Personal Shopper

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Fantasmi della mente, drammi del quotidiano Valutazione 4 stelle su cinque

di Eugenio


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mercoledì 19 aprile 2017

Olivier Assays, regista e autore francese molto cinefilo, autore di Irma Vep, Ore d’estate e del recente capolavoro Sils Maria, torna ad indagare nelle pieghe torbide dell’animo umano, in un film, in cui vera protagonista è l’identità umana, frammentata, incoerente e controversa.
E’ un film di spostamenti, di transizione Personal Shopper, ambientato in un mondo effimero come quello della moda, delle boutique più quotate dell’alta società. Una pellicola che si muove da confini puramente spaziali come Parigi, Milano, Londra ad altri meramente più “spirituali” come la realtà ultraterrena.
Sì perché Maureen, la protagonista, interpretata da una sfuggente Kristen Stewart, una ragazza solitaria, afflitta da un terribile lutto, la scomparsa prematura del fratello Lewis per una malformazione congenita, dal suo lavoro prettamente pragmatico, la scelta di abiti lussuosi (senza provarli e con un budget illimitato a disposizione) per una misteriosa attrice Kira (che tra le altre cose lei detesta), alterna quello di medium.
Percepisce o vuole percepire, sin dall’inizio, Maureen, una “presenza” che possa riappacificarla. Delle intrusioni ultraterrene, degli spiriti inquieti non ancora appagati, tormentano la giovane che, incapace di rassegnarsi alla scomparsa del fratello, temendo che sia condannato a rimanere “nel mondo dei vivi” perchè  non sereno, frequenta sedute di “rievocazione dei defunti” consulta video su Internet (compreso quello storicamente attendibile dell’esperimento di Victo Hugo).
In una prima parte dominata dalla presenza di forme ultraterrene che inquietano e che per converso attirano Maureen  conducendola a un confronto con le sue inclinazioni più nascoste, Assays ne costruisce una seconda dall’ impianto solido e credibile, malgrado qualche metafora e simbologia di troppo, che rinforzano l’ipotesi di un “contatto” ultraterreno tramite il mondo digitale.
Whatsapped sms, skype e call, la frontiera dell’universalmente connesso, della sociologia imperante che dilaga in una minaccia, altera in primo luogo l’attenzione di Maureen nell’ambiguità di una relazione epistolare con uno sconosciuto.
Potrebbe essere il fratello? Potrebbe essere invece qualcun altro? E cosa vuole da lei?
Assays è abile, inutile nasconderlo. Cattura l’attenzione dello spettatore. Fornisce molte chiavi di lettura, l’individualismo, la solitudine, il rapporto odio/amore nei confronti di un “doppleganger” Kira poi misteriosamente assassinata in un climax che ricorda tanto Polanski, la sociologia, la necessità di credere a “delle presenze” che giustifichino il nostro vacuo orrore mentale.
Più che le parole, come in Sils Maria, in Personal Shopper contano le immagini. Bicchieri che fluttuano o porte che si aprono senza apparente ragione, sono solo il contesto entro cui si muove un film permeato dal dolore universale della perdita, dall’odio, dalla pulsione repressa di voler essere a tutti costi, ciò che non si è.
 
E va dato merito al regista di essere stato capace, grazie a un efficace montaggio e all’amletico dubbio finale,  di confondere lo spettatore in un gioco di specchi tra realtà ed apparenza.  Le suggestioni qui si perdono dal tema sempre caro hitchcockiano del doppio, al giallo paranormale italiano degli anni ‘70 (Argento in primis privo tuttavia dell’effetto splatter), e soprattutto al cinema d’autore di Cronenberg, Lynch, Carpenter e Polanski  in una sintesi di paura, smarrimento e “delirio astratto” che sfuma nell’abisso della mente umana.
Ma Assayas come sempre non si limita allo sterile gioco cinefilo e ci trascina ancora una volta dentro gli abissi della mente umana, mostrandoci come possiamo essere una sintesi imperfetta di paura, aspirazione, desiderio inconfessabile e tanto, tanto smarrimento.
Controverso (ex aequo) premio per la miglior regia al Festival del cinema di Cannes nel 2016.
 

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