The Square

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Tra Kaos e Kosmos Valutazione 4 stelle su cinque

di francesca meneghetti


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martedì 28 novembre 2017

 Square: piazza o quadrato sono i significati prevalenti di questo termine inglese, che deriva dal latino quadrum e, a sua volta da quattor,quattro. Per i Pitagorici il quadrato era simbolo di giustizia: era la metaforica squadratura dell’informe e del disordine originario dell’universo. Platone, nel Timeo, attribuiva precisamente questa funzione al dio Demiurgo: grazie alla sua arte ordinatrice si passò dal Kàos al Kòsmos, cioè ad un mondo armonioso.
Ignoriamo gli eventuali studi filosofici del regista svedese Ruben Östlund, ma il titolo e un tema, il principale del film, alludono proprio a questa contrapposizione. Al centro della storia, che è impossibile riferire sinteticamente senza amputazioni, c’è una creazione artistica collocata in una piazza: un quadrato, il cui perimetro segna il confine tra l’area del poligono (la zona della giustizia, dove diritti e doveri sono equamente ripartiti, “un santuario di fiducia e altruismo”), e il resto dello spazio fisico, che rappresenta l’antitesi di quei valori. E’ l’arte che si fa Demiurga, che vuole creare artificialmente un Kòsmos virtuale, in polemica con il mondo reale, improntato al Kàos.
Lo sviluppo delle scienze tra fine ‘800 e ‘900 ci ha insegnato che anche in natura l’entropia, ovvero il disordine, spesso collegato al caso, tende a prevalere sull’ordine. Se poi ci aggiungiamo la follia degli uomini, accentuata dalla tecnologia, e le differenze tra gruppi sociali ed etnici, arriviamo al caos presente. La civiltà occidentale vive in questo disordine, ma, essendo figlia, tra l’altro, dell’illuminismo e dei suoi solenni proclami sui diritti dell’uomo e del cittadino, a queste lontane radici si aggrappa tenacemente per non smarrirsi di fronte a una realtà sempre più complessa ed entropica. Il politicamente corretto attecchisce soprattutto tra chi possiede uno status privilegiato, e magari professa valori di solidarietà che vorrebbe anche praticare. In un Paese dalla solida tradizione di Welfare come la Svezia, indenne da ideologie di destra, tese cioè a marcare le differenze tra gli uomini, questa è la situazione prevalente. Ma anche densa di contraddizioni. Quando un uomo ricco e affermato come Christian si trova a dover uscire da quel quadrato magico in cui crede, finisce per scoprire una realtà diversa: chi è senza diritti e senza denaro rimane indifferente alle belle idee e, anziché suscitare compassione, finisce per indignare: perché ruba, mente, inganna, risulta arrogante e magari violento. E allora ci si rinchiude in un altro quadrato: quello dell’indifferenza, di un’indifferenza carica di sensi di colpa che è impossibile espiare, perché non c’è via d’uscita. L’esito è un crescendo di angoscia che accompagna il film e che raggiunge forse il suo acme nella scena della tromba delle scale (in una cornice, non caso quadrata), dove, nel buio, risuona il lamento e il grido d’aiuto di un bambino, che il buon Christian ha spedito a casa in una notte di pioggia torrenziale, negandogli quella sola parola di scusa che lui gli chiedeva, e chiudendo gli occhi alla vista della piccola bici con cui il bambino avrebbe dovuto tornarsene nel suo quartiere popolare: lontano, lontanissimo.
Focalizzando l’attenzione su questo tema, il film è grande e tale da giustificare la Palma d’oro. Ma altri aspetti portano a valutazioni diverse. C’è, ad esempio, il tema dell’arte contemporanea, talmente pregante che il film (che in fondo rappresenta anch’esso una manifestazione artistica) può essere considerato come un discorso di metaarte, per usare il termine coniato nel 1972 da Piper Adrian: l’arte che parla di se stessa, della sua libertà, del suo farsi e proporsi agli utenti, all’interno di spazi o contesti precisi, i quali possono mutare il significato di un’opera o di un oggetto, dei suoi problemi economici, del suo modo di comunicare. In questo caso, ci pare, siamo fuori da qualsiasi quadrato normativo, da un codice  o da regole condivise: impera, se non il caos, il relativismo. L’episodio dell’artista gorilla (v. la locandina), che domina tanta bella gente elegante, seduta a tavola, si inserisce in questo filone. Dove sta l’arte in questa violenta, angosciosa e fin troppo lunga performance? Si allude forse a un latente spirito di ribellione verso il perbenismo della buona società svedese (e occidentale), analogo a quello che, simbolicamente, promana dal portatore di sindrome di Tourette, con il suo turpiloquio?
Al di fuori di quel quadrato ideale si pone anche il regista nel tessere la trama del film. Nessuno si aspetti un edificio solido e armonioso come un tempio greco: con la base, le colonne portanti e il timpano. Un edificio finito, cioè classico. Dal ramo principale, partono altri rami, che a volte vanno chissà dove, in una cornice improntata al surrealismo, più che al realismo. Che ci fa lo scimmione che si mette il rossetto e che passa davanti a una stanza da letto, nella casa della bella giornalista? Un richiamo a Buñuel? E la stessa giornalista riesce a diventare incinta con il seme rubato a un preservativo? E l’attore gorilla, che fine fa? E i bambino ostinato nel pretendere le scuse del protagonista? E i due geniali creativi, che per pubblicizzare il museo inventano un video terrificante? Si è detto, di questo film, che è aperto: sembra piuttosto votato stilisticamente al non finito. Per questo suo essere anticlassico non può piacere a chi ama trovare nel cinema finitezza, equilibrio compositivo e una conclusione netta, sia essa comica o tragica. Certo Östlund non vuole spettatori che se ne escano in pace con il mondo: e piega in tale direzione il sonoro, asimmetrico, fatto di scatti sonori violenti, e di refrain angoscianti.
L’interpretazione di Claes Bang è notevole. Il film è senz’altro interessante e degno di essere visto, una volta fatte le avvertenze del caso. E soprattutto di essere discusso. Magari in un cineforum.

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