Capitolo 45

Telefonai a Irene Castelli. Era il mio primo “incarico”.

<<Alessandro... sei proprio tu?>>.

<<Sì. Ti ho spaventata?>>.

<<Quasi. Ne ho sentite di tutti i colori su di te. Che eri stato male, che eri diventato matto, ricoverato di qua e di là>>.

<<Non sono più matto del solito>>.

<<Hai fatto bene a chiamarmi>>.

<<Vorrei incontrarti>>.

<<Ma certo Alessandro, con molto piacere. Mi inviti fuori?>>. <<Preferirei venire a casa tua>>.

Dopo un paio di secondi di sospensione disse: <<Va bene>>.

Irene era stata sposata due volte, benissimo. Era una donna intelligente e difficile, del tutto unilaterale nel rapporti. Ma lo sapeva anche lei. Diceva: <<Sono figlia unica viziatissima , impossibile sopportarmi>>. Era una Castelli, famiglia di ottimo denaro e prestigio, e i due mariti le avevano prodotto cospicui alimenti e una figlia, Sonia. Sulla figlia, unica a tollerare la madre, Irene aveva investito esclusivamente e totalmente: tutti i sentimenti, tutto il futuro e tutti i rapporti. Quando la bimba morì in un incidente Irene non volle. Controllata a vista per alcuni mesi perché non le accadesse il peggio, decise che sua figlia era sempre viva. Così c’erano ancora gli armadi con i suoi abiti, il posto a tavola preparato, la camera sempre in ordine, e la scrivania piena di libri e quaderni. E gli amichetti venivano ricevuti in casa per quelle che erano state le feste della bambina. Per un po’ gli altri genitori la assecondarono, Irene era una donna in vista, ma al terzo compleanno senza Sonia sottrassero i figli a quel rito quasi macabro. Irene si era persino scoperta un certo talento e aveva modellato con le dita il volto della figlia nella cera. Ed era impressionante, era proprio il volto di Sonia. Ed eseguiva tutto questo con lucidità, totalmente presente alla propria patologia. Diceva: <<Lo faccio per salvarmi>. Molti le avevano parlato. E anch’io. Ma non era davvero possibile far breccia. Ed era alto il rischio di scatenare qualcosa di ancora peggiore.

Non mi sorprese, quando mi aprì la porta, vedere la sofferenza cronica degli occhi grigi. Irene era la stessa degli ultimi due anni, per lei la vita non si evolveva. Sempre bella, però.

Dissi:

<<La tua casa, gradevolissima>>.

<<Sì, per quello che serve>>.

Sedemmo nel suo studiolo, accogliente, colorato.

Chiese:

<<Allora, cosa ti è successo?>>.

<<Per non raccontarti troppi dettagli, noiosi, dirò una parola che può essere comprensiva di tutto. Diciamo esaurimento>>.

<<Sono la persona meno impressionabile da questa parola>>.

<<Già, lo immagino>>.

<<Allora Alessandro, dimmi tutto>>.

Le raccontai, in una sintesi che avrebbe occupato una pagina di scrittura, il mio viaggio in Palestina e la sua genesi. In assoluta scioltezza le dissi che la mia vicenda poteva essere intesa come un’illuminazione oppure come un esaurimento, appunto. E comunque il prodotto non cambiava.

<<Sai che non ti riconosco? Ricordo il tuo atteggiamento ogni volta che uscivano questi argomenti, ai quali io ho sempre prestato attenzione, peraltro. Eri negativo... provocatorio>>.

<<Sì è vero... ma, credimi, adesso ha poca importanza>>.

Cominciò a incuriosirsi, e ad allarmarsi e la ragione naturalmente era semplice, riconduceva tutto alla “sua” vicenda, monovicenda.

<<Cos’ hai da dirmi?>>.

<<Premesso ancora che la fonte ognuno può intenderla come vuole... vale invece il messaggio che mi è stato consegnato per te. È esattamente questo: il posto giusto era la fontana del Ragola>>.

Il suo corpo mi sembrò quello di un fantoccio rimasto senza fili. Irene si afflosciò sul pavimento e feci appena in tempo a proteggerle la nuca.

Si stava riprendendo. Cercavo di farle bere un po’ d’acqua e le avevo colorito le guance con piccoli schiaffi.

Aprì gli occhi e fu quasi subito presente a se stessa. Si alzò e sedette di nuovo. Bevve qualche sorso d’acqua. Il respiro era molto pesante.

<<Puoi ripetere Alessandro?>>.

<<Non sverrai di nuovo, vero?>>.

<<No>>.

Al posto giusto era la fontana del Ragola>>.

Mi strinse un braccio con la piccola mano. Rimase immobile a contrastare l’emozione, e in silenzio. lo ero immobile e in silenzio a mia volta.

Poi disse:

<<Da dove viene questa frase?>>.

<<Te l’ho detto, è... un po’ un mistero, o magari no>>.

<<Te lo svelo io il mistero. Quella frase viene da Sonia. Non può essere che così>>.

<<Certo, viene da Sonia>>.

Si alzò in piedi e si scosse.

<<Scusami Alessandro>> sorrise faticosamente. <<Devo darmi un contegno. Fammi bere qualcosa>>.

Poco dopo sedette di nuovo al mio fianco e disse:

<<Devo raccontarti tutto. Te lo devo ...>>

<<Avanti>>.

<<Il sette febbraio di due anni fa era il primo anniversario della morte di Sonia. Io sono andata a Limonta, sulla curva dove avvenne l’incidente, a portare dei fiori. Era sera, non passava nessuno. Puoi immaginare in che stato fossi. E allora ho pregato mia figlia, le ho detto, Sonia, amore mio, sono qui. Vieni e farti sentire, dammi un segno che sei qui, vicino alla mamma. Rimasi in tensione, in attesa di un segno. Provavo naturalmente un’emozione fortissima, sempre sul filo fra coscienza e incoscienza. A volte ho creduto che quella potente suggestione potesse essere il segno che aspettavo. Sono rimasta lì fino al buio. Un paio d’ore direi, poi me ne sono andata. E comunque non avevo risolto il quesito ...>>.

Ascoltavo, attentissimo.

<<... lo scorso settembre, un gruppo di amici, per distrarmi, mi ha portato nella valle dell’Aveto, fra Emilia e Liguria, a cercare funghi. Dicevano che non c’era valle più ricca di funghi in tutta l’Italia. Ed era anche un posto magnifico. Camminammo ore cercando nel sottobosco e nel prati. Eravamo partiti che albeggiava. Verso l’una ci fermammo in un prato per mangiare. Mi dissero che quel pianoro si chiamava prato Buro, ed era alle falde di un monte roccioso, di nome Ragola, alto quasi milleottocento metri. Gli altri mangiavano e io ero attratta da quell’altura. Dissi che quel monte mi incuriosiva e che vi avrei fatto una breve escursione. Mentre gli altri riposavano mi incamminai. In poco più di mezz’ora, salendo fra sassi, terreno friabile e qualche ginepro, arrivai in cima. Mi accorsi che non era una punta, ma una lunga, sottile cresta con vaste parti di erba bassa e uniforme, ormai più gialla che verde. Camminai lungo il crinale fino a un grande sasso bianco e liscio che segnalava una fonte. Misi una mano nell’acqua gelida e bevvi qualche sorso. Dopo qualche momento mi sentii male. Intesi subito che non era certo per l’acqua troppo fredda, era altro. Una suggestione fortissima che mi faceva girare la testa. Inoltre sentivo le gambe senza forze e nei timpani rimbombavano suoni forti e disordinati. E fra questi suoni mi parve di individuare qualcosa che sembrava “mamma, mamma”. Sai bene che pur nella mia pazzia riesco a mantenere una certa lucidità. La suggestione non mi bastava. Allora sedetti, cercai di calmarmi, aspettai che la frequenza del cuore rallentasse, poi dissi: “Soma, se sei qui fammelo sapere in un modo più chiaro”. Allora sentii di nuovo Il mamma, mamma” libero dal resto del frastuono. “Mamma, mamma”, con grande chiarezza. Prima che tutto finisse, e scomparisse, feci rapidamente la domanda che mi premeva: “Sonia, stai bene?” e subito dopo, sempre con chiarezza sentii: “molto”. Tornando a valle dagli altri mi dicevo che sì, potevo anche aver incontrato mia figlia, ma che poteva anche non essere. E allora pregai di avere un segnale di quell’incontro. Un segnale inequivocabile che mi venisse recapitato entro un anno. Era il diciotto settembre. Oggi>>.

Quando vide i miei occhi lucidi scoppiò a piangere. Mi abbracciò e si strinse a me. Lasciammo che la fase si esaurisse in silenzio. Si asciugò gli occhi con un fazzolettino. Dissi:

<<Sei sicura di non avermi mai raccontato questa storia? Magari solo un particolare, o due ...>>.

<<Ma sei matto? Sono cose che tengo fra me e la mia bambina. Mai e poi mai ne avrei fatto partecipe qualcuno. Nemmeno adesso te l’avrei raccontata se non fosse... che te lo dovevo>>.

Restammo ancora a lungo in silenzio. Poi disse:

<<Mi sembrava impossibile... ed è accaduto. So che Sonia sta bene, che ha un rapporto con me>>.

<<Sì... è così>>.

<<Sta’ tranquillo, non voglio chiederti altro. Dev’essere stata un’esperienza difficile anche per te. E sento che hai ancora tanti problemi da risolvere. Quanto mi hai detto mi è sufficiente>>.

Si alzò.

<<Vieni, che mangiamo qualcosa>>.

<<Mi parli di mangiare?>>.

<<Sforziamoci>>.

Parlammo di niente. L’argomento era volutamente accantonato. Irene se lo custodiva per dopo. Comunque mi sembrò di poter riproporre un discorso azzardato, un tabù delicatissimo.

Arene, spero che questo... sviluppo ti serva per... un’evoluzione, chiamiamola così>>.

Mi guardò con quegli occhi sofferenti da due anni.

<<Un’evoluzione?>>.

<<Riprendi tutto. Ricomincia a fare le cose. Rimettiti sul mercato>>.

Mi rispose con una certa durezza, ma non esagerata.

<<Non mi dici che sono ancora giovane?>>.

<<Ti dico di più: sei bella, e sei uno spreco>>.

Scosse il capo con un infinitesimale sorriso.

<<E non mi dici che anche Sonia ne sarebbe contenta?

<<E come te lo dico! E certamente così>>.

Ancora quegli occhi, ma la sofferenza si era, forse, un pochino contratta.

Ritenni di non aggiungere altro a quell’argomento. Poteva bastare quell’infinitesimale incrinatura del muro.

Salutandomi, sulla porta, Irene disse ancora:

<<Grazie, Alessandro. Questa sera mi hai dato la più bella notizia della mia vita>>.