chi non è appassionato di cinema appare molto caotico, frammentario. Lei, quando lo scriveva come ha fatto a capire che pur se era così frastagliato non era noioso?
Perché noi ci fidavamo dell'importanza della presa dei singoli episodi, mi fidavo proprio al mille per cento della capacità trasfiguratrice di Fellini. A me non è mai venuto in mente che potesse essere noioso.

Tutti questi personaggi che s'incontrano uno dopo l'altro, prima l'amante Carla, poi il cardinale, poi la moglie Luisa, la ragazza della fonte, quando lei li creava con Fellini capiva che alla fine avrebbero dato vita ad una storia, un racconto?
Sì, era proprio la scoperta di quella Roma, la scoperta della vita e della città da parte di questo giovane, un regista che era smarrito, che aveva perso l'ispirazione, sfiduciato. I veri artisti piombano i questa crisi. Questo era il filo conduttore, queste apparizioni in cui lui cerca di riagganciarsi al lavoro, alla vita soprattutto in quei momenti difficili. Noi siamo andati sicuri in quella strada.

Vi fidavate perché c'era Fellini che lo dirigeva?
Certo. Guardi, i film di Fellini nessun altro avrebbero potuto dirigerli. "La strada" che ha avuto un successo strepitoso, continua ad averlo tuttora: in tutto il mondo sono noti Zampanò e Gelsomina, dappertutto chiedono adattamenti, io ne ho fatto anche uno teatrale...

...con Zapponi.
Con Zapponi. Ha avuto un trionfo ad Atene, al teatro all'aperto, è stato portato in giro in tutta la Spagna, la Grecia. Io ho un volume pieno di richieste di suoi adattamenti teatrali, nostri o di altri. Quindi ha avuto un successo strepitoso, mondiale che dopo cinquant'anni continua a rinverdire.


Sono stato a Rimini, hanno dedicato tre giorni alla Masina: c'è stato il professor Peter Bondanella che ci ha mostrato la pubblicazione del vostro soggetto. Mi pare che in quella versione, in alcuni punti fosse un po' diverso rispetto al film, perché c'era anche una violenza subita da Gelsomina. Mi pare che in quel soggetto lei venisse violentata da Zampanò.
No, forse lei si confonde con l'altro soggetto che abbiamo scritto per Rossellini, che doveva essere interpretato da Anna Magnani: il titolo era "La contessa di Montecristo", la storia di una suonatrice ambulante che era un tipo simile a Zampanò. Il film poi si perse per strada.

Ad esempio voi quando stavate scrivendo questi soggetti, queste sceneggiature come "La strada", "Le notti di Cabiria", "La dolce vita" c'erano tutti questi personaggi che erano un po' sorprendenti, tipo il matto ne "La strada", oppure Cabiria che si s'incontra prima con Amedeo Nazzari che la vuole portare a letto e poi lei va al Divino Amore, oppure Sylvia ne "La dolce vita" che entra nella fontana, la ragazza della fonte in "8 e ½", lei si stava accorgendo che creava dei simboli, che si trattava di personaggi simbolici?
Per noi il simbolo e la realtà erano la stessa cosa, è su quello che io e Fellini ci siamo intesi di fondo. Noi non facevamo affatto distinzione tra le due cose. La realtà per noi era simbolica e il simbolo era la realtà, è questo che ci ha molto uniti. Tutta la vita noi l'abbiamo sempre intesa così. Lui è andato poi verso la magia, si divertiva anche in questo senso: mi ha regalato il libro dei Ching, che lui interrogava spesso. Frequentava il mago Rol a Torino, anche io l'ho conosciuto. Era un mago straordinario, faceva dei trucchi di grande suggestione, aveva dei poteri veramente eccezionali. Con Fellini c'era insomma questa commistione di realtà e super-realtà.

Alla fine quindi tutto i simboli si legano nel film con questo filo, anche se sono dei personaggi un po' stralunati...?
... un po' accentuati: lui aveva la capacità, il dono, il piacere di creare personaggi sopra le righe, in tutti i suoi film, specialmente negli ultimi. Mi riferisco anche all'aspetto fisico. Personaggi così evidenziati che se si vedessero nella realtà apparirebbero non veri o allarmanti. Invece lì sono credibili perché rappresentano all'eccesso qualcosa che hanno dietro. Non so se mi spiego.

Sì, appena appaiono...
Sì, bisogna interpretarli ma sono giusti, non sono scelti così per il gusto del bello, del brutto o dell'eccessivo. Piuttosto perché veramente rappresentano qualcosa di speciale... li puoi interpretare. È stata questa la forza di Fellini, credere nella trasformazione della realtà in fantasia e la fantasia però resta reale, cioè non è sbrigliata come in "Harry Potter", fine a se stessa.

Sì... infatti avevo letto che voleva fare anche l'Orlando Furioso, mi pare.
Sì ne abbiamo parlato tanto.

E poi invece non se n'è fatto più niente?
No, non so perché. Abbiamo parlato anche del Don Chisciotte.

Il Mastorna?
No, io non c'entro niente lì. Me l'ha dato da leggere molto più tardi. Invece "Viaggio a Tulun" è tra il vero e l'immaginario.

Andiamo più sull'attuale. L'ultimo film che ha scritto è "L'inganno".
Sì, per la televisione che però è intitolato in un'altra maniera.

È stato già trasmesso?
Sì, sì. Il titolo poi è cambiato. Era la storia di una modella di enorme successo, anche sentimentale, economico e di pubblicità che lascia tutto e si fa suora. Lì avevo fatto lunghe interviste in conventi, con suore, novizie, sacerdoti per capire bene cosa fosse veramente questa vocazione. Alla fine l'hanno trasformato in una cosa di una banalità assoluta, col tradimento totale di tutto quanto, perché la modella di grande successo è diventata un'attricetta, finiva per farsi suora perché l'ex fidanzato non la voleva sposare quando invece questo è uno dei motivi fondamentali per cui una ragazza non viene mai ammessa in convento; le suore fanno prima un interrogatorio e se emerge che c'è una delusione d'amore alle spalle, non accettano la novizia, la mandano fuori. Invece nel film succede così, si tratta di una versione televisiva nel senso peggiore.

Si sa, la televisione travisa sempre. Poi c'è "La voce della Luna" nel '90 e in mezzo c'è "Di terra e sangue", in francese, del '92: "De terre et sang".
Sì, era un film sui crociati. Era una serie molto grossa in diciotto puntate che poi Clementelli ha venduto ai francesi i quali l'hanno tagliata e ritagliata; non so poi cosa ne sia rimasto. Era una serie sulla fine dei regni crociati.

Questa serie quindi è stata trasmessa in Francia? In Italia no?
Non credo.

Poi c'è "Speriamo che sia femmina" di Mario Monicelli, nell'86.
Sì, poi ho fatti molti altri film. Ce se sono molti di Pietro Germi ("Serafino", 1968, "Le castagne sono buone", 1970, "L'immorale", 1967, "Il brigante di Tacca del Lupo", 1952, "La città si difende", 1951, "Il cammino della speranza", 1950 e "In nome della legge", 1949, N.d.R.); finito di lavorare con Fellini ho scritto per Monicelli ("Amici miei" Amici miei atto II", "Amici miei atto III", 1975-1982-1985, "Il Marchese del Grillo", 1981, "Viaggio con Anita", 1978), Antonio Pietrangeli ("Come, quando, perché", 1969, "Adua e le compagne", 1960), Georg Wilhelm Pabst ("La voce del silenzio", 1953), Alberto Lattuada ("La steppa", 1962, "Il mulino del Po", 1949, "Senza pietà", 1948, "Il bandito", 1946), Valerio Zurlini.


Ad esempio per Vittorio De Sica lei ha scritto solo "Il giardino dei Finzi Contini", del '70; in quel caso il lavoro era più realistico?
Vede, io non ho lavorato direttamente con De Sica. Avevo fatto per Zurlini la versione de "I Finzi Contini": però con Zurlini era così, si lavorava un tempo infinito sulla sceneggiatura e quando era fatta lui non la girava più.

Ecco, almeno...
Come mi è successo per "Al di là del fiume tra gli alberi", dove ho lavorato moltissimo, prima da solo poi con Zurlini. Quando mi hanno detto che arrivava lui come regista - che io stimo moltissimo - ho capito che il film non si sarebbe fatto mai. Comunque ho lavorato anche con lui.

E con Monicelli, per le commedie come "Amici miei"?
I due "Amici miei", "Viaggio con Anita" che era un soggetto mio e di Fellini. Il film lo doveva girare Federico, poi non lo ha più fatto; così l'ha preso Monicelli ed è diventato una cosa del tutto diversa.

Monicelli guarda molto più all'aspetto di attualità comica.
Attualità comica ma non sempre, perché "La grande guerra" non è così. Però lui alla questione ultrasensibile proprio non è interessato. Fellini era molto amico di Germi, perché uno dei primi registi con cui abbiamo lavorato era proprio lui, con "In nome della legge", "Il cammino della speranza", "Il brigante di Tacca del Lupo". Lo stimava molto, lo amava veramente e invece Germi era sempre un po' sospettoso nei confronti di Fellini; lui era estroso invece Germi è con i piedi per terra.

Nell'ultimo film di Fellini, "La voce della Luna" che è tratto da "Il poema dei lunatici" di Ermanno Cavazzoni, ci sono sempre questi simboli però mi sono parsi molto più triviali, come la sagra dello gnocco, i caporioni, la discoteca...
C'erano molte cose dei suoi film precedenti.

Zapponi mi disse che in effetti non amava "La voce della Luna", per lui era come se Fellini avesse vuotato le tasche. A me invece è piaciuto molto.
Io l'avevo visto tutto in un altro modo; io direi che quello era un film stanco, nel senso che Fellini molte cose le aveva già sfruttate in precedenza, come la danza della saraghina, la casa della nonna, tante cose.

Però riusciva a raccontare qualcosa, nonostante tutto.
Era un regista straordinario, eccezionale. Era un genio, è questo aspetto che mi ha attirato. Fin da principio ho capito che lo era. Flaiano lo tollerava meno, perché Fellini aveva le doti e sapeva di possederle però era molto accentratore; per questo motivo ha avuto molte liti con Flaiano e qualche volta anche con me. Però io ho sempre capito che bisognava accettarlo com'era, che questa era la coscienza della sua genialità e quindi lui faceva rientrare tutto in sé. Insomma non gli andava tanto che i suoi collaboratori facessero altre cose; ad esempio Flaiano scriveva ed era noto come scrittore, io ho continuato a scrivere per il teatro mentre lavoravo per lui, ho vinto il premio Riccione nel '51 e poi la commedia è stata tradotta in francese e rappresentata al "La comédie des Champs Elysées" da due grandi attori francesi. Cioè ciascuno di noi aveva la sua strada autonoma e lui ci vedeva come suoi collaboratori: Flaiano aveva reagito molto male a questa cosa fino alla rottura finale. Io ogni tanto brontolavo, glielo dicevo, lui si scusava: "Sono i giornalisti". Comunque siamo sempre stati amici, molto amici.

Alla fine l'importante è questo. Anche se per venti anni non avete lavorato insieme.
Sì, appunto. Io gli sono molto grato perché mi ha dato modo di esprimere al cinema quello che nessun'altro avrebbe permesso di dare. Ho lavorato con tutti in piena coscienza e spero che tutti siano stati contenti. Ma con lui c'era qualcosa in più, il fatto appunto di poter raccontare cose che altrimenti potevo esprimere solo in teatro, quando scrivevo per me. Con lui invece come collaboratore ho avuto modo di tradurre certi miei modi di vedere, anche nei dialoghi. Infatti "La strada" è l'unico caso in tutti i suoi film in cui ha precisato "dialoghi di Tullio Pinelli".

A lei piace molto il dialogo?
Sì, io sono proprio autore di teatro.

Ho letto questo suo testo, la raccolta "Il giardino delle Sfingi".
Sì, ce ne sono tanti altri. Ho pubblicato l'adattamento teatrale de "La strada", ho concluso quello di "Cabiria", perché me lo hanno chiesto in Grecia dopo il successo de "La strada". Io ho cominciato con il teatro, non pensavo affatto di fare il cinema. Per me il teatro era la passione.
 


Quali sono a teatro gli autori che preferisce, come lettore?
Quelli che mi hanno influenzato? Direi Goldoni prima di tutto e quindi anche Molière, poi molto Ibsen e meno Brecht. Brecht lo ammiro, è affascinate ma è molto diverso da me. Poi degli autori attuali Pirandello, in certe cose anche se è un autore che ho tardato a capire. Però andavo sempre alle sue prime, in loggione, a fare il tifo per lui contro la platea. Io ero molto amico di Cesare Pavese, abbiamo scritto diverse cose insieme fino alla sua morte; una delle sue ultime lettere è per me. Poi avevamo fatto insieme questo gruppo di intellettuali, di giovani antifascisti di Torino poi passati alla storia. C'era Norberto Bobbio, c'era Massimo Mila il musicologo, c'era Leone Ginzburg che poi è stato ammazzato. Quindi esisteva un grande fervore giovanile. C'era un altro ragazzo il quale scriveva per il teatro. Ci si riuniva, ciascuno leggeva quello che aveva scritto, io le mie prime commedie, Giulio Carlo Argan leggeva i suoi saggi.

Era un gruppo invidiabile.
Con il professor Monti, nostro insegnante di liceo, antifascista, scrittore che aveva vinto anche il premio Viareggio; era un po' il nostro capo. Di lì poi è venuta la Resistenza.

È una storia avventurosa.
Sì, avventurosa.

Un'ultima cosa. Se si dovesse rintracciare una specie di linea generale di tutti i film che lei ha scritto, sarebbe possibile? È difficile, perché si va dai film commerciali a quelli molto più impegnativi, da quelli che hanno avuto grande successo senza essere dei capolavori, a quelli che hanno avuto molto meno successo essendo però migliori. La carriera dello scrittore è così, a sorpresa.

È difficile fare lo sceneggiatore oggi?
Non lo so, ogni tanto vengono qui dei giovani, sei o sette hanno fatto delle tesi di laurea su di me, li vedo, li conosco. Il cinema di oggi - forse è colpa mia - mi stanca molto, non ci credo più. Anche se i film sono belli, qualcuno riesce a prendermi ma è molto difficile perché forse conosco tutto quello che c'è dietro. Di un attore so il gesto che farà dopo aver detto una frase, cosa pronuncerà dopo una scena, quale sarà quella successiva. Sono un po' previdente, come si dice. E poi forse anche un po' stanco. Adesso scrivo racconti.

Ah, racconti. Almeno è un strumento sintetico.
Sono io, e basta.

Senza nessun intermediario.
Appunto.

L'ultimo film che ha visto qual è stato? Questi di Tarantino, "Kill Bill", li ha visti?
Mi piacciono. Guardi, io non sono di quelli che dicono: "È tutto brutto". Ci sono tanti buoni film e tanti buoni registi. Io li apprezzo, li stimo però forse sono fuori. È lunga, lunga la strada. Mi pare che ho chiacchierato abbastanza.

Spero di non averla stancata. Lei scrive col computer?
Ho un pronipote che sa tutto sul computer ma si lavora molto meglio su quella macchina lì (indica una Olivetti lettera 35).

Il computer è più facile perché se uno sbaglia corregge.
Lo so, però mi dicono anche se si sbaglia una cosa poi viene diversa da quella che si voleva scrivere. Soprattutto io scrivo tutto a mano e poi batto a macchina. Prima a mano, per far capire alla gente.


Me ne vado, ridiscendendo la scala facendo qualche battuta. Gli chiedo il seme dello sceneggiatore, del rapporto con i produttori. Lui risponde: "Quando scrivemmo il soggetto de 'La strada', io e Fellini lo facemmo leggere a un produttore. Andammo da lui dopo un po' di giorni e ci disse che era rimasto colpito da questa storia: 'Ho pianto dall'inizio alla fine' bofonchiò. Allora io pensai: 'Ecco, ora tira fuori il libretto degli assegni'. Lui ci guardò e riprese: 'Ho pianto al pensiero che due persone intelligenti come voi possano aver scritto una stupidaggine del genere".
Me ne vado, da una pare attratto da questo mestiere, dall'altra impaurito. Pinelli mi accompagna alla porta con lo stesso fervore, sull'uscio mi saluta con vivacità e accortezza mentre mi eclisso nell'ascensore.

 


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