Il ponte delle spie

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Un film di Steven Spielberg. Con Tom Hanks, Mark Rylance, Amy Ryan, Sebastian Koch, Alan Alda.
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Titolo originale Bridge of Spies. Thriller, Ratings: Kids+16, durata 140 min. - USA 2015. - 20th Century Fox Italia uscita mercoledì 16 dicembre 2015. MYMONETRO Il ponte delle spie * * * 1/2 - valutazione media: 3,60 su -1 recensioni di critica, pubblico e dizionari.
   
   
   

Scambio distensivo in un clima (quasi) infuocato. Valutazione 4 stelle su cinque

di GreatSteven


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sabato 3 febbraio 2018

 IL PONTE DELLE SPIE (USA, 2015) diretto da STEVEN SPIELBERG. Interpretato da TOM HANKS, MARK RYLANCE, AMY RYAN, ALAN ALDA, AUSTIN STOWELL, SCOTT SHEPHERD, JESSE PIEMONS, DOMENIC LOMBARDOZZI, SEBASTIAN KOCH, EVE HEWSON, DAKIN MATTHEWS
Nel 1957 la tensione fra URSS e USA è alle stelle. Una spia russa, il colonnello Rudolf IvanoviČ Abel, emigrato negli States, viene catturato e sbattuto in cella da agenti dell’FBI. Il giudice Mortimer Barsey ne desidera la condanna a morte perché nemico giurato dei sovietici, ma occorre un mediatore fra le due superpotenze. Lo si trova nell’avvocato specializzato in assicurazioni James D. Donovan, che accetta di difendere al processo Abel, per nulla preoccupato della sua attuale condizione, benché non abbia mai avuto esperienze passate di difese di spie straniere. Donovan conosce l’agente della CIA Hoffman, col quale inizialmente i rapporti son tesi per ragioni politiche e giuridiche, dopodiché la collaborazione forzata ma efficace fra i due si appiana. All’udienza la sentenza di morte viene commutata in trent’anni di carcere per Abel, sebbene Donovan, costituzionalista convinto, non sia d’accordo col magistrato sopracitato né con altri colleghi anti-sovietici. Nel frattempo parte un’operazione dell’Esercito Americano contro i cieli della Germania dell’Est, durante la quale, dopo che è stata organizzata, il pilota venticinquenne Patrick Gary Powers fa un incidente col suo aereo, precipita da esso e viene incarcerato dai tedeschi comunisti. Poco dopo, uno studente americano, Frederick Prier, che ha avuto l’idea malsana di studiare economia sovietica nella Repubblica Democratica Tedesca ed è dunque dalla parte sbagliata del Muro di Berlino in via di edificazione, viene anch’egli imprigionato dai germanici sotto l’influenza della sfera statunitense. A Donovan non resta che fare una cosa, come anche Hoffman gli spiega: andare a Berlino e proporre uno scambio, ossia rilasciare Abel ai sovietici in cambio di Powers, che ritornerà negli States. Controvoglia e mentendo alla famiglia (Donovan è sposato con tre figli), il giureconsulto affronta il rigido inverno berlinese e contratta con due colleghi teutonici di opposte fazioni (Schisslin, asservito alla RFT, e Fögel, agli ordini della RDT). Le intenzioni di Donovan sarebbero quelle di scambiare Abel non solo con Powers, ma anche con Prier, ma nessuno dei due avvocati è disposto ad ascoltare le sue motivazioni, e dello stesso parere è anche Hoffman, che lo accompagna nel viaggio in Germania. Buscatosi un raffreddore e dopo aver conosciuto la famiglia sovietica di Rudolf Abel, Jim, grazie al suo fervore e al suo non tirarsi indietro mai, ottiene ciò che desiderava, ma con una condizione: Abel li raggiungerà sul ponte di Glienicke (che dà il titolo al film) e verrà scambiato con Powers, mentre Prier verrà liberato altrove e restituito ai suoi connazionali. Ma alla fine tutto si risolve per il meglio: Powers e Prier ritornano in patria assieme nello stesso momento, mentre Abel, appassionato di pittura, ringrazia il suo difensore regalandogli il ritratto che gli fece dietro le sbarre. Donovan, tornato a casa, cade addormentato poco prima che la sua famiglia, che lo credeva a pescare a Londra, apprende dal telegiornale della sua straordinaria impresa, che ha evitato morti e spargimenti di sangue e l’ha trasformato in un eroe della giustizia, benché non abbia mai agito come rappresentante ufficiale degli USA, in quanto semplice funzionario e perché imbrigliato da poteri al di sopra di lui. Un kolossal storico che vanta la sceneggiatura di Matt Charman e dei fratelli Coen (e il loro apporto, in quanto a credibilità, si sente!) in cui Spielberg ribadisce un punto fermo della cultura del suo paese: l’individuo ancorato ai suoi valori e a quelli della nazione fin dall’epoca della sua fondazione, nonostante ognuno remi nella direzione opposta alla sua. Donovan è un brillante e pacato avvocato, estraneo alla violenza e sempre disposto alla diplomazia, ma il suo agire gli attira addosso odio veemente, incredulità e disprezzo. Con la conseguenza finale che, poi, questi sentimenti negativi si tramutano in un apprezzamento gigantesco per il suo operato, ben superiore al suo ruolo ma non al di là delle sue potenzialità, magari in un primo momento nascoste ma secondariamente pronte ad emergere con forza morale. La vita quotidiana dei servitori della giustizia è un modo che regista e sceneggiatori adoperano per immortalare un momento drammatico della guerra fredda e fotografarlo nella sua intima (quint)essenza. Il 69enne regista, alla sua quarta e penultima collaborazione con Hanks, descrive pure il dualismo interno ad ogni conflitto, non per forza armato, come detto anche dalle battute del copione: da una parte c’è chi provoca o soltanto prospetta catastrofi perché si lascia imbrigliare dalla paura del nemico, il che gli fa perdere ogni lucidità, e dall’altro lato c’è chi mantiene la lucidità e, pur rifiutando il collaborazionismo in senso degradante, si sforza di comprendere l’avversario con intelligenza per raggiungere un accordo reciprocamente soddisfacente. Il collaboratore ultra-ventennale di Spielberg, Janusz Kaminski, anche stavolta non si smente: vince l’Hollywood Film Award 2015 per la sua fotografia vivida cui aggiunge un velo polverulento per permettere allo spettatore di ammirarne la raffinatezza figurativa. Spielberg non ha mai fatto vincere un Oscar ad Hanks, ma anche qui l’attore dà un’interpretazione degna dei suoi trascorsi e da autentico professionista navigato che sa recitare da fenomeno, ma Rylance (Oscar per il miglior attore non protagonista 2016) non gli è da meno: il suo colonnello sovietico che ascolta musica slava alla radio e dipinge mentre è in cella rimane sempre imperturbabile, e quando Donovan gli chiede perché non si allarmi mai, lui risponde, con un misto di ironia e fiducia: «Servirebbe?». Per ben tre volte, il che è quasi umoristico, senza nulla togliere al pathos drammatico che pervade l’opera dalla prima all’ultima sequenza, titoli di coda compresi, in cui vengono spiegate le sorti del pilota Powers, di Abel e specialmente di Donovan, che dopo il ’57 si vide affidare da Kennedy operazioni di portata ancora maggiore, quando vi fu la Baia dei Porci e salvò migliaia di persone che altrimenti sarebbero andate incontro ad una sorte di certo infausta. Efficaci personaggi secondari e uno sguardo sulla legge americana, tedesca e sovietica critico, ma non offensivo: non vengono prese posizioni nette e il nazionalismo è accuratamente accantonato. Le due cose fanno del creatore de Bridge of Spies un genio ormai consolidato che è cresciuto come artista affrontando tutti i generi, ha raccontato nel suo cinema storie vere insieme ad adattamenti da testi letterari e, quel che è meglio, non ha mai baciato una bandiera diversa da quella della settima arte che intende informare, emozionare, commuovere, divertire e far riflettere su temi molto ampi e diversi il pubblico (ormai è doveroso dirlo) internazionale. 

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