Capitolo 1

Lo dichiaro senz’altro: non leggo gli oroscopi, le madonne non piangono, non mi evolverò in una farfalla o in un santo. Tuttavia sono anche disposto a credere se qualcuno mi porta delle prove. Almeno indiziarie.

Ma devo fornire un altro dato significativo: la mia vita è normale. Ho avuto un discreto successo professionale, discreto, appunto, ma non ho avuto il grande potere e il grande denaro, non ho cicatrici eroiche da esibire o epiche seduzioni da elencare. Non ho divulgato idee che abbiano prodotto trasformazioni. Però qualche volta ho avuto coraggio, quello vero, quello di un tempo, non il coraggio dei nostri giorni, quando chi affronta a nervi saldi un’ispezione dell’Iva è un guerriero, e chi centra un budget è un eroe.

Racconterò questa storia, anche se ho delle resistenze. E’ assolutamente vera, ma non è certo che sarò creduto. Io forse non presterei fede a chi me la raccontasse. E ci sono momenti in cui fatico a convincere persino me stesso di ciò che è accaduto. Tuttavia il maggio scorso ho toccato una donna che era certamente morta e lei si è alzata con il mal di testa. E una sera, mentre camminavo in città ed ero proprio normale, non visibile, la gente mi si disperdeva intorno come fossi il diavolo. Questi sono solo due dei fatti incriminati, sì, incriminati, che ho vissuto prima dell’incontro che ha cambiato la mia vita – e significherebbe poco o niente – e che potrebbe cambiare la vita di molti.

Intendo entrare immediatamente nel cuore della vicenda, nel suo momento centrale. Più avanti racconterò premesse e preparazione. Lo faccio per alcune ragioni. La prima è la mia impazienza. La seconda è la possibilità che lascio a chi legge di conoscere subito l’argomento ed eventualmente subito abbandonarlo. Un’altra è la comunicazione in medias res ovvero polverone iniziale. È più efficace. Lo so per professione, perché sono un pubblicitario. Lo rivelo chiedendo che non venga considerato una pregiudiziale.

Dunque fra la primavera e l’estate scorse avvennero alcuni episodi particolari che mi portarono a camminare, in pieno agosto, sulla pista che da Gerusalemme conduce a Emmaus.

Sì, Gerusalemme ed Emmaus. Terra Santa.

La strada è lunga dodici chilometri e avanza nel deserto.

Rocce, sabbia, qualche povera casa isolata. Pochissime macchine, qualche vecchia corriera. E poi il sole, un martello incandescente.

Percorrere a piedi quel tratto era semplicemente una delle decisioni sconcertanti che stavo prendendo da alcuni mesi. Ero stanco, disperato, alterato, alla deriva. Ma so adesso che tutto entrava in un disegno, che tutto aveva una ragione. Nella mia vita normale, Emmaus significava soltanto la cena di Gesù in un dipinto del Caravaggio. Adesso sudavo su quella pista, con la mia divisa turistica.

Camminavo da un paio d’ore e mi resi conto di quanto fosse fuori luogo quella mia iniziativa. In condizioni normali non avrei avuto difficoltà a eseguire quell’esercizio fisico, in quel momento la sofferenza era penosa.

Camminavo tenendo la destra. Nel silenzio i miei passi risultavano pesanti e grotteschi. Guardavo la pista diritta e le rocce rosse intorno. Passò una vecchia Citroën azzurra, poi un pullman del dopoguerra, poi uno modernissimo, alto, coi vetri bruniti. Nessun pedone. Mi asciugai il sudore. E camminavo. Chissà cosa c’era a Emmaus. La mia cultura evocava case di terra a un piano, qualche misero venditore di datteri sulla strada e gruppetti di bambini assediati dalle mosche. O magari stavo prendendo un abbaglio immane, e il turismo aveva portato in città i bancomat e l’Hilton.

Fissai lo sguardo su un pratino verde, molto curato, a ridosso della strada, sul lato sinistro: una macchia anomala. Mi guardai ancora intorno e vidi, sempre su quel lato, un pedone dietro di me, a un centinaio di metri. Pensai: “Ecco un altro matto”. Poco dopo mi girai di nuovo. Aveva guadagnato terreno. Camminava deciso e tranquillo, e cominciavo a scorgere i particolari, aveva le mani libere, niente borsa, niente zaino.

Un altro controllo ed eccolo ancora più vicino. Ma chi era? un turista, un pellegrino? Mi parve un religioso, con quell’abito strano, forse un frate. Mantenevo il mio passo e l’uomo si avvicinava. Adesso era a pochi metri e non avevo bisogno di girarmi per vederlo. Poi mi fu al fianco, sulla sinistra, a cinque metri, sempre con il suo passo regolare. Ben presto mi accorsi che non mi superava. Camminavamo paralleli.

Non era un frate.

Indossava una semplice tunica color juta, tenuta da una cintura di corda. Portava sandali. Aveva capelli lunghi . Valutai che fosse alto più o meno come me, gli attribuii trenta, trentacinque anni. Procedeva eretto e fresco. Pensai che in quella zona qualcuno potesse anche vestire In quel modo. Camminammo qualche minuto così, affiancati, come in un gioco di adolescenti. Poi capii, e sorrisi della mia ingenuità. L’uomo doveva far parte del posto e del folklore, e del commercio relativo.

Un masso appena oltre il ciglio mi diede lo spunto per fermarmi, e sedermi. Euomo fece pochi passi poi si fermò a sua volta.

Non so per quale combinazione di memoria, ma ricordai che una decina di anni prima, a Memphis, ero stato abbordato da un Elvis magnifico, corvino e cotonato, perfetto con chitarra, che mi aveva dedicato alcune note di It’s now or never. Gli avevo dato dieci dollari. In quel contesto mi sembrò dunque naturale che l’uomo muovesse verso di me, e del tutto logico che mi dedicasse un sorriso accattivante.

Mi resi conto di come fosse ben organizzato. Era esattamente Gesù. In tenuta sportiva diciamo: forse teneva la divisa da cerimonia, di stoffa più preziosa, rossa e azzurra, quella che l’iconografia tradizionale ci ha trasmesso, per altre occasioni. Gli sorrisi di rimando, anche se con intenzione diversa.

Dissi:

<<Buon giorno>>. Mi alzai in piedi.

<<Buon giorno>> rispose, con ottima pronuncia.

Feci un cenno positivo col capo, come a dire “complimenti”. Poi aggiunsi:

<<Bravissimo, sei davvero perfetto. Sembri proprio lui. La corona di spine ti avrebbe dato un tocco in più. Meriteresti una mancia ma il vostro apparato ha già prosciugato il mio budget per le offerte>>.

Fece un cenno a significare che non ero sulla strada giusta.

<<Ma, ripeto, meriteresti certamente. Grande professionalità davvero>>.

Mi resi conto dell’impatto particolare dell’uomo, non facile da definire: comunque un alto profilo nell’insieme. E registrai un’improvvisa tachicardia.

Parlò.

<<Non sono quello che credi>>.

Annuii.

<<Non vuoi offerte?>>.

<<No>>.

<<Cosa fai, una sorta di performance... sei un attore? >>.

<<Non sono un attore>>.

<<Allora chi sei?>>.

L’uomo esitò appena, e non ebbe nemmeno un piccolo incremento nel tono.

<<Ecco, io sono vero, sono quello vero>>.

<<Sarebbe?>>.

<<Sono Gesù>>.

Gli feci un subitaneo cenno di addio.

<<Senti Gesù, non ho voglia di dibattiti in agosto nel deserto. Vedrai che qualche altro idiota, un pellegrino o un arancione che passeggia lo ritrovi, fra un anno o due. E poi lo dico sempre che gli alieni non esistono>>.

Avrò fatto sei passi ed ecco.

<<Alessandro>>.

Mi fermai, naturalmente, e mi girai.

<<Hai detto?>>.

Mosse verso di me e istintivamente mi ritrassi, in difesa.

<<Ho detto “Alessandro”... ed è vero: gli alieni non esistono>>.

Da bravo cittadino cosmopolita quale mi ritengo ragionai di conseguenza. Esistono sempre ragioni e spiegazioni, e le infinite contrade del mondo ospitano gente più o meno capace di tutto. Arrivando avevo parlato con tante persone, anche in albergo, il mio nome era stato detto e ridetto, bastava tendere le orecchie. Il Gesù si era informato. E adesso faceva la sua bella figura.

<<Conosci il mio nome...>>.

<<Non solo il tuo nome, ti conosco molto bene. Ti ho voluto quì>>.

Lo guardai con molta, molta attenzione. Una bella fronte liscia, capelli castani divisi da una riga diritta e marcata. Occhi nocciola, ma no, castani, ma no, indefinibili. Colore della pelle chiaro. Forse quell’uomo era bello, forse molto bello.

<<Mi hai voluto qui?>>.

<<Lo sai bene Alessandro. Non avresti mai fatto un viaggio del genere se non per circostanze particolari>>.

Annuii. Non ero per niente a mio agio.

<<In effetti le circostanze sono state particolari. Ma non basta per convincermi che sei Dio>>.

<<Sappiamo entrambi che hai vissuto vicende strane, sospette, che non appartengono alla tua cultura. Per il lavoro che fai dovresti essere un esperto di numeri... dovresti saperli leggere. Quante probabilità c’erano che tu passassi illeso sotto quella betoniera?>>.

Lo guardai con diffidenza e anche in allarme, poi, ancora una volta, sorrisi, più a me che a lui. Se fossi stato un personaggio famoso mi sarei guardato in giro in cerca di una telecamera nascosta. Ma c’era comunque la possibilità di uno strepitoso scherzo. Conoscevo qualche pubblicitario che aveva investito tempo e quattrini, magari molti, per una risata in grande stile, una bella risata corale.

Dissi:

È vero, il fatto della betoniera è stato strano... avanti, chi è l’organizzatore, quell’idiota di Palumbo? Lui fa queste fesserie.

<<Sono Gesù>>.

<<Basta. Ciao amico>>.

Questa volta non ebbi nemmeno il tempo per fare un passo. Trovò parole efficaci.

<<Hai perso moglie e figlia per la tua incapacità di dare un minimo di credito agli altri>>.

Girandomi non ero solo allarmato, ero arrabbiato.

<<Chi sei?>>.

<<Ti conosco, so cosa aspettarmi>>.

<<Chi sei?>>.

<<Te l’ ho detto>>.

I nostri occhi erano vicinissimi. Ero io quello debole.

Dissi:

<<Bene. Se sei quello che sostieni di essere dimostramelo, fa’ qualcosa di sensazionale. Fa’ un miracolo>>.

<<Non vorrei>>.

<<Lo credo. Eppure c’era uno scettico nel tuo gruppo, Tommaso. Per crederti voleva mettere le dita nelle tue ferite... ma che scemenze>>.

<<Hai un dolore lì>>.

<<Prego?>>.

Indicò il mio fegato. Sorrisi.

<<Non è così difficile>>.

Allora mi toccò la parte con le punte dell’indice e del medio.

<<Hai ancora dolore?>>.

Non risposi.

<<Il dolore è passato. E non tornerà>>.

<<… ho visto fare anche questo>>.

Non era vero, ma cercavo una ragione. Pensai alla possibilità di aver assunto qualcosa di strano, involontariamente... anfetamine.

<<Non hai assunto niente di strano>>.

Allora ebbi il primo cedimento. Ed ebbi paura.

<<Non aver paura>>.

Avrei voluto sedermi. Ero sempre più stanco. Sentii il mio respiro farsi più frequente.

<<Chi sei?>>.

<<Te l’ ho detto>>.

Scossi il capo.

<<Perché avresti... convocato proprio me?>>.

<<Te lo spiegherò, naturalmente>>.

<<Senti, lo me ne vado, è chiaro che non sto bene. O forse sto ancora dormendo in albergo. O forse è una conseguenza ritardata di tutte le porcherie che ho ingoiato in questi ultimi tempi. Dio non si sa nemmeno se esiste. E se esiste ci sono molti miliardi di persone convocabili prima di me. E poi sei troppo ridicolo. Sei esattamente come dovresti essere. Perfetto per uno scherzo, appunto. Perché ti sei combinato così? Non c’erano altri modi? Potevi venire a Milano… essere meno plateale>>.

L’uomo non rispose subito. Sembrava deluso. Mi aspettai che gettasse la maschera, che scoppiasse a ridere. E glielo dissi “dai, scoppia a ridere”.

Non rise. Parlò:

<<Ho voluto che tu venissi qui perché è qui che lo ho vissuto. Come si dice? Voglio giocare in casa.  Ed è vero, ho assunto l’immagine che mi avete attribuito voi. Sei un pubblicitario, dovresti capirlo bene. Se fossi a... Riad avrei sembianze diverse>>.

Annuii.

<<Già. A Riad...>>.

Eravamo di fronte, speculari e vicini. Io continuavo a pensare che quell’uomo non poteva essere quello che diceva di essere. Cercai aiuto nell’intuito, che mi disse che no, non ero ospite di un miracolo. Ma il mio intuito mi ingannava sempre. Ripetei:

<<Dai, scoppia a ridere>>.

Disse:

<<Muoviamoci da qui. C’è un posto vicino, tranquillo. Seguimi>>.

Cercai una battuta adeguata. Contro la paura.

<<Certo, e non sarò stato il primo>>.

E lo seguii.

A dieci passi dal ciglio un piccolo sentiero scendeva ripido. Lo percorremmo per una trentina di passi, poi sentii una corrente fresca, e capii il perché. Era l’ingresso di un anfratto. Lui si fermò davanti all’apertura.

Disse:

<<Dalla strada non si vedono, ma ci sono molte di queste grotte. Vieni, non aver paura>>.

Prima di entrare valutai i possibili pericoli che avrei corso. Ma era inutile cercare di capire. Ciò che stava accadendo non aveva niente a che fare con il capire. Niente era valutabile. E vinse il fatto che io sono disperatamente curioso.

Appena dentro la grotta gli dissi di fermarsi. Gli afferrai i polsi. Si sorprese, ma non oppose resistenza. Sentii la pelle e le ossa di un uomo normale. Risalii lungo gli avambracci, sentii il sudore. Poi tornai sui polsi. Indugiai. Lui assecondava.

<<Hai il cuore lento>> dissi <<sei in buona salute>>.

Ritrassi le mani.

<<Prima hai detto che a Riad avresti avuto altre sembianze. Non è un’affermazione da poco>>.

C’erano due grosse pietre, quasi due cubi. Mi disse di sedere. Sedemmo.

Cominciò:

<<Capisco che tu stia verificando. Lo so,  non sei uno che crede… gratis. Ma il dubbio ce l’ hai. Pensavo di ottenere il tuo credito come uomo… senza miracoli voglio dire. Sbagliavo…>>.

<<Tu sbagli?>>.

<<Sono qui. Sono tornato. Anche per correggere qualche errore>>.

    <<Tagliamo corto>>.

<<Dimmi>>.

<<Se sei chi dici di essere e… visto che giochi in casa, comportati da bravo ospite e sta’ alle mie regole. Io ho bisogno prove per credere. Non bastano i trucchi che hai mostrato fin qui. Se sei Dio… o Gesù o…>> giuro che stavo per dire “o chi diavolo” <<il figlio di Dio o non so cos’altro…>>.

Lui mi guardava serenamente. Conclusi.

<<…fammi vedere mia madre>>.

La richiesta era impegnativa, naturalmente.

Io non so se stessi male, o bene. O benissimo. Leggo la situazione alla mia maniera: il pubblicitario milanese in viaggio turistico, col suo bel giacchino multitasche firmato, che improvvisamente diventa personaggio alla Noè o alla Virgilio. Io, Alessandro Forte. Ero dalle parti di Emmaus, dove Gesù cenò dopo esser risorto. Davanti a me c’era Gesù. Ero un eletto, e potevo fare le domande che cento miliardi di umani in duemila anni avrebbero voluto fare. E c’è di più, ero uno che le domande sapeva farle.

Dunque una sensazione fortemente inedita e comunque, vero o falso che fosse tutto quanto, l’emozione era vera. Avevo fatto forse la più grande, misteriosa, impossibile richiesta che un uomo possa fare. Vero o falso: qualcosa sarebbe successo.

Dunque “fammi vedere mia madre”.

L’uomo fece un cenno con il capo.

<<Certo, tua madre…la signora Michela è morta diciotto anni fa. Mi sembra legittimo ciò che chiedi, mi sembra umano. Ma mi aspettavo qualcosa di diverso. Con le immense possibilità che avresti, ti limiti a un fatto personale…

<<Te l’ ho detto, sta’ alle mie regole. Certo che è un fatto personale… puoi cominciare da lì. E sta’ tranquillo, te le farò le domande, tutto ti chiederò, ti metterò in croce...>>.

Colsi la tragica gaffe mentre stavo ancora pronunciando “croce”.

Il piccolo sorriso che compose mi disse che non si era offeso.

<<E ti dico anche che io non sono un pastorello>>.

<<Ne sono più che sicuro>>.

Sorrisi a mia volta.

<<Certo che sei un personaggio… Dio o non Dio sei un gran personaggio. Non so se uscirò vivo da qui, non so nemmeno se sono vivo adesso, ma giuro che uno come te non lo incontro più...>>.

Cambiò espressione. Si preparava a una premessa importante. Sapevo interpretarlo. E questa era una buona notizia.

   Disse:

    << Una premessa. Devo porti dei limiti. Non potrò rispondere a tutto>>.

<<Perché? Sei entrato nel gioco... gioca>>.

Mi sembrò in imbarazzo.

<<Sei un uomo intelligente, sei colto. Certe critiche sarebbero facili. Lo sappiamo. Gli errori, anche grandi, nei secoli.  Il sistema è vecchio, so bene che scricchiola. Sono qui anche per questo>>.

Al momento non colsi la portata, sterminata, di quelle ultime cinque parole. Aggiunse:

<<Concedimi quella zona franca. Guardiamo avanti>>

<<Va bene>>.

Lo avevo sorpreso.

<<Davvero ti va bene?>>.

<<Sì>>.

<<Ti arrendi così? Non combatti?>>.

<<Hai diritto a una zona franca. E poi cosa c’entri con le fesserie di chi ti ha rappresentato. Io non te le attribuisco. Anzi, non te le attribuirei>>.

Sorrise.

<<Ho scelto bene… lo vedi>>.

    <<Dimmi della sacra Sindone>>.

<<Come?>>

<<Una curiosità che ho da quando ero alto così… quel tizio, sei tu?>>.

Esitò. Mi piacque pensare di averlo incastrato. Mi accorsi che cercava le parole con attenzione.

<<Se ti dicessi che non sono io, ti sarebbe utile? Molti ci credono. Vanno a vederla, pregano, sperano e stanno meglio. Non c’è niente di male>>.

<<La conosco la tiritera. Sei tu quello là?>>.

<<Questa domanda potrebbe rientrare nella zona franca…>>

<<Potrebbe. Ma io non ce la faccio entrare. Sei tu o no?>>

<<Non cambierebbe niente>>.

<<Lo hai già detto. Ma a me interessa la verità>>.

<<Dunque non rinunci>>.

<<No>>.

Ma ancora non rispondeva.

<<Sei tu o no?>>.

Non rispondeva.

<<Senti Gesù, lo continuo a pensare che questa sia una pagliacciata. Cerca di venirmi incontro almeno, fa’ qualcosa  per renderti simpatico... sei tu o no?>>.

<<Sono io>>.

Mi insospettii.

<<Davvero?>>.

<<Io non dico bugie>>.

<<Chissà>>.

Scossi il capo.

<<Non pensare che mi sia dimenticato di mia madre. La petizione rimane>>.

Anche lui scosse il capo e lo vidi deluso e perplesso. Io invece sorrisi.

<<E’ dura eh?>>.

Anche lui sorrise. Sì, era schermaglia.

<<Da uomo a uomo non ti basta vero?>>.

<<No>>.

<<Vuoi il miracolo>>.

<<Sì>>.

Non si decideva. Poi, dopo qualche secondo disse:

<<Devo riflettere>>.

<<Sei pieno di dubbi… e comunque sono io l’idiota che sto qui ad aspettare di vedere mia madre morta. Sono stanco. Molto stanco. Voglio uscire da qui>>.

Avevo la sensazione che a guidarmi fuori fosse il mio stomaco. Mi fece bene la luce. E mi piacque il caldo. A fatica risalii il sentiero. Non ricordo molto. Ero sulla strada maestra. Era presto per ragionare sull’incontro, sul Gesù o il delirio. Lo avrei fatto con calma. Adesso valeva l’immediato e il sentimento. Mi toccai il fianco, premetti sul vecchio dolore. Erano mesi che alla pressione o al movimento del fianco corrispondeva quel dolore. Invece adesso no. Non c’era. Sorrisi per quel risultato almeno. E camminavo.

 Arrivai all’albergo, l’inserviente mi diede la chiave. Salii a piedi al primo piano. Doccia, letto, che sogno. Magari avrei ragionato. O forse no. Volevo la doccia e il letto. Misi la chiave, girai e aprii. Dopo un paio di secondi vomitai davanti alla porta che avevo richiuso. Avevo il respiro profondo, la vista sdoppiata ma ero presente al mio squilibrio. Adesso avrei aperto la porta e mia madre non sarebbe più stata lì seduta in mezzo alla stanza. Riaprii la porta e anche gli occhi, che avevo chiuso. Ed era lì, seduta in mezzo alla stanza. Mia madre.