Blow-up

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L'ingannevolezza delle apparenze nella fotografia. Valutazione 3 stelle su cinque

di GreatSteven


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domenica 26 febbraio 2017

BLOW-UP (UK/IT, 1966) diretto da MICHELANGELO ANTONIONI. Interpretato da DAVID HEMMINGS, SARAH MILES, VANESSA REDGRAVE, VERUSCHKA, JANE BIRKIN
Thomas è un fotografo arrogante, annoiato e donnaiolo che vive a Londra negli anni in cui la capitale britannica, uniformandosi alla moda anche un po’ viziosa del tempo, comincia a far esplodere qua e là i movimenti pacifisti e il consumo di stupefacenti presso i giovanissimi. Attorniato da graziose donne che posano per lui nel suo lussuoso e variopinto studio di moda, si dibatte in un’angosciosa solitudine e vorrebbe essere ricco e famoso ed abbandonare tutto quel che possiede a casa sua (pur tuttavia arredata con uno sfarzoso e inconfondibile stile da Pop Art). Una mattina, passeggiando in un parco, scatta alcune fotografie ad una coppietta di innamorati che giocano a rincorrersi, e la donna coinvolta reclama perentoria la consegna degli scatti. Dopo aver trascorso qualche ludico momento in sua compagnia, Thomas crede, in seguito all’ingrandimento dei dettagli di uno dei sopracitati scatti, di aver scoperto i segni di un delitto. Torna al parco e trova effettivamente un cadavere nascosto fra i cespugli. Parla della cosa alla migliore amica, anch’ella sua musa ispiratrice, e al suo capo, ma non ottiene le attenzioni sperate. Successivamente ad un forsennato e meticoloso lavoro svolto sui negativi delle pellicole, Thomas si accorge infine, tornato nuovamente ai giardini, che il corpo dell’uomo morto che aveva poc’anzi scorto non c’è più. Così convinto dell’efficacia e della veridicità della sua scoperta, si ritrova ora perso in un vuoto ridicolo di contraddizione e ripensamento e non può far altro che rilanciare una palla inesistente ad un gruppo di simpatici e pittoreschi mimi che prendono possesso di un campo da tennis e fingono di giocare una partita. Con un inizio alquanto silenzioso e un po’ sottotono, una parte centrale in cui la parola prende fugacemente il sopravvento e una conclusione ancora una volta affidata alla regola dei rumori di sottofondo e all’assenza quasi completa di dialoghi, è una storia disomogenea, ma accattivante e seducente, soprattutto per come mette in scena un insolito protagonista, il quale da un lato anticipa il movimento hippie con la sua refrattarietà a convenzioni sociali ormai reputate antiquate e dall’altro ricorda gli yuppies che emergeranno due decenni dopo, considerato il suo attaccamento edonistico ai cimeli, ai souvenir e a tutti gli oggetti di cui si circonda per colmare la sua vacuità esistenziale. Thomas (un impeccabile e molto azzeccato D. Hemmings, superbamente doppiato da Giancarlo Giannini) è un ragazzone solo, cullato dolcemente dalla noia, desideroso di cambiare la propria vita (ma rimanendo pur sempre vittima e prigioniero di un’epifania) e specialmente di darle un senso: e quel senso auspica di individuarlo in un’illusione che presto svanisce e fa svaporare un’evidenza che, ai primi passi, sembrava intoccabile e più vera del vero… tuttavia, il tempo di imbastire un giochetto erotico autoreferenziale con due modelle poco più che adolescenti, venute in casa sua per farsi fotografare, e di assistere ad un concerto hard rock (gli Yardbirds nel ruolo di sé stessi, che eseguono live un brano del loro repertorio; allora il genere stava emergendo), e quello che prima appariva indubitabile, adesso si è trasformato in un fatuo sogno. È anche la metafora dell’esistenza di un cittadino inglese che non sa come riempire una solitudine in cui, tutto sommato, sta bene, ma che non lo appaga nel profondo: la destrutturazione non rapidissima, ma comunque inesorabile, della sua convinzione funge pure da veicolo chiarificatore ed esplicante la sua parabola esistenziale, dominata da voglie mai soddisfatte e piaceri che non riscontra nemmeno lavorando. La sequenza conclusiva dei mimi che inscenano una partita di tennis a poca distanza dal parco dove Thomas pensava di aver scoperto la prova del reato è un modo brillantissimo e meraviglioso per chiudere questa pellicola che, parlando dell’illusione come di un motore che spinge gli esseri umani a sognare, si discosta molto dai precedenti temi della depressione (affrontata in particolar modo nel bel Il deserto rosso, 1964) e da quelli trattati nella trilogia dell’incomunicabilità, vedendo alla prova un M. Antonioni quasi rifiorito e rigenerato, che ha sia un pregio che un torto. Il primo consiste nell’aver dato una svolta decisiva al suo registro artistico, fronteggiando un aspetto nuovo che inerisce sempre al lato più oscuro e meno visibile della vita umana, e guadagnando eccellenti risultati specie quando mette in azione il suo personaggio principale, i cui comportamenti e pensieri incantano lo spettatore in modo impressionante. Il torto è quello di voler spiegare ad ogni costo quel che mostra, e qui Antonioni pecca di ricerca ostinata ma infruttuosa della profondità, troppo proteso nel tentativo, già perso in partenza, di attribuire un simbolismo e una metafora disperati alle scene che gira. È la nota stonata più marcata che il film mette in evidenza, ma è ben compensata dalla rappresentazione di una Londra giovanile e modaiola, da una colonna sonora (composta da Herbie Hancock) sobria e appena essenziale che sottolinea quasi in modo liturgico i climax più importanti e da un’organizzazione dello spazio davvero coerente e magistrale. Non un capolavoro sotto tutti i punti di vista, ma senza dubbio un’opera di ottimo artigianato nostrano, e per di più prodotta all’estero con denaro non italiano. Vincitore del Nastro d’Argento (assegnato ad Antonioni) per il miglior film straniero ed anche della Palma d’oro a Cannes.

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