Il ferroviere

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Un film di Pietro Germi. Con Sylva Koscina, Saro Urzì, Carlo Giuffré, Pietro Germi, Luisa Della Noce.
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Drammatico, Ratings: Kids+16, b/n durata 120 min. - Italia 1955. MYMONETRO Il ferroviere * * * * - valutazione media: 4,05 su -1 recensioni di critica, pubblico e dizionari. Acquista »
   
   
   

Germi supera sé stesso con un capolavoro sensibile Valutazione 4 stelle su cinque

di GreatSteven


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giovedì 12 aprile 2018

IL FERROVIERE (IT, 1955) di PIETRO GERMI. Con PIETRO GERMI, LUISA DELLA NOCE, SYLVA KOSCINA, SARO URZì, CARLO GIUFFRè, RENATO SPEZIALI, EDOARDO NEVOLA, RICCARDO GARRONE, AMEDEO TRILLI, ANTONIO ACQUA
Andrea Marcocci è un conducente di treno sposato con tre figli, dal maggiore al minore: Marcello, Giulia e Sandrino. Lavora sulla linea ferroviaria Bologna-Venezia-Firenze insieme al collega ed amico Pier Luigi Liverani, suo compagno di lavoro e di bevute, dato che Andrea ha il pessimo vizio di indulgere troppo tempo in osteria a tracannare bicchieri e bicchieri di vino. Il che comporta scompensi anche e soprattutto all’interno della sua famiglia: la moglie Sara è sempre meno affettuosa e più distante; Giulia rimane incinta di Renato Borghi, negoziante che lavora presso una rimessa di caramelle, e partorisce un bambino nato morto; Marcello si sveglia sempre tardi alla mattina e non trova un lavoro per la sua inettitudine; Sandrino riporta solo brutti voti a scuola. Tutto questo rende Andrea un uomo burbero e violento, sebbene la cattiveria non rientri nel suo carattere a prescindere. Ma poi un giorno, nel pieno esercizio delle sue funzioni, investe un suicida e subito dopo non rispetta un segnale rosso, il che fa aprire un’inchiesta che coinvolge i medici che debbono visitare i ferrovieri per constatarne le condizioni psicofisiche, il sindacato dei ferrovieri stessi che intende indire uno sciopero e il Ministero dei Trasporti e delle Infrastrutture, che degrada Marcocci assegnandogli incarichi inferiori, il che gli fa diminuire la sua fierezza di lavoratore, lui che era sempre stato devoto al mestiere. Non aderendo allo sciopero, l’ormai ex macchinista viene additato dai colleghi come un crumiro e perde la loro solidarietà, sentendosi abbandonato da tutti benché la responsabilità dell’incidente che lo ha coinvolto non sia da imputare a lui. Nel frattempo la prosecuzione, con relativo aumento, del vizio alcolico lo porta a contrarre una malattia cardiaca, e solo la vigilia di Natale riesce a riunire famiglia ed amici per aggregarsi ad una felicità che da tempo gli mancava e di cui avvertiva un disperato bisogno. Ma, proprio mentre chiede a Sara la chitarra che prima suonava davanti agli amici all’osteria intonando canzoni allegre, la morte lo coglie, con profondo sconforto di tutti i famigliari, soprattutto di Sandrino, simbolo della più candida innocenza filiale. Accusato da una parte della critica di essere un film di sinistra che abbraccia tendenze deamicisiane, altre fazioni ne hanno invece apprezzato il taglio neorealista e intimistico che mette in mostra al meglio le doti di Germi (1914-1974) sia come attore che come regista, schivando le facili accuse di moralismo populista e inserendo l’opera nel quadro dell’Italia appena uscita dalla Seconda Guerra Mondiale che tenta di rifarsi una nomea agli occhi del mondo, ma soprattutto di sé stessa, affidandosi al lavoro di uomini che lo sanno svolgere al meglio. Malgrado non siano poi all’altezza come persone umane. Andrea Marcocci è uno dei migliori macchinisti che traffichino sui piazzali degli anni ’50, ma la sua brutalità caratteriale gli impedisce di avvicinarsi alle persone con l’amore e la pazienza necessarie a tessere rapporti che gli permettano di vivere anche la sua non facile (perché massacrante e snervante) professione secondo le regole della piena tolleranza morale. La produzione della pellicola doveva essere affidata alla ditta Ponti-De Laurentiis, ma infine fu il solo Carlo Ponti a portarla a termine, perché, considerando che nemmeno credeva nel progetto, propose per la parte dell’attore principale nomi impossibili come Spencer Tracy e Broderick Crawford. Fu l’ottimo sceneggiatore Alfredo Giannetti, che scrisse la sceneggiatura assieme all’inossidabile Luciano Vincenzoni e allo stesso regista, a comprendere che Germi avrebbe funzionato impersonando il ruolo fondamentale, in quanto conosceva la storia e aveva non solo il physique-du-rôle adeguato, ma anche le doti argute e migliori per regalare al pubblico il fautore in toto di una storia melodrammatica, strappalacrime e spezzacuori. Una vicenda che consegna uno spaccato sociologico di un Paese riemergente, che risale a fatica la china ma non s’arrende dinanzi alle difficoltà e che trova, nel bollore ardente che fa sudare la fronte e piega la schiena durante lo sforzo sovrumano della ripresa, i valori fondanti e onnipresenti della famiglia. Quello stesso nucleo che Marcocci finirà per disgregare a causa del suo vizio peggiore da cui non sa distaccarsi perché vi trova divertimento, ma che tutto sommato apprezza perché sa che può contare solo su quello e sul suo lavoro. A parte i famigliari e la ferrovia, non ha altri appigli cui appoggiarsi. Il suo è dunque anche il calvario di una solitudine, alimentato per giunta dall’indifferenza delle istituzioni che lo accusano e gli affibbiano nomignoli inadatti per le sue scelte comunque coerenti, che non comprendono le sue motivazioni e lo ritengono responsabile di un atto che ha commesso contro la sua volontà, come lui stesso ammette proprio perché il poveretto aveva calcolato bene i suoi tempi. Un reparto femminile di prim’ordine, a partire da una Della Noce perfetta nelle vesti della moglie casalinga pragmatica ma non opprimibile a una ventiduenne S. Koscina meravigliosamente a suo agio nei panni della figlia: delusa, desiderosa di un riscatto, sballottata fra più relazioni, distrutta dal rapporto destrutturante col padre. Brillano anche S. Urzì come Liverani  (pacioso e bonario) e C. Giuffrè come Renato (non invadente e dalla recitazione misurata e a briglia stretta). Ma la vera sorpresa è il piccolo E. Nevola, che talvolta si atteggia anche a narratore della storia, conferendole quel tratto di bianca ingenuità che contribuisce ad intensificare il tratto realistico e teatraleggiante di un film che raggiunge in pieno i suoi obiettivi di raccontare un quadro specifico, trattandolo come una tela da dipingere coi colori della verità, dell’incomprensione non percepita né desiderata, del bisogno in fondo evitabile della violenza fisica e verbale e della traslucidità degli sguardi offerti dai suoi personaggi, anti-maschere che recitano con sapienza ineccepibile e tracciano un riquadro sofferto del tema precipuo di quei giorni: la lotta contro la povertà e la fame.

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