Le origini e gli sviluppi della più grave crisi finanziaria dai tempi della Grande Depressione raccontati in un documentario lucido e serrato, diviso in 5 capitoli (Come ci siamo arrivati; La bolla (2001-2007); La crisi; Responsabilità e A che punto siamo) che riescono a condensare una materia vasta e intricata in pochi ma efficaci minuti che hanno però anche il grande pregio di non risultare mai eccessivamente superficiali o semplicistici, né tanto meno retorici.
Il regista guarda evidentemente a Michael Moore, ma ne evita sia il protagonismo (non compare mai di fronte alla macchina da presa) sia l’esagerazione grottesca: non inserisce spunti satirici e sberleffi ma lascia che siano le esitazioni, le incertezze e le contraddizioni di alcuni degli intervistati a parlare da sole (per non parlare poi delle testimonianze dinanzi al Congresso).
Tutto concorre a fare del film non tanto uno di quelli più “spaventevoli” (come lo ha definito il Boston Globe) ma piuttosto uno di quelli che suscitano più rabbia nei confronti dei fatti narrati. Non può che far infuriare, difatti, l’assistere alla perfetta e sintetica illustrazione delle condotte criminali e fraudolente portate avanti dalla maggioranza degli appartenenti a questa élite di finanzieri e, ancor di più, da coloro che avrebbero il compito di controllarli (si rendono palesi le complicità di entità come le agenzie di rating, gli organismi statali di controllo, il governo stesso [che spesso presenta membri di quella stessa élite ai più alti vertici]).
La follia è stata quella di permettere a queste grandi società di crescere a dismisura (per effetto della deregulation lanciata da Reagan e portata avanti dai suoi successori Clinton e Bush) fino a farle diventare, come recita un famoso motto, “troppo grandi per fallire”, permetter loro, di fatto, di tenere sotto scacco l’economia e per estensione l’intera società, e rischiare in tal modo che un loro fallimento faccia precipitare l’intero apparato economico, anche la cosiddetta “economia reale”, nonostante paradossalmente questi organismi finanziari non producano nulla di concreto, ma solo speculazioni sopra ad altre speculazioni (come dice giustamente uno degli intervistati: “Perché un ingegnere finanziario dovrebbe essere pagato dalle quattro alle cento volte in più rispetto ad un vero ingegnere? Il vero ingegnere costruisce ponti, l’ingegnere finanziario costruisce solo sogni. E quando quei sogni si trasformano in incubi sono altri a farne le spese”). Sono sempre altri a farne le spese, e sempre ai gradini più bassi della società.
E difatti questo è un altro dei temi affrontati dal film: cosa è stato fatto per regolamentare il mercato, per controllare l’operato delle agenzie di rating, della banche d’investimento, per mettere un tetto agli stipendi esorbitanti dei manager? Assolutamente niente. In particolare negli Stati Uniti, da dove la crisi si è originata. E i responsabili della stessa sono rimasti, per la maggior parte, impuniti ed anzi spesso hanno addirittura conservato le loro cariche, anche sotto la presidenza Obama, che pure durante la campagna elettorale aveva promesso una netta rottura con il passato. E nel frattempo le banche d’investimento sono state salvate grazie all’intervento dello Stato e del denaro pubblico. Giusto per aggiungere al danno la beffa.
Ognuna di queste tematiche è affrontata con competenza e vedendo di utilizzare il linguaggio più semplice e chiaro possibile in questo eccellente documentario, Inside Job (il cui titolo indica un crimine compiuto da una persona in una posizione di fiducia che ha accesso ad informazioni confidenziali, riservate, “dall’interno”, in relazione al crimine stesso), giustamente premiato con l’Oscar. Nonostante ciò, viene vergognosamente relegato all’uscita direttamente in home-video in Italia, senza passare prima per le sale. Tanto per favorirne la diffusione. Da recuperare, comunque, e da vedere, magari in abbinamento a La grande scommessa, che non è però un documentario.
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