Un piccione seduto su un ramo riflette sull'esistenza |
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Un film di Roy Andersson.
Con Holger Andersson, Nisse Vestblom, Lotti Törnros, Charlotta Larsson, Viktor Gyllenberg.
continua»
Titolo originale En Duva Satt På En Gren Och Funderade På Tillvaron.
Commedia drammatica,
Ratings: Kids+16,
durata 100 min.
- Svezia 2014.
- Lucky Red
uscita giovedì 19 febbraio 2015.
MYMONETRO
Un piccione seduto su un ramo riflette sull'esistenza
valutazione media:
3,38
su
-1
recensioni di critica, pubblico e dizionari.
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Un piccione seduto su un ramo riflette sull'esistedi catcarloFeedback: 13499 | altri commenti e recensioni di catcarlo |
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martedì 24 febbraio 2015 | |||||||||||||||||||||||||||||||||||||
Spettatori all’interno di un cinema: perplessi. La citazione del film di Alexander Kluge è con molta probabilità più pertinente riguardo all’ermetico procedere di entrambe le pellicole –premiate a Venezia a distanza di quarantasei anni – che nei confronti del pubblico presente. Il quale, numeroso in maniera sorprendente, è sembrato tutt’altro che dubbioso nel proprio giudizio: chi dopo un’ora si è alzato e se ne è andato, chi ha tirato un rumoroso sospiro di sollievo ai titoli di coda, chi si è lasciato andare a giudizi poco lusinghieri (eufemismo) in modo che tutti sentissero. Reazioni senza dubbio eccessive, ma comprensibili nel loro rifiutare un’opera estremamente concettuale e complessa che fa di tutto per prendere contropelo chi guarda: eccessivo, però, pare anche il Leone d’Oro assegnato a un lavoro di grande, quasi ipnotico rigore formale, ma che nell’ultimo terzo perde qualche colpo per voler troppo aggiungere o forse troppo insistere. Insomma, un classico film da festival che, grazie al premio, anche i comuni spettatori hanno potuto vedere: minacciosi fin dal titolo – i titoli troppo lunghi (questo ispirato a un quadro di Bruegel) sono spesso segnale di difficoltà in arrivo – questi circa cento minuti partono da una riflessione sulla banalità dell’esistenza e la sviluppano in un modo che si avvicina assai all’astrazione. Eppure, attenzione: benché il tema e soprattutto il suo svolgimento siano quanto mai ardui e scostanti, per oltre un’ora Andersson riesce a farsi seguire senza che si avverta lo scorrere del tempo. Visto che si tratta di un film in cui, tanto per dirne una, non c’è un movimento di macchina, la capacità di mantenere l’attenzione sulla ripetitività del vivere quotidiano testimonia della qualità del lavoro del regista e sceneggiatore svedese. In ogni caso, la vita come tran-tran è legata in modo inestricabile con la morte, come testimoniano i tre quadri iniziali a quest’ultima espressamente dedicati in didascalia: dall’uomo che defunge stappando una bottiglia a quello già stecchito al self-service di un traghetto (col tizio che gli beve la birra già pagata) passando per l’avidità dei figli davanti alla madre morente inizia quel teatro dell’assurdo, condito di ironia acida e umorismo nero, che si sviluppa per il resto del lavoro. Di episodi ne seguono altri trentasei, tutti costruiti allo stesso modo: inquadratura fissa con molte figure immobili quasi a comporre un quadro, tempi dilatati, grandi silenzi (alcuni segmenti sono del tutto muti) interrotti da pochi dialoghi a volte senza senso, a volte all’apparenza fuori luogo. Il tutto finisce per regalare una sensazione di malessere, accentuata dalle tonalità freddissime della fotografia di István Borbás e Gergely Pálos nonchè dalle facce imbiancate degli attori, a partire da quelli che interpretano i due personaggi che fanno da (tenue) filo conduttore. Sam e Jonathan sono due agenti di commercio da strapazzo che cercano di piazzare il loro assurdo campionario da ‘intrattenimento’ – al livello di ‘tacchi, dadi, datteri’ – e nel frattempo si piangono addosso: attorno a loro si muove (si fa per dire) un campionario di figure stralunate (l’insegnante di flamenco dal cuore spezzato, il militare che ripete ‘naturalmente’, il capitano di nave riconvertito in barbiere e via elencando) in gran parte ingobbite e programmaticamente scostanti. In più ci sono un salto all’indietro nel tempo e l’irrompere del passato in un bar sotto le sembianze di Carlo XII e del suo esercito prima e dopo la battaglia di Poltava (c’è un raggio di sole nelle due scene subito seguenti – la mamma con la carrozzina, gli amanti sulla spiaggia – oppure no?): a furia di spezzettare, il gioco si fa meno efficace perché la coesione viene a mancare, lasciando spazio a un tedio fino a quel punto tenuto a bada. Non servono più neppure i tormentoni che percorrono tutto il film, come il tema di John Brown’s Body che caratterizza qualsiasi spunto musicale o sempre le stesse parole ripetute da chiunque parli in un telefono: a risentirne è soprattutto l’ancor più cupo finale (non a caso introdotto dalla didascalia ‘homo sapiens’) in cui si accentua il profondo pessimismo per un’umanità in via di regressione, tanto che, in fondo, l’unica scena che mostri un sussulto vitale è quella ambientata nel 1943. Così il Piccione unisce ai coraggiosi pregi anche qualche difetto, favorendo la perplessità di cui sopra: in fondo, è proprio così importante sapere se oggi è mercoledì o giovedì?
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