Jigoku

Un film di Nobuo Nakagawa. Con Shigeru Amachi, Yôichi Numata, Utako Mitsuya Horror, durata 100 min. - Giappone 1960.
   
   
   

Le nove in punto...e tu vivrai nel terrore! Valutazione 4 stelle su cinque

di gianleo67


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sabato 31 marzo 2018

Coinvolto dallo spregiudicato amico Tamura in un incidente stradale che vede la morte di un membro della yakuza, il giovane Shiro è attanagliato dai sensi di colpa e da un dilemma morale che condivide con la giovane fidanzata, in dolce attesa del loro bambino. La morte violenta di quest'ultima innesca a sua volta una inarrestabile catena di delitti e di morti che conduce tutti i suoi colpevoli protagonisti negli oscuri domini dell'inferno buddhista ed ai molteplici supplizi che esso riserva loro.
La cattiva coscienza di un singolare William Wilson della Compagnia del Sole, anticipa la poetica nichilista di un autore che avverte il senso di disfacimento di una umanità alla deriva, dove la vita terrena è solo l'anticamera dell'inferno, la prospettiva riflessa di un mondo capovolto, l'incubo di una dannazione eterna quale inevitabile contrappasso di una corruzione morale che ha già eroso irrimediabilmente le coscienze ed i rapporti sociali, abitato da cattedratici dal passato disonorevole, fidanzati impuri, genitori laidi, mefistofelici pirati della strada, vittime una volta carnefici e vedove nere tutt'altro che allegre che meditano crudeli e impietose vendette trasversali. 
Nakagawa fa di necessità virtù, utilizzando gli esigui mezzi messi a disposizione da una Shintoho sull'orlo del fallimento e contaminando le plumbee atmosfere blues del tayozoku eiga  della prima parte della pellicola (figure illuminate che si stagliano su sfondi bui, per lo più in interni e sagome muliebri dal richiamo ammaliante) con lo sfrenato sperimentalismo della seconda parte, dove aggiorna gli orrori metafisici del più classico kaidan con un tripudio di efferatezze da immaginario dantesco che ricapitola tutte le declinazioni inferiche contemplate da culti millenari tanto diversi tra loro quanto distanti per storia e collocazione geografica. Il tradizionale sincretismo della cultura popolare nipponica, sospesa tra panteismo shintoista e animismo buddhista, esemplificato dalla lezione iniziale sugli inferni delle religioni orientali, trova una interessante sponda narrativa nell'alternarsi tra le grottesche vicende di un'umanità dedita ad un dissoluto carpe diem ed il lugubre presagio di una prospettiva ultraterrena dove l'eterno ciclo delle morti e delle rinascite viene applicato con gusto visionario alla surreale iconografia dei periodici tormenti cui sono sottoposte le anime precipitate sotto il dominio del terribile Enma-o: signore, giudice e custode degli otto inferni di fuoco e degli otto inferni di ghiaccio. Nell'intercalare delle scene di lutto, anche la nenia funebre di un tradizionale katsuden che intona il triste monito per una vita di inganni pronti a risolversi nella verità senza scampo di un aldilà colmo di sofferenze ma privo di redenzione  ("Giorno dopo giorno, questo mondo alla lunga si dissolve e l'anno della mia morte si avvicina. Oggi è il funerale di un altro, domani sarà il mio"); mentre nel carnascialesco baccanale della festa finale la resa dei conti di una macabra ecatombe che restituisce i corpi dei suoi colpevoli protagonisti all'eterna dannazione per cui sembrano essere nati. Alle nove in punto insomma, arriva il tristo mietitore, pronto ad accompagnare la sua eterogenea compagine di degenerati nel giardino senza delizie di un supplizio cinese che alterna melodramma e invenzioni splatter, torture fisiche e tormenti psicologici, mitologia buddhista e contrappassi danteschi, mescolando tutto in un grande calderone di efferatezze assortite e invenzioni kitsch che un po' sconcerta ed un po' fa sorridere, ma che certo non lascia indifferenti di fronte alla prospettiva senza ritorno di una tortura che ripete ogni volta il ciclo senza fine di corpi scarnificati e restituiti di nuovo integri per la prossima tornata di rinnovati tormenti al calor bianco. Nella simbolismo acheronteo del Sanzu no Kawara poi, pure lo spunto per lo straziante limbo di bimbi mai nati (i non battezzzati del cristianesimo, qui visti come trasgressione ad una legge naturale per cui non sono sopravvissuti ai genitori, facendoli soffrire) e con esso la suggestiva desolazione di una riva sassosa su cui impilare i pietosi altari di muti totem destinati a trasformarsi nel Bodhisattiva Jizo, nume tutelare deputato alla loro ascensione celeste. Finale consolatorio, perfettamente in linea con le pressioni del produttore Mitsugu Okura sulla sensibilità di un autore (qui anche della sceneggiatura) da sempre interessato, oltre che all'originalità delle soluzioni espressive, anche alle fondamentali esigenze di box office. Ancora una volta gli stratagemmi del montaggio, la spartana architettura delle scenografie e lo sperimentalismo cromatico della fotografia sopperiscono alla pretestuosa esiguità della trama, precipitando lo spettatore in un incubo ad occhi aperti che ferisce gli occhi e colpisce allo stomaco, affondando i suoi artigli affilati nella carne viva di una struttura di genere ormai giunta ad una svolta esiziale e pronta a bruciare tra le fiamme purificatrici di un inferno di celluloide dal quale rinascere, come l'araba fenice, sotto le mentite spoglie del j-horror prossimo venturo, nel fortunato revival a ridosso del nuovo millenno dei vari Shimizu, Nakata e Kobayashi; più o meno quanto dovranno attendere i lavori di Nakagawa per sbarcare nelle rassegne cinematografiche occidentali, tra le quali la bella retrospettiva che nel 2009 il Future Film Festival bolognese dedicherà al maestro nipponico.

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